[Pagina precedente]...in segreto... Me ne vo... - E si mise a sedere lui pure, col cappello in testa.
Tacquero tutti, ciascuno sbirciando sottecchi il compagno, don Ninì col naso dentro la sciarpa, sua moglie colle labbra strette. Infine disse che le rincresceva tanto della malattia di Bianca. - Proprio! c'è un lutto nel paese. Ninì è un pezzo che mi predica: Giuseppina mia, dobbiamo andare a vedere come sta mia cugina... Gl'interessi sono una cosa, ma la parentela poi è un'altra...
- Dunque, - riprese don Gesualdo, - questa bella pensata di pigliarci sottomano le terre del comune chi l'ha fatta?
Allora non fu più il caso di fingere. Donna Giuseppina tornò a discorrere del fermento che c'era in paese, della rivoluzione che minacciavano. Il barone Zacco si agitò, facendo segno col capo a don Gesualdo.
- Eh? eh? Cosa vi ho detto or ora?...
- Infine... - conchiuse donna Giuseppina, - è meglio parlarci chiaro e darci la mano tutti quelli che abbiamo da perdere...
E tornò su quella birbonata di sminuzzare le terre del comune fra i più poveri, in tante briciole, un pizzico per ciascuno, che non fa male a nessuno!... Essa rideva così che le ballava il ventre dalla bile.
- Ah??? - esclamò il barone pavonazzo in viso, e cogli occhi fuori dell'orbita. - Ah??? - E non disse altro Don Gesualdo rideva anche lui.
- Ah? voi ridete, ah?
- Cosa volete che faccia? Non me ne importa nulla, vi dico!
Donna Giuseppina rimase stupefatta: - Come!... voi!... - Quindi lo tirò in disparte, vicino al canterano dov'era l'orologio fermo, parlandogli piano, con le mani negli occhi. Don Gesualdo stava zitto, lisciandosi il mento, con quel risolino calmo che faceva schiattare la gente. I due baroni da lontano tenevano gli occhi fissi su di lui, come due mastini. Infine egli scosse il capo.
- No! no! Ditegli al canonico Lupi che denari non ne metto fuori più per simili pasticci. Le terre se le pigli chi vuole... Io ho le mie...
Gli altri gli si rivoltarono contro tutti d'accordo, vociando, eccitandosi l'un l'altro. Zacco, adesso che aveva capito di che si trattava, scalmanavasi più di tutti: - Una pensata seria! Da uomo con tanto di barba! Il miglior modo per evitare quella birbonata di dividere fra i nullatenenti i fondi del comune!... Capite?... Allora vuol dire che il mio non è più mio, e ciascuno vuole la sua parte!... - Don Gesualdo, duro, scrollava il capo; badava a ripetere: - No! no! non mi ci pigliano! - Tutt'a un tratto il barone Zacco afferrò don Ninì per la sciarpa e lo spinse verso il canapè quasi volesse mangiarselo, sussurrandogli nell'orecchio:
- Volete sentirla? Volete che ve la canti? E' segno che quello lì ci ha il suo fine per farci rimaner tutti quanti siamo con tanto di naso!... Lo conosco!...
Le signore Zacco allo strepito s'erano affacciate sull'uscio dell'anticamera. Successe un istante d'imbarazzo fra i parenti. Zacco e don Ninì si calmarono di botto, tornando cerimoniosi.
- Scusate! scusate! La cugina Bianca crederà chissà cosa, al sentirci gridare... per nulla poi!... - Zacco sorrideva bonariamente, con la faccia ancora infocata. Don Ninì s'avvolgeva di nuovo la sciarpa al collo. Sua moglie, col sorriso amabile lei pure, tolse commiato.
- Tanti saluti a donna Bianca... Non vogliamo disturbarla... Speriamo che la Madonna abbia a fare il miracolo... - Don Ninì con la bocca coperta grugnì anche lui qualche parola che non potè udirsi. - Un momento. Vengo con voi, - esclamò Zacco. - E fingendo di cercare il cappello e la canna d'India s'accostò a don Gesualdo nel buio dell'anticamera.
- Sentite... Fate male, in parola d'onore! Quella è una proposta seria!... Fate male a non intendervi col barone Rubiera!...
- No, non voglio impicci!... Ho tanti altri fastidi pel capo!... Poi, mia moglie ha detto di no. Avete udito voi stesso.
Il barone stava per montare in furia davvero!
- Ah!... vostra moglie?... Le date retta quando vi accomoda! - Ma cambiò tono subito. - Del resto fate voi!... Fate voi, amico mio!... Aspettate, don Ninì. Veniamo subito. - Sua moglie non la finiva più. Sembrava che non potesse staccarsi dal letto dell'ammalata, rincalzando la coperta, sprimacciandole il guanciale, mettendole sotto mano il bicchier d'acqua e le medicine, con la faccia lunga, sospirando, biasciando avemarie. Voleva pure che restasse la sua ragazza ad assistere la notte, se mai. Donna Lavinia acconsentiva di tutto cuore, dandosi da fare anche essa, premurosa, impadronendosi già delle chiavi, vigilando su tutto, come una padrona.
- No!... - mormorò Bianca con la voce rauca. - No!... Non ho bisogno di nessuno!... Non voglio nessuno!...
Li seguiva per la camera con l'occhio inquieto, sospettoso, diffidente, con un certo tono di rancore nella voce cavernosa. Sforzavasi di mostrarsi più forte, sollevandosi a stento sui gomiti tremanti, cogli omeri appuntati che sembravano forare la camiciuola da notte. Poscia, appena le Zacco se ne furono andate, ricadde sfinita, facendo segno al marito d'accostarsi.
- Sentite!... sentite!... Non le voglio più!... Non le fate venir più quelle donne... Si son messe in testa di darvi moglie... come se fossi già morta.
E col capo seguitava a far segno di sì, di sì, che non s'ingannava, col mento aguzzo nell'ombra della gola infossata, mentr'egli, chino su di lei, le parlava come a una bimba sorridendo, con gli occhi gonfi però.
- Vi portano in casa la Lavinia... Non vedono l'ora che io chiuda gli occhi... - Lui protestava di no che non gliene importava nulla della Lavinia, che non voleva più rimaritarsi, che ne aveva visti abbastanza dei guai. E la poveretta stava ad ascoltarlo tutta contenta, cogli occhi lustri che penetravano fin dentro, per vedere se dicesse la verità .
- Sentite... ancora... un'altra cosa...
Accennava sempre con la mano, poichè la voce le mancava, quella voce che sembrava venire da lontano, gli occhi che si velavano a quando a quando di un'ombra. Aveva fatto anche uno sforzo per sollevarsi, onde passargli un braccio al collo, come non le restasse che lui per attaccarsi alla vita, agitando il viso che si era affilato maggiormente, quasi volesse nasconderglielo in petto, quasi volesse confessarsi con lui. Dopo un momento allentò le braccia, col volto rigido e chiuso, colla voce mutata:
- Più tardi... Vi dirò poi... Ora non posso...
II
Adesso tutto andava a rotta di collo per don Gesualdo; la casa in disordine; la gente di campagna, lontano dagli occhi del padrone, faceva quel che voleva; le stesse serve scappavano ad una ad una, temendo il contagio della tisi; persino Mena, l'ultima che era rimasta pel bisogno, quando parlarono di farle lavare i panni dell'ammalata che la lavandaia rifiutavasi di portare al fiume, temendo di perdere le altre pratiche, disse chiaro il fatto suo:
- Don Gesualdo, scusate tanto, ma la mia pelle vale quanto la vostra che siete ricco... Non vedete com'è ridotta vostra moglie?... Mal sottile è, Dio liberi! Io ho paura, e vi saluto tanto.
Dopo che s'erano ingrassati nella sua casa! Ora tutti l'abbandonavano quasi rovinasse, e non c'era neppure chi accendesse il lume. Sembrava quella notte alla Salonia, in cui aveva dovuto mettere colle sue mani il padre nel cataletto. Né denari né nulla giovava più. Allora don Gesualdo si scoraggiò davvero. Non sapendo dove dar di capo, pensò agli amici antichi, quelli che si ricordano nel bisogno, e mandò a chiamare Diodata per dare una mano. Venne invece il marito di lei, sospettoso, guardandosi intorno, badando dove metteva i piedi, sputacchiando di qua e di là :
- Quanto a me... anche la mia pelle, se la volete, don Gesualdo!... Ma Diodata è madre di famiglia, lo sapete... Se le capita qualche disgrazia, Dio ne liberi voi e me... Se piglia la malattia di vostra moglie... Siamo povera gente... Voi siete tanto ricco; ma io non avrei neppure di che pagarle il medico e lo speziale...
Insomma le solite litanie, la solita giaculatoria per cavargli dell'altro sangue. Finalmente, dopo un po' di tira e molla, s'accordarono sul compenso. Gli toccava chiudere gli occhi e chinare il capo. Nanni l'Orbo, tutto contento del negozio che aveva fatto, conchiuse:
- Quanto a noi siete padrone anche della nostra pelle, don Gesualdo. Comandateci pure, di notte e di giorno. Vo a pigliare mia moglie e ve la porto.
Ma Bianca soffriva adesso di un altro male. Non voleva vedersi Diodata per casa. Non pigliava nulla dalle sue mani. - No!... tu, no!... Vattene via! Che sei venuta a fare, tu? - Irritavasi contro quegli affamati che venivano a mangiare alle sue spalle. Come s'affezionasse anche alla roba, in quel punto; come si risvegliasse in lei un rancore antico, una gelosia del marito che volevano rubarle, quella cattiva gente venuta apposta a chiuderle gli occhi, a impadronirsi di tutto il suo. Era diventata tale e quale una bambina, sospettosa irascibile, capricciosa. Si lagnava che le mettessero qualche cosa nel brodo, che le cambiassero le medicine. Ogni volta che si udiva il campanello dell'uscio c'era una scena. Diceva che mandavano via la gente per non fargliela vedere.
- Ho sentito la voce di mio fratello don Ferdinando!... E' arrivata una lettera di mia figlia, e non hanno voluto darmela!... - Il pensiero della figlia era un altro tormento. Isabella stava anch'essa poco bene, lontano tanto, un viaggio che l'avrebbe rovinata per sempre, scriveva suo marito. Del resto sapevano da un pezzo come Bianca si strascinasse fra letto e lettuccio, e non avrebbero mai creduto la catastrofe così prossima. Intanto la povera madre non sapeva darsi pace, e se la pigliava con don Gesualdo e con tutti quanti le stavano vicino. Ci voleva una pazienza da santi. Aveva un bel dire suo marito:
- Guarda!... Cosa diavolo ti viene in mente adesso!... Anche la gelosia ti viene in mente!... - Essa aveva certe occhiate nere che non le aveva mai visto. Con certo suono che non le aveva mai udito nella voce rauca, essa gli diceva:
- Mi avete tolto mia figlia... anche adesso che sono in questo stato!... Ve lo lascio per scrupolo di coscienza!... - Oppure gli rinfacciava di averle messo fra i piedi quell'altra gente... Oppure non rispondeva affatto, col viso rivolto al muro, implacabile.
Nanni l'Orbo s'era installato come un papa in casa di don Gesualdo. Mangiava e beveva. Veniva ogni giorno a empirsi la pancia. Diodata badava a quel che c'era da fare, e lui correva in piazza a spassarsela, a confabulare cogli amici, a dir che ci voleva questo e si doveva far quell'altro, a difendere la causa della povera gente nella quistione di spartirsi i feudi del comune, ciascuno il suo pezzetto, come voleva Dio, e quanti figliuoli ogni galantuomo aveva sulle spalle, tante porzioni! Egli conosceva anche per filo e per segno tutti i maneggi dei pezzi grossi che cercavano appropriarsi le terre. Una volta attaccò una gran discussione su quest'argomento con Canali, e andò a finire a pugni, adesso che non era più il tempo delle prepotenze e ognuno diceva le sue ragioni.
Il giorno dopo mastro Titta era andato da Canali a radergli la barba, allorché suonarono il campanello e Canali andò a vedere colla saponata al mento. Mentre affilava il rasoio, mastro Titta allungò il collo per semplice curiosità , e vide Canali il quale parlava nell'anticamera con Gerbido, una faccia tutti e due da far tendere l'orecchio a chiunque. Canali diceva a Gerbido: - Ma ti fidi poi? - E Gerbido rispose: - Oh!!! - Nient'altro.
Canali tornò a farsi la barba, tranquillo come nulla fosse, e mastro Titta non ci pensò più. Soltanto la sera, non sapeva egli stesso il perché... un presentimento, vedendo Gerbido appostato alla cantonata della Masera, colla carabina sotto!... Gli tornarono in mente le parole di poco prima.
- Chissà per chi è destinata quella pillola, Dio liberi!... - pensò fra di sé.
Già i tempi erano sospetti, e la gente s'era affrettata a casa prima che suonasse l'avemaria. Più in là incontrando Nanni l'Orbo, che stava da quelle parti, il cuore gli disse che Gerbido aspettasse appunto lui.
- Che fate a quest'ora fuori, compare Nanni? - gli disse mastro Titta. - Venitevene a casa piuttosto, che ...
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