[Pagina precedente]...Quella non ha puntiglio!... Del canonico non ho paura... - E tutto sorridente poi colle signore:
- Ah!... donna Chiara!... La bella monaca che avete in casa!... Una vera grazia di Dio!...
- Eh, marchese? eh? Chi ve l'avrebbe detto, ai vostri tempi?... che sareste arrivato a vedere la processione del santo Patrono spalla a spalla con mastro-don Gesualdo, in casa Sganci! - riprese il barone Zacco, il quale pensava sempre a una cosa, e non poteva mandarla giù, guardando di qua e di là cogli occhiacci da spiritato, ammiccando alle donne per farle ridere.
Il marchese, impenetrabile, rispose solo:
- Eh, eh, caro barone! Eh, eh!
- Sapete quanto ha guadagnato nella fabbrica dei mulini mastro-don Gesualdo? - entrò a dire il notaro a mezza voce in aria di mistero. - Una bella somma! Ve lo dico io!... Si è tirato su dal nulla... Me lo ricordo io manovale, coi sassi in spalla... sissignore!... Mastro Nunzio, suo padre, non aveva di che pagare le stoppie per far cuocere il gesso nella sua fornace... Ora ha l'impresa del ponte a Fiumegrande!... Suo figlio ha sborsato la cauzione, tutta in pezzi da dodici tarì, l'un sull'altro... Ha le mani in pasta in tutti gli affari del comune... Dicono che vuol mettersi anche a speculare sulle terre... L'appetito viene mangiando... Ha un bell'appetito... e dei buoni denti, ve lo dico io!... Se lo lasciano fare, di qui a un po' si dirà che mastro-don Gesualdo è il padrone del paese!
Il marchese allora levò un istante la sua testolina di scimmia; ma poi fece una spallucciata, e rispose, con quel medesimo risolino tagliente:
- Per me... non me ne importa. Io sono uno spiantato.
- Padrone?... padrone?... quando saran morti tutti quelli che son nati prima di lui!... e meglio di lui! Venderò Fontanarossa; ma le terre del comune non me le toglie mastro-don Gesualdo! Né solo, né coll'aiuto della baronessa Rubiera!
- Che c'è? che c'è? - interruppe il notaro correndo al balcone, per sviare il discorso, poiché il barone non sapeva frenarsi e vociava troppo forte.
Giù in piazza, dinanzi al portone di casa Sganci, vedevasi un tafferuglio, dei vestiti chiari in mezzo alla ressa, berretti che volavano in aria, e un tale che distribuiva legnate a diritta e a manca per farsi largo. Subito dopo comparve sull'uscio dell'anticamera don Giuseppe Barabba, colle mani in aria strangolato dal rispetto.
- Signora!... signora!...
Era tutto il casato dei Margarone stavolta: donna Fifì, donna Giovannina, donna Mita, la mamma Margarone, donna Bellonia, dei Bracalanti di Pietraperzia, nientemeno, che soffocava in un busto di raso verde, pavonazza, sorridente; e dietro, il papà Margarone, dignitoso, gonfiando le gote, appoggiandosi alla canna d'India col pomo d'oro, senza voltar nemmeno il capo, tenendo per mano l'ultimo dei Margarone, Nicolino, il quale strillava e tirava calci perché non gli facevano vedere il santo dalla piazza. Il papà, brandendo la canna d'India, voleva insegnargli l'educazione.
- Adesso? - sogghignò il marchese per calmarlo. - Oggi ch'è festa? Lasciatelo stare quel povero ragazzo, don Filippo!
Don Filippo lasciò stare, limitandosi a lanciare di tanto in tanto qualche occhiataccia autorevole al ragazzo che non gli badava. Intanto gli altri facevano festa alle signore Margarone: - Donna Bellonia!... donna Fifì!... che piacere, stasera!... - Perfino don Giuseppe Barabba, a modo suo, sbracciandosi a portar delle altre seggiole e a smoccolare i lumi. Poi dal balcone si mise a fare il telegrafo con qualcuno ch'era giù in piazza, gridando per farsi udire in mezzo al gran brusìo della folla: - Signor barone! signor barone! - Infine corse dalla padrona, trionfante:
- Signora! signora! Eccolo che viene! ecco don Ninì!.
Donna Giuseppina Alòsi abbozzò un sorrisetto alla gomitata che le piantò nei fianchi il barone Zacco. La signora Capitana invece si rizzò sul busto - come se sbocciassero allora le sue belle spalle nude dalle maniche rigonfie.
- Sciocco! Non ne fai una bene! Cos'è questo fracasso? Non è questa la maniera!
Don Giuseppe se ne andò brontolando.
Ma in quella entrava don Ninì Rubiera, un giovanotto alto e massiccio che quasi non passava dall'uscio, bianco e rosso in viso, coi capelli ricciuti, e degli occhi un po' addormentati che facevano girare il capo alle ragazze. Donna Giovannina Margarone, un bel pezzo di grazia di Dio anch'essa, cinghiata nel busto al pari della mamma, si fece rossa come un papavero, al vedere entrare il baronello. Ma la mamma le metteva sempre innanzi la maggiore, donna Fifì, disseccata e gialla dal lungo celibato, tutta pelosa, con certi denti che sembrava volessero acchiappare un marito a volo, sopraccarica di nastri, di fronzoli e di gale, come un uccello raro.
- Fifì vi ha scoperto per la prima in mezzo alla folla!... Che folla, eh? Mio marito ha dovuto adoperare il bastone per farci largo. Proprio una bella festa! Fifì ci ha detto: Ecco lì il baronello Rubiera, vicino al palco della musica...
Don Ninì guardava intorno inquieto. A un tratto scoprendo la cugina Bianca rincantucciata in fondo al balcone del vicoletto, smorta in viso, si turbò, smarrì un istante il suo bel colorito fiorente, e rispose balbettando:
- Sissignora... infatti... sono della commissione...
- Bravo! bravo! Bella festa davvero! Avete saputo far le cose bene!... E vostra madre, don Ninì?...
- Presto! presto! - chiamò dal balcone la zia Sganci. - Ecco qui il santo!
Il marchese Limòli, che temeva l'umidità della sera, aveva afferrato la mamma Margarone pel suo vestito di raso verde e faceva il libertino: - Non c'è furia, non c'è furia! Il santo torna ogni anno. Venite qua, donna Bellonia. Lasciamo il posto ai giovani, noi che ne abbiamo viste tante delle feste!
E continuava a biasciarle delle barzellette salate nell'orecchio che sembrava arrossire dalla vergogna; divertendosi alla faccia seria che faceva don Filippo sul cravattone di raso; mentre la signora Capitana, per far vedere che sapeva stare in conversazione, rideva come una matta, chinandosi in avanti ogni momento, riparandosi col ventaglio per nascondere i denti bianchi, il seno bianco, tutte quelle belle cose di cui studiava l'effetto colla coda dell'occhio, mentre fingeva d'andare in collera allorché il marchese si pigliava qualche libertà soverchia - adesso che erano soli - diceva lui col suo risolino sdentato di satiro.
- Mita! Mita! - chiamò infine la mamma Margarone.
- No! no! Non mi scappate, donna Bellonia!... Non mi lasciate solo con la signora Capitana... alla mia età!... Donna Mita sa quel che deve fare. E' grande e grossa quanto le sue sorelle messe insieme; ma sa che deve fare la bambina, per non far torto alle altre due.
Il notaro Neri, che per la sua professione sapeva i fatti di tutto il paese e non aveva peli sulla lingua, domandò alla signora Margarone:
- Dunque, ce li mangeremo presto questi confetti pel matrimonio di donna Fifì?
Don Filippo tossì forte. Donna Bellonia rispose che sino a quel momento erano chiacchiere: la gente parlava perché sapeva don Ninì Rubiera un po' assiduo con la sua ragazza:
- Nulla di serio. Nulla di positivo... - Ma le si vedeva una gran voglia di non esser creduta. Il marchese Limòli al solito trovò la parola giusta:
- Finché i parenti non si saranno accordati per la dote, non se ne deve parlare in pubblico.
Don Filippo affermò col capo, e donna Bellonia, vista l'approvazione del marito, s'arrischiò a dire:
- E' vero.
- Sarà una bella coppia! - soggiunse graziosamente la signora Capitana.
Il cavaliere Peperito, onde non stare a bocca chiusa come un allocco, in mezzo al crocchio dove l'aveva piantato donna Giuseppina per non dar troppo nell'occhio, scappò fuori a dire:
- Però la baronessa Rubiera non è venuta!... Come va che la baronessa non è venuta dalla cugina Sganci?
Ci fu un istante di silenzio. Solo il barone Zacco, da vero zotico, per sfogare la bile che aveva in corpo, si diede la briga di rispondere ad alta voce, quasi fossero tutti sordi:
- E' malata!... Ha mal di testa!... - E intanto faceva segno di no col capo. Poscia, ficcandosi in mezzo alla gente, a voce più bassa, col viso acceso:
- Ha mandato mastro-don Gesualdo in vece sua!... il futuro socio!... sissignore!... Non lo sapete? Piglieranno in affitto le terre del comune... quelle che abbiamo noi da quarant'anni... tutti i Zacco, di padre in figlio!...!... Una bricconata! Una combriccola fra loro tre: Padre figliuolo e spirito santo! La baronessa non ha il coraggio di guardarmi in faccia dopo questo bel tiro che vogliono farmi... Non voglio dire che sia rimasta a casa per non incontrarsi con me... Che diavolo! Ciascuno fa il suo interesse... Al giorno d'oggi l'interesse va prima della parentela... Io poi non ci tengo molto alla nostra... Si sa da chi è nata la baronessa Rubiera!... E poi fa il suo interesse... Sissignore!... Lo so da gente che può saperlo!... Il canonico le fa da suggeritore; mastro-don Gesualdo ci mette i capitali, e la baronessa poi... un bel nulla... l'appoggio del nome!... Vedremo poi quale dei due conta di più, fra il suo e il mio!... Oh, se la vedremo!... Intanto per provare cacciano innanzi mastro-don Gesualdo... vedete, lì, nel balcone dove sono i Trao?...
- Bianca! Bianca! - chiamò il marchese Limòli.
- Io, zio?
- Sì, vieni qua. - Che bella figurina! - osservò la signora Capitana per adulare il marchese, mentre la giovinetta attraversava la sala, timida, col suo vestito di lanetta, l'aria umile e imbarazzata delle ragazze povere.
- Sì, - rispose il marchese. - E' di buona razza.
- Ecco! ecco! - si udì in quel momento fra quelli ch'erano affacciati. - Ecco il santo!
Peperito colse la palla al balzo e si cacciò a capo fitto nella folla dietro la signora Alòsi. La Capitana si levò sulla punta dei piedi; il notaro, galante, proponeva di sollevarla fra le braccia. Donna Bellonia corse a far la mamma, accanto alle sue creature; e suo marito si contentò di montare su di una sedia, per vedere.
- Cosa ci fai lì con mastro-don Gesualdo? - borbottò il marchese, rimasto solo colla nipote.
Bianca fissò un momento sullo zio i grandi occhi turchini e dolci, la sola cosa che avesse realmente bella sul viso dilavato e magro dei Trao, e rispose:
- Ma... la zia l'ha condotto lì...
- Vieni qua, vieni qua. Ti troverò un posto io.
Tutt'a un tratto la piazza sembrò avvampare in un vasto incendio, sul quale si stampavano le finestre delle case, i cornicioni dei tetti, la lunga balconata del Palazzo di Città, formicolante di gente. Nel vano dei balconi le teste degli invitati che si pigiavano, nere in quel fondo infuocato; e in quello di centro la figura angolosa di donna Fifì Margarone, sorpresa da quella luce, più verde del solito, colla faccia arcigna che voleva sembrar commossa, il busto piatto che anelava come un mantice, gli occhi smarriti dietro le nuvole di fumo, i denti soli rimasti feroci; quasi abbandonandosi, spalla a spalla contro il baronello Rubiera, il quale sembrava pavonazzo a quella luce, incastrato fra lei e donna Giovannina; mentre Mita sgranava gli occhi di bambina, per non vedere, e Nicolino andava pizzicando le gambe della gente, per ficcarvi il capo framezzo e spingersi avanti.
- Cos'hai? ti senti male? - disse il marchese vedendo la nipote così pallida.
- Non è nulla... E' il fumo che mi fa male... Non dite nulla, zio! Non disturbate nessuno!...
Di tanto in tanto si premeva sulla bocca il fazzolettino di falsa batista ricamato da lei stessa, e tossiva, adagio adagio, chinando il capo; il vestito di lanetta le faceva delle pieghe sulle spalle magre. Non diceva nulla, stava a guardare i fuochi, col viso affilato e pallido, come stirato verso l'angolo della bocca, dove erano due pieghe dolorose, gli occhi spalancati e lucenti, quasi umidi. Soltanto la mano colla quale appoggiavasi alla spalliera della seggiola era un po' tremante e l'altra distesa lungo il fianco si apriva e chiudeva macchinalmente: delle mani scarne e bianche che spasimavano.
- Viva il santo Patrono! Viva san Gregorio Magno! - Nella folla, laggiù in piazza, il canonico Lupi, il quale urlava come...
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