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Sorrise anch'essa, pulendosi la bocca un'altra volta col dorso della mano, tutta rossa.
- Tanta salute a vossignoria!
Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su di un covone, accanto all'uscio, colle spalle al muro, le mani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere già alta, dietro il monte, verso Francofonte. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d'alba. A poco a poco, al dilagar di quel chiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si movevano per la china, e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso, mentre scendeva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente, e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi. Nell'aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d'argento, e nell'ombra si accennavano confusamente altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un'altra striscia d'argento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio.
- Eh? Diodata? Dormi, marmotta?...
- Nossignore, no!...
Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanzi all'uscio, buttando via le frasche, carponi, fregandosi gli occhi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal sonno, col mento rilassato, le gambe fiacche.
- Dormivi!... Se te l'ho detto che dormivi!...
E le assestò uno scapaccione come carezza.
Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto... gli sembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso dalla fornace di suo padre, a Donferrante! Quante volte l'aveva fatta quella strada di Licodia, dietro gli asinelli che cascavano per via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolo, con la funicella stessa della soma... Erano dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca ogni asino morto al poveruomo! - Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d'allora; Speranza che cominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tredici mesi dell'anno!... - Più colpi di funicella che pane! - Poi quando il Mascalise, suo zio, lo condusse seco manovale, a cercar fortuna... Il padre non voleva, perché aveva la sua superbia anche lui, come uno che era stato sempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva di vedere il sangue suo al comando altrui. - Ci vollero sette anni prima che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo... la fabbrica del Molinazzo... Circa duecento salme di gesso che andarono via dalla fornace al prezzo che volle mastro Nunzio... e la dote di Speranza anche, perché la ragazza non poteva più stare in casa... - E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!... - Mastro Nunzio non voleva saperne... Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. "Fa l'arte che sai!" - Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misurarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle gambe la canna dell'agrimensore... E ordinava "bisogna far questo e quest'altro" per usare del suo diritto, e non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine della sua. - La madre non ci arrivò a provare quella consolazione, poveretta. Morì raccomandando a tutti Santo, che era stato sempre il suo prediletto e Speranza carica di famiglia com'era stata lei... - un figliuolo ogni anno... - Tutti sulle spalle di Gesualdo, giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent'anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. - Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! - Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fatiche!... La coltura dei fondi, il commercio delle derrate, il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!... - Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!... - Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là , al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d'inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell'aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all'ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. - Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un'ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all'osteria! - trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi - le liti fra tutti loro quando gli affari non andavano bene. - Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. - Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. - Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l'impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l'occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi per dire soltanto "vi saluto"; le strette di mano inquiete, coll'orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall'ira, spumanti bava e minacce - la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore...
- Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padrone!... Hai le spalle grosse anche tu... povera Diodata!...
Essa, vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta contenta e gli si accovacciò ai piedi, su di un sasso, col viso bianco di luna, il mento sui ginocchi, in un gomitolo. Passava il tintinnìo dei campanacci, il calpestìo greve e lento per la distesa del bestiame che scendeva al torrente, dei muggiti gravi e come sonnolenti, le voci dei guardiani che lo guidavano e si spandevano lontane, nell'aria sonora. La luna ora discesa sino all'aia, stampava delle ombre nere in un albore freddo; disegnava l'ombra vagante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame; la massa inerte del camparo, steso bocconi - Nanni l'Orbo, eh?... o Brasi Camauro? Chi dei due ti sta dietro la gonnella? - riprese don Gesualdo che era in vena di scherzare.
Diodata sorrise: - Nossignore!... nessuno!...
Ma il padrone ci si divertiva: - Sì, sì!... l'uno o l'altro... o tutti e due insieme!... Lo saprò!... Ti sorprenderò con loro nel vallone, qualche volta!...
Essa sorrideva sempre allo stesso modo, di quel sorriso dolce e contento, allo scherzo del padrone che sembrava le illuminasse il viso, affinato dal chiarore molle: gli occhi come due stelle; le belle trecce allentate sul collo; la bocca un po' larga e tumida, ma giovane e fresca.
Il padrone stette un momento a guardarla così, sorridendo anch'esso, e le diede un altro scapaccione affettuoso.
- Questa non è roba per quel briccone di Brasi, o per Nanni l'Orbo! no!...
- Oh, gesummaria!... - esclamò essa facendosi la croce.
- Lo so, lo so. Dico per ischerzo, bestia!...
Tacque un altro po' ancora, e poi soggiunse: - Sei una buona ragazza!... buona e fedele! vigilante sugli interessi del padrone, sei stata sempre...
- Il padrone mi ha dato il pane, - rispose essa semplicemente. - Sarei una birbona...
- Lo so! lo so!... poveretta!... per questo t'ho voluto bene!
A poco a poco, seduto al fresco, dopo cena, con quel bel chiaro di luna, si lasciava andare alla tenerezza dei ricordi. - Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!... Ne abbiamo passati dei brutti giorni!... Sempre all'erta, come il tuo padrone! Sempre colle mani attorno... a far qualche cosa! Sempre l'occhio attento sulla mia roba!... Fedele come un cane!... Ce n'è voluto, sì, a far questa roba!...
Tacque un momento intenerito. Poi riprese, dopo un pezzetto, cambiando tono:
- Sai? Vogliono che prenda moglie.
La ragazza non rispose; egli non badandoci, seguitò:
- Per avere un appoggio... Per far lega coi pezzi grossi del paese... Senza di loro non si fa nulla!... Vogliono farmi imparentare con loro... per l'appoggio del parentado, capisci?... Per non averli tutti contro, all'occasione... Eh? che te ne pare?
Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani. Poi rispose, con un tono di voce che andò a rimescolargli il sangue a lui pure:
- Vossignoria siete il padrone...
- Lo so, lo so... Ne discorro adesso per chiacchierare... perché mi sei affezionata... Ancora non ci penso... ma un giorno o l'altro bisogna pure andarci a cascare... Per chi ho lavorato infine?... Non ho figliuoli...
Allora le vide il viso, rivolto a terra, pallido pallido e tutto bagnato.
- Perché piangi, bestia?
- Niente, vossignoria!... Così!... Non ci badate...
- Cosa t'eri messa in capo, di'?
- Niente, niente, don Gesualdo...
- Santo e santissimo! Santo e santissimo! - prese a gridare lui sbuffando per l'aia. Il camparo al rumore levò il capo sonnacchioso e domandò:
- Che c'è?... S'è slegata la mula? Devo alzarmi?...
- No, no, dormite, zio Carmine.
Diodata gli andava dietro passo passo, con voce umile e sottomessa:
- Perché v'arrabbiate, vossignoria?... Cosa vi ho detto?...
- M'arrabbio colla mia sorte!... Guai e seccature da per tutto... dove vado!... Anche tu, adesso!... col piagnisteo!... Bestia!... Credi che, se mai, ti lascerei in mezzo a una strada... senza soccorsi?...
- Nossignore... non è per me... Pensavo a quei poveri innocenti...
- Anche quest'altra?... Che ci vuoi fare! Così va il mondo!... Poiché v'è il comune che ci pensa!... Deve mantenerli il comune a spese sue... coi denari di tutti!... Pago anch'io!... So io ogni volta che vo dall'esattore!...
Si grattò il capo un istante, e riprese:
- Vedi, ciascuno viene al mondo colla sua stella... Tu stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Sei venuta al mondo da te, come Dio manda l'erba e le piante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondo come dice il tuo nome... Diodata! Vuol dire di nessuno!... E magari sei forse figlia di barone, e i tuoi fratelli adesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c'è per tutti! Hai trovato da vivere anche tu!... E la mia roba?... me l'hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!... Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla...
In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando per l'aia, su e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ragazza piangeva ancora, cheta cheta per non infastidirlo, le tornò a sedere allato di nuovo, rabbonito.
- Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone... come quando ero un povero diavolo senza nulla... Ora ci ho tanta roba da lasciare... Non posso andare a cercar gli eredi di qua e di là , per la strada... o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poi, se Dio m'aiuta, saranno nati sotto la buona stella!...
- Vossignoria siete il padrone...
Egli ci pensò un po' su, perché quel discorso lo punzecchiava ancora peggio di una vespa, e tornò a dire:
- Anche tu... non hai avuto né padre né madre... Eppure cosa t'è mancato, di'?
- Nulla, grazie a Dio!
- Il Signore c'è pe...
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