[Pagina precedente]...ase, di pigliarsela coi maiali e colle galline, per tener lontano il colèra! Adesso il veleno ce lo portano le bestie del Signore, che non hanno malizia! avete inteso, vossignoria?... Roba da accopparli tutti quanti sono, medici, preti e speziali, perché loro ogni cristiano che mandano al mondo della verità si pigliano dodici tarì dal re! E l'arciprete Bugno ha avuto il coraggio di predicarlo dall'altare: - Figliuoli miei, so che ce l'avete con me, a causa del colèra. Ma io sono innocente. Ve lo giuro su quest'ostia consacrata! - Io non so s'era innocente o no. So che ha acchiappato il colèra anche lui, perché teneva in casa quelle bottiglie che mandano da Napoli per far morire i cristiani. Io non so niente. Il fatto è che i morti fioccano come le mosche: Donna Marianna Sganci, Peperito...
III
Allorché giunsero alla Salonia trovarono che tutti gli altri inquilini della fattoria caricavano muli ed asinelli per fuggirsene. Inutilmente Bomma, che era venuto dalla vigna, lì vicino, si sgolava a gridare:
- Bestie! s'è una perniciosa!... se ha una febbre da cavallo! Non si muore di colèra con la febbre!
- Non me ne importa s'è una perniciosa! - borbottò infine Giacalone. - I medici già son pagati per questo!...
Mastro Nunzio stava male davvero: la morte gli aveva pizzicato il naso e gli aveva lasciato il segno delle dita sotto gli occhi, un'ombra di filiggine che gli tingeva le narici assottigliate, gli sprofondava gli occhi e la bocca sdentata in fondo a dei buchi neri, gli velava la faccia terrea e sporca di peli grigi. Aprì quegli occhi a stento, udendo suo figlio Gesualdo che gli stava dinanzi al letto, e disse colla voce cavernosa:
- Ah! sei venuto a vedere la festa, finalmente?
Santo, come un allocco, stava seduto sullo scalino dell'uscio, senza dir nulla, coi lucciconi agli occhi. Burgio e sua moglie si affrettavano a insaccare un po' di grano, per non morir di fame dove andavano, appena avrebbe chiusi gli occhi il vecchio. Nel cortile c'erano anche le mule cariche di roba. Don Gesualdo afferrò pel vestito Bomma, il quale stava per andarsene anche lui.
- Che si può fare, don Arcangelo? Comandate! Tutto quello che si può fare, per mio padre... tutto quello che ho!... Non guardate a spesa...
- Eh! avrete poco da spendere... Non c'è nulla da fare... Sono venuto tardi. La china non giova più!... una perniciosa coi fiocchi, caro voi! Ma però non muore di colèra, e non c'è motivo di spaventare tutto il vicinato, come fanno costoro!
Il vecchio stava a sentire, cogli occhi inquieti e sospettosi in fondo alle orbite nere. Guardava Gesualdo che si affannava intorno al farmacista, Speranza la quale strillava e singhiozzava aiutando il marito ne' preparativi della partenza, Santo che non si muoveva, istupidito, i nipoti qua e là per la casa e nel cortile, e Bomma che gli voltava le spalle, scrollando il capo, facendo gesti d'impazienza. Speranza infine andò a consegnare le chiavi a suo fratello, seguitando a brontolare:
- Ecco! Mi piace che siete venuto... Così non direte che vogliamo fare man bassa sulla roba, io e mio marito, appena chiude gli occhi nostro padre...
- Non sono ancora morto, no! - si lamentò il vecchio dal suo cantuccio. Allora si alzò come una furia l'altro figliuolo, Santo, con la faccia sudicia di lagrime, vociando e pigliandosela con tutti quanti:
- Il viatico che non glielo date, razza di porci?... Che lo fate morire peggio di un cane?...
- Non sono ancora morto! - piagnucolò di nuovo il moribondo. - Lasciatemi morire in pace, prima!...
- Non è per la roba, no! - gli rispose il genero Burgio accostandosi al letto e chinandosi sul malato come parlasse a un bambino: - Anzi è per vostro amore che vogliamo farvi confessare e comunicare prima di chiudere gli occhi.
- Ah!... ah!... Non vi par l'ora!... Lasciatemi in pace... lasciatemi!...
Giunse la sera e passò la notte a quel modo. Mastro Nunzio nell'ombra stava zitto e immobile, come un pezzo di legno; soltanto ogni volta che gli facevano inghiottire a forza la medicina, gemeva, sputava, e lamentavasi ch'era amara come il veleno, ch'era morto, che non vedevano l'ora di levarselo dinanzi. Infine, perché non lo seccassero, voltò il naso contro il muro, e non si mosse più. - Poteva essere mezzanotte, sebbene nessuno s'arrischiasse ad aprire la finestra per guardar le stelle. - Speranza ogni tanto s'accostava al malato in punta di piedi, lo toccava, lo chiamava adagio adagio; ma lui zitto. Poi tornava a discorrere sottovoce col marito che aspettava tranquillamente, accoccolato sullo scalino, dormicchiando. Gesualdo stava seduto dall'altra parte col mento fra le mani. In fondo allo stanzone si udiva il russare di Santo. I nipoti erano già partiti colla roba, insieme agli altri inquilini e un gatto abbandonato s'aggirava miagolando per la fattoria, come un'anima di Purgatorio: una cosa che tutti alzavano il capo trasalendo, e si facevano la croce al vedere quegli occhi che luccicavano nel buio, fra le travi del tetto e i buchi del muro; e sulla parete sudicia vedevasi sempre l'ombra del berretto del vecchio, gigantesca, che non dava segno di vita. Poi, tre volte, si udì cantare la civetta.
Quando Dio volle, a giorno fatto, dopo un pezzo che il giorno trapelava dalle fessure delle imposte e faceva impallidire il lume posato sulla botte, Burgio si decise ad aprire l'uscio. Era una giornata fosca, il cielo coperto, un gran silenzio per la pianura smorta e sassosa. Dei casolari nerastri qua e là , l'estremità del paese sulla collina in fondo, sembravano sorgere lentamente dalla caligine, deserti e silenziosi. Non un uccello, non un ronzìo, non un alito di vento. Solo un fruscìo fuggì spaventato fra le stoppie all'affacciarsi che fece Burgio, sbadigliando e stirandosi le braccia.
- Massaro Fortunato!... venite qua, venite! - chiamò in quel punto la moglie colla voce alterata.
Gesualdo chino sul lettuccio del genitore, lo chiamava, scuotendolo. La sorella, arruffata, discinta, che sembrava più gialla in quella luce scialba, preparavasi a strillare. Infine Burgio, dopo un momento, azzardò la sua opinione: - Signori miei, a me sembra morto di cent'anni.
Scoppiò allora la tragedia. Speranza cominciò a urlare e a graffiarsi la faccia. Santo, svegliato di soprassalto, si dava dei pugni in testa, fregandosi gli occhi, piangendo come un ragazzo. Il più turbato di tutti però era don Gesualdo, sebbene non dicesse nulla, guardando il morto che guardava lui colla coda dell'occhio appannato. Poi gli baciò la mano, e gli coprì la faccia col lenzuolo. Speranza, inconsolabile, minacciava di correre al paese per buttarsi nella cisterna, di lasciarsi morir di fame: - Cosa ci fo più al mondo adesso? Ho perso il mio sostegno! la colonna della casa! - Quel piagnisteo durò la giornata intera. Inutilmente il marito per consolarla le diceva che don Gesualdo non li avrebbe abbandonati. Erano tutti figli suoi, orfanelli bisognosi. Santo col viso sudicio guardava or questo e or quello come aprivano bocca. - No! - s'ostinava Speranza. - E' morto, ora, mio padre! Non c'è nessuno che pensi a noi!
Gesualdo che l'aveva lasciata sfogare un pezzo tentennando il capo, cogli occhi gonfi, le disse infine:
- Hai ragione!... Non ho fatto mai nulla per voialtri!... Hai ragione di lagnarti della buona misura!...
- No, - interruppe Burgio. - No! Parole che scappano nel brucio, cognato.
Intanto bisognava pensare a seppellire il morto, senza un cane che aiutasse, a pagarlo tant'oro! Un falegname, lì al Camemi, mise insieme alla meglio quattro asserelle a mo' di bara, e mastro Nardo scavò la buca dietro la casa. Poi Santo e don Gesualdo dovettero fare il resto colle loro mani. Burgio però stava a vedere da lontano, timoroso del contagio, e sua moglie piagnucolava che non le bastava l'animo di toccare il morto. Le faceva male al cuore, sì! Dopo, asciugatisi gli occhi, rifatto il letto, rassettata la casa, nel tempo che mastro Nardo preparava le cavalcature, e aspettavano seduti in crocchio, ella attaccò il discorso serio.
- E ora, come restiamo intesi?
Tutti quanti si guardarono in faccia a quell'esordio. Massaro Fortunato tormentava la nappa della berretta, e Santo sgranò gli occhi. Don Gesualdo però non aveva capito l'antifona, col viso in aria, cercava il verbo.
- Come restiamo intesi? Perché? Di che cosa?
- Per discorrere dei nostri interessi, eh? Per dividerci l'eredità che ha lasciato quella buon'anima, tanto paradiso! Siamo tre figliuoli... Ciascuno la sua parte... secondo vi dice la coscienza... Voi siete il maggiore, voi fate le parti... e ciascuno di noi piglia la sua... Però se ci avete il testamento... Non dico... Allora tiratelo fuori, e si vedrà .
Don Gesualdo, che era don Gesualdo, rimase a bocca aperta a quel discorso. Stupefatto, cercava le parole, balbettava:
- L'eredità ?... Il testamento?... La parte di che cosa?...
Allora Speranza infuriò. - Come? Di questo si parlava. Non erano tutti figli dello stesso padre? E il capo della casa chi era stato? Sinora aveva avuto le mani in pasta don Gesualdo, vendere, comprare... Ora, ciascuno doveva avere la sua parte. Tutto quel ben di Dio, quelle belle terre, la Canziria, la Salonia stessa dove avevano i piedi, erano forse piovuti dal cielo? - Burgio, più calmo, metteva buone parole; diceva che non era quello il momento, col morto ancora caldo. Tappava la bocca alla moglie; cacciava indietro il cognato Santo, il quale aveva aperto tanto d'orecchi e vociava: - No, no, lasciatela dire! - Infine volle che si abbracciassero, lì, nella stanza dove erano rimasti poveri orfanelli. Don Gesualdo era un galantuomo, un buon cuore. Non l'avrebbe fatta una porcheria. - Non scappate! Sentite qua! Non è vero? Non siete un galantuomo?
- No! no! Lasciatemi sentire quello che pretendono. E' meglio spiegarsi chiaro.
Ma la sorella non gli dava più retta, seduta su di un sasso, fuori dell'uscio, borbottando fra di sè. Massaro Fortunato toccò pure degli altri tasti: il gastigo di Dio che avevano sulle spalle, l'ora che si faceva tarda. Intanto mastro Nardo tirò fuori la mula dalla stalla. Rimasero ancora un pezzetto lì fuori a tenersi il broncio. Poi don Gesualdo propose di condurseli tutti a Mangalavite. Il cognato Burgio serrava l'uscio a chiave, e caricava sul basto i pochi panni, che aveva raccolti in un fagottino. Speranza non rispose subito all'invito del fratello, sciorinando lo scialle per accingersi alla partenza, guardando di qua e di là , cogli occhi torvi. Infine spiattellò quel che aveva sullo stomaco:
- A Mangalavite?... No, grazie tante!... Cosa ci verrei a fare... se dite che è roba vostra?... Sarebbe anche un disturbo per vostra moglie e la figliuola... due signore avvezze a stare coi loro comodi... Noi poveretti ci accomodiamo alla meglio... Andremo alla Canziria. Andremo piuttosto alla fornace del gesso che ha lasciato mio padre, buon'anima... Quella sì!... Colà almeno saremo a casa nostra. Non direte d'averla comperata coi vostri guadagni la fornace del gesso!... No, no, sto zitta, massaro Fortunato! Se ne parlerà poi, chi campa. Chi campa tutto l'anno vede ogni festa. Vi saluto, don Gesualdo. Sarà quel che vuol Dio. Beato quel poveretto che adesso è tranquillo, sottoterra!...
Brontolava ancora ch'era già in viaggio, sballottata dall'ambio della cavalcatura, colla schiena curva, e il vento che le gonfiava lo scialle dietro. Don Gesualdo montò a cavallo lui pure, e se ne andò dall'altra parte, col cuore grosso dell'ingratitudine che raccoglieva sempre, voltandosi indietro, di tanto in tanto, a guardare la fattoria rimasta chiusa e deserta, accanto alla buca ancora fresca, e la cavalcata dei suoi che si allontanavano in fila, uno dopo l'altro, di già come punti neri nella campagna brulla che s'andava oscurando. Dopo un pezzetto, mastro Nardo che ci aveva pensato su, fece l'orazione del morto:
- Poveretto! Ha lavorato tanto... per tirare su i figliuoli... per lasciarli ricchi... Ora è sotto terra! Vi rammentate, vossignoria, quando è rovinato il ponte, a Fiumegrande, e voleva annegarsi?... Ecco cos'è il mond...
[Pagina successiva]