[Pagina precedente]...o dei loro abiti vistosi. Com'era stretta e squallida invece, con quell'alto muro lebbroso che l'aduggiava! e come era divenuta vecchia donna Giovannina, che rivedeva seduta in mezzo ai vasi di fiori polverosi, facendo la calza, vestita di nero, enorme! In fondo al vicoletto rannicchiavasi la casuccia del nonno Motta. Allorché il babbo ve la condusse trovarono la zia Speranza che filava, canuta, colle grinze arcigne. C'erano dei mattoni smossi dove inciampavasi, un ragazzaccio scamiciato il quale levò il capo da un basto che stava accomodando, senza salutarli. Mastro Nunzio gemeva in letto coi reumatismi, sotto una coperta sudicia:
- Ah, sei venuto a vedermi? Credevi che fossi morto? No, no, non son morto. E' questa la tua ragazza? Me l'hai portata qui per farmela vedere?... E' una signorina, non c'è che dire! Gli hai messo anche un bel nome! Tua madre però si chiamava Rosaria! Lo sai? Scusatemi, nipote mia, se vi ricevo in questo tugurio... Ci son nato, che volete... Spero di morirci... Non ho voluto cambiarlo col palazzo dove pretendeva chiudermi vostro padre... Io sono avvezzo ad uscir subito in istrada appena alzato... No, no, è meglio pensarci prima. Ciascuno com'è nato. - Speranza grugniva delle altre parole che non si udivano bene. Il ragazzaccio li accompagnò cogli occhi sino all'uscio, quando se ne andarono.
Intanto incalzavano le voci di colèra. A Catania c'era stata una sommossa. Giunse da Lentini don Bastiano Stangafame insieme a donna Fifì la quale pareva avesse già il male addosso, verde, impresciuttita, narrando cose che dovevano averle fatto incanutire i capelli in ventiquattr'ore. A Siracusa una giovinetta bella come la Madonna, la quale ballava sui cavalli ammaestrati in teatro, e andava spargendo il colèra con quel pretesto, era stata uccisa a furor di popolo. La gente insospettita stava a vedere, facendo le provviste per svignarsela dal paese, al primo allarme, e spiando ogni viso nuovo che passasse.
In quel tempo erano capitati due merciai che portavano nastri e fazzoletti di seta. Andavano di casa in casa a vendere la roba, e guardavano dentro gli usci e nei cortili. Le Margarone che spendevano allegramente per azzimarsi, quasi fossero ancora di primo pelo, fecero molte compere; anzi non trovandosi denari spiccioli, quei galantuomini dissero che sarebbero ripassati a prenderli il giorno dopo.
Invece spuntò il giorno del Giudizio Universale. Ciolla era andato a ricorrere dal giudice che gli avevano avvelenate le galline: le portava a prova in mano, ancora calde. Tornò in casa don Nicolino scalmanato, ordinando alle sorelle di sprangare usci e finestre e non aprire ad anima viva. Il dottor Tavuso fece chiudere anche lo sportello della cisterna. I galantuomini, rammentandosi il bel soggetto ch'era il Ciolla, quello ch'era stato in Castello colle manette, sedici anni prima, si armarono sino ai denti, e si misero a perlustrare il paese, se mai gli tornava il ghiribizzo di voler pescare nel torbido. La parola d'ordine era, sparargli addosso senza misericordia al primo allarme. I due merciai non si videro più. Prima di sera cominciarono a sfilare le vetture cariche che scappavano dal paese. Dopo l'avemaria non andava anima viva per le strade. Giunse tardi una lettiga, che portava don Corrado La Gurna, vestito di nero, col fazzoletto agli occhi. I cani abbaiarono tutta la notte.
Il panico poi non ebbe limiti allorché si vide scappare la baronessa Rubiera, paralitica, su di una sedia a bracciuoli, poiché nella portantina non entrava neppure, tanto era enorme, portata a fatica da quattr'uomini, colla testa pendente da un lato, il faccione livido, la lingua pavonazza che usciva a metà dalle labbra bavose, gli occhi soltanto vivi e inquieti, le mani da morta agitate da un tremito continuo. E dietro, il baronello invecchiato di vent'anni, curvo, grigio, carico di figliuoli, colla moglie incinta ancora, e gli altri figli del primo letto. Empivano la strada dove passavano: uno sgomento. La povera gente che era costretta a rimanere in paese stava a guardare atterrita. Nelle chiese avevano esposto il Sacramento. Tacquero allora vecchi rancori, e si videro fattori restituire il mal tolto ai loro padroni. Don Gesualdo aprì le braccia e i magazzini ai poveri e ai parenti; tutte le sue case di campagna alla Canziria e alla Salonia. A Mangalavite, dove aveva pure dei casamenti vastissimi, parlò di riunire tutta la famiglia.
- Ora corro da mio padre per cercare d'indurlo a venire con noi. Tu intanto va da tuo fratello, - disse a Bianca. - Fagli capire che adesso son tempi da mettere una pietra sul passato, gli avessi fatto anche un tradimento... Abbiamo il colèra sulle spalle... Il sangue non è acqua infine! Non possiamo lasciare quel povero vecchio solo in mezzo al colèra... Mi pare che la gente avrebbe motivo di sparlare dei fatti nostri, eh?...
- Voi avete il cuore buono! - balbettò la moglie sentendosi intenerire. - Voi avete il cuore buono!
Ma don Ferdinando non si lasciò persuadere. Era occupatissimo ad incollare delle striscie di carta a tutte le fessure delle imposte, con un pentolino appeso al collo, arrampicato su di una scala a piuoli.
- Non posso lasciar la casa, - rispose. - Ho tanto da fare!... Vedi quanti buchi?... Se viene il colèra... Bisogna tapparli tutti...
Inutilmente la sorella tornava a pregare e scongiurare - Non mi lasciate questo rimorso, don Ferdinando!... Come volete che chiuda occhio la notte, sapendovi solo in casa?...
- Ah! ah!... - rispose lui con un sorriso ebete. - La notte non me lo soffiano il colèra!... Chiuderò tutte le fessure... guarda!
E tornava a ribattere: - Non posso lasciar la casa sola... Ho da custodire le carte di famiglia...
La moglie del sagrestano, che vide uscire donna Bianca desolata dal portone, le corse dietro piangendo:
- Non ci vedremo più!... Tutti se ne vanno... Non avremo per chi sonare messa e mattutino!
Anche mastro Nunzio s'era rifiutato ad andare col figliuolo.
- Io mangio colle mani, figliuol mio. Arrossiresti di tuo padre a tavola... Sono uno zotico... Non sono da mettermi insieme ai signori!... No, no! è meglio pensarci prima! Meglio crepar di colèra che di bile!... Poi, sai? io sono avvezzo ad esser padrone in casa mia... Sono un villano... Non so starci sotto le scarpe della moglie, no!
Speranza mostrò Burgio allettato anche lui dalla malaria.
- Noi non usiamo abbandonare i nostri nel pericolo!... Mio marito non può muoversi, e noi non ci muoviamo!... Ecco come siam noi!... Lo sapete quello che ci vuole a mantenere una famiglia intera, col marito confinato in letto!... -
Ma non t'ho sempre detto che sarai la padrona!... Tutto quello che vuoi!... - esclamò infine Gesualdo.
- No!... Non vi ho chiesto l'elemosina!... Non accetteremmo nulla, se non fosse pel bisogno... grazie a Dio!... Poiché ci fate la carità , andremo alla Canziria... Non temete! Così la gente non potrà dire che avete abbandonato vostro padre in mezzo al colèra!... Voi pensate a mandarci le provviste... Non possiamo pascerci d'erba come le bestie!... sentite... Se avete pure qualche vestito smesso di vostra figlia, di quelli proprio che non possono più servirle... Già lei è una signora, ma saranno sempre buoni per noi poveretti!...
I Margarone partirono subito per Pietraperzia; tutti ancora in lutto per don Filippo, morto dai crepacuori che gli dava il genero don Bastiano Stangafame, ogni volta che gli bastonava Fifì se non mandava denari. Annebbiavano una strada.
Il barone Mèndola, che faceva la corte alla zia Sganci, se la condusse a Passaneto, e ci prese le febbri, povera vecchia. Zacco e il notaro Neri partirono per Donferrante. Era uno squallore pel paese. A ventitré ore non si vedeva altri lungo la via di San Sebastiano che il marchese Limòli, per la sua solita passeggiatina del dopopranzo. E gli fecero sapere anzi che destava dei sospetti con quelle gite, e volevano fargli la festa al primo caso di colèra.
- Eh? - disse lui. - La festa? Ci avete a pensar voialtri, che vi tocca pagar le spese. Io fo quello che ho fatto sempre, se no crepo egualmente.
E alla nipote che lo scongiurava di andar con lei a Mangalavite:
- Hai paura di non trovarmi più?... No, no, non temere; il colèra non sa che farsene di me.
Mentre Bianca e la figliuola stavano per montare in lettiga, giunse la zia Cirmena, disperata.
- Avete visto? Tutti se ne vanno! I parenti mi voltano le spalle!... E m'è cascato addosso anche quel povero orfanello di Corrado La Gurna... Una tragedia a casa sua!... Padre e madre in una notte... fulminati dal colèra!... Nessuno ha il mio cuore, no!... Una povera donna senza aiuto e che non sa dove andare!... Se mi date la chiave delle due camerette che avete laggiù a Mangalavite, vicino alla vostra casina!... le camere del palmento... Siete il solo parente a cui ricorrere, voi, don Gesualdo!...
- Sì, sì, - rispose lui - ma non lo dite agli altri...
- Glielo dirò anzi!... Voglio rinfacciarlo a tutti quanti, se campo!
II
Quella che chiamavano la casina, a Mangalavite, era un gran casamento annidato in fondo alla valletta. Isabella dalla sua finestra vedeva il largo viale alpestre fiancheggiato d'ulivi, la folta macchia verde che segnava la grotta dove scorreva l'acqua, le balze in cui serpeggiava il sentiero, e più in su l'erta chiazzata di sommacchi, Budarturo brullo e sassoso nel cielo che sembrava di smalto. La sola pennellata gaia era una siepe di rose canine sempre in fiore all'ingresso del viale, dimenticate per incuria.
Pei dirupi, ogni grotta, le capannuccie nascoste nel folto dei fichidindia, erano popolate di povera gente scappata dal paese per timore del colèra. Tutt'intorno udivasi cantare i galli e strillare dei bambini; vedevansi dei cenci sciorinati al sole, e delle sottili colonne di fumo che salivano qua e là attraverso gli alberi. Verso l'avemaria tornavano gli armenti negli ovili addossati al casamento, branchi interi di puledri e di buoi che si raccoglievano nei cortili immensi. Tutta la notte poi era un calpestìo irrequieto, un destarsi improvviso di muggiti e di belati, uno scrollare di campanacci, un sito di stalla e di salvatico che non faceva chiudere occhio ad Isabella. Di tanto in tanto correva una fucilata pazza per le tenebre, lontano; giungevano sin laggiù delle grida selvagge d'allarme; dei contadini venivano a raccontare il giorno dopo di aver sorpreso delle ombre che s'aggiravano furtive sui precipizi; la zia Cirmena giurava di aver visto dei razzi solitarii e luminosi verso Donferrante. E subito spedivano gente ad informarsi se c'erano stati casi di colèra. Il barone Zacco ch'era da quelle parti, rispondeva invece che i fuochi si vedevano verso Mangalavite.
Don Gesualdo, meno la paura dei razzi che si vedevano la notte, e il sospetto di ogni viso nuovo che passasse pei sentieri arrampicati lassù sui greppi, ci stava come un papa fra i suoi armenti, i suoi campi, i suoi contadini, le sue faccende, sempre in moto dalla mattina alla sera, sempre gridando e facendo vedere la sua faccia da padrone da per tutto. La sera poi si riposava, seduto in mezzo alla sua gente, sullo scalino della gradinata che saliva al viale, dinanzi al cancello, in maniche di camicia, godendosi il fresco e la libertà della campagna, ascoltando i lamenti interminabili e i discorsi sconclusionati dei suoi mezzaiuoli. Alla moglie, che l'aria della campagna faceva star peggio, soleva dire per consolarla: - Qui almeno non hai paura d'acchiappare il colèra. Finché non si tratta di colèra il resto è nulla. - Lì egli era al sicuro dal colèra, come un re nel suo regno, guardato di notte e di giorno - a ogni contadino aveva procurato il suo bravo schioppo, dei vecchi fucili a pietra nascosti sotto terra fin dal 12 o dal 21 e teneva dei mastini capaci di divorare un uomo. Faceva del bene a tutti; tutti che si sarebbero fatti ammazzare per guardargli la pelle in quella circostanza. Grano, fave, una botte di vino guastatosi da poco. Ognuno che avesse bisogno correva da lui per domandargli in prestito quel che gli occorreva. Lui colle mani ap...
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