[Pagina precedente]...muro, al di sopra della finestra, e ne tirò fuori mucchi di scartafacci e di pergamene - le carte della lite - quella che doveva essere la gran risorsa della famiglia, quando avessero avuto i denari per far valere le loro ragioni contro il Re di Spagna: dei volumi gialli, logori e polverosi, che lo facevano tossire a ogni voltar di pagina. Sul letto era pure sciorinato un grand'albero genealogico, come un lenzuolo: l'albero della famiglia che bagnava le radici nel sangue di un re libertino, come portava il suo stemma - di rosso, con tre gigli d'oro, su sbarra del medesimo, e il motto che glorificava il fallo della prima autrice: Virtutem a sanguine traho.
S'era messi gli occhiali, appoggiando i gomiti sulla sponda del lettuccio, bocconi, con gli occhi che si accendevano in fondo alle orbite livide.
- Son seicent'anni d'interessi che ci devono!... Una bella somma!... Uscirete d'ogni guaio una volta per sempre!...
Bianca era cresciuta in mezzo a simili discorsi che aiutavano a passare i giorni tristi. Aveva veduto sempre quei libracci sparsi sulle tavole sgangherate e per le sedie zoppe. Così essa non rispose. Suo fratello volse finalmente il capo verso di lei, con un sorriso bonario e malinconico.
- Parlo per voialtri... per te e per Ferdinando... Ne godrete voialtri almeno... Quanto a me... io sono arrivato... Te'!... te' la chiave!... serbala tu!
La zia Sganci, a quei discorsi, da prima scattò come una molla: - Caro nipote, mi sembrate un bambino! - Ma subito si calmò, col sorriso indulgente di chi vuol far capire la ragione proprio a un ragazzo.
- Va bene!... va benone!... Intanto maritatela con lo sposo che vi si offre adesso, e poi, se diverrete tanti Cresi, sarà anche meglio.
Don Diego rimase interdetto al vedere che la sorella non prendeva la chiave, e tornò daccapo:
- Anche tu, Bianca?... Dici di sì anche tu?...
Essa, accasciata sulla seggiola, chinò il capo in silenzio.
- E va bene!... Giacché tu lo vuoi... giacché non hai il coraggio di aspettare...
Donna Mariannina seguitava a perorare la causa di don Gesualdo, dicendo ch'era un affare d'oro quel matrimonio, una fortuna per tutti loro; congratulandosi con la nipote la quale fissava fuori dalla finestra, cogli occhi lucenti di lagrime; rivolgendosi financo a don Ferdinando che guardava tutti quanti ad uno ad uno, sbalordito; battendo sulle spalle di don Diego il quale sembrava che non udisse, cogli occhi inchiodati sulla sorella e un tremito per tutta la persona. A un certo punto egli interruppe la zia, balbettando:
- Lasciatemi solo con Bianca... Devo dirle due parole... Lasciateci soli...
Essa alzò gli occhi sbigottita, faccia a faccia col fratello che sembrava un cadavere, dopo che la zia e don Ferdinando furono usciti.
Il pover'uomo esitò ancora prima di aggiungere quel che gli restava a dire, fissando la sorella con un dolore più pungente e profondo. Poscia le afferrò le mani, agitando il capo, movendo le labbra senza arrivare a profferir parola.
- Dimmi la verità, Bianca!... Perché vuoi andartene dalla tua casa?... Perchè vuoi lasciare i tuoi fratelli?... Lo so! lo so!... Per quell'altro!... Ti vergogni a stare con noi, dopo la disgrazia che t'è capitata!...
Continuava ad accennare del capo, con uno struggimento immenso nell'accento e nel viso, colle lagrime amare che gli scendevano fra i peli ispidi e grigi della barba.
- Dio perdona... Ferdinando non sa nulla!... Io... io... Bianca!... Come una figliuola ti voglio bene!... Mia figlia sei... Bianca!...
Tacque sopraffatto da uno scoppio di pianto.
Ella più morta che viva scosse il capo lentamente e biascicò:
- No... no... Non è per questo...
Don Diego lasciò ricadere adagio adagio le mani della sorella, quasi un abisso si scavasse fra di loro.
- Allora!... Fa quello che vuoi... fa quello che vuoi...
E le volse le spalle, curvo, senza aggiunger altro, strascicando le gambe.
VII
Nella casa antica dei La Gurna, presa in affitto da don Gesualdo Motta, s'aspettavano gli sposi. Davanti alla porta c'era un crocchio di monelli, che il ragazzo di Burgio, in qualità di parente, s'affannava a tener discosti, minacciandoli con una bacchettina; la scala sparsa di foglie d'arancio; un lume a quattro becchi posato sulla ringhiera del pianerottolo; e Brasi Camauro, con una cacciatora di panno blù, la camicia di bucato, gli stivali nuovi, che dava l'ultimo colpo di scopa nel portone imbiancato di fresco. A ogni momento succedeva un falso allarme. I ragazzi gridavano: - Eccoli! eccoli! - Camauro lasciava la scopa, e della gente si affacciava ai balconi illuminati.
Verso un'ora, di notte arrivò il marchese Limòli, facendosi largo colla canna d'India. Vide il lume, vide le foglie d'arancio e disse: - Bravo! - Ma nel salire le scale, stava per rompersi l'osso del collo, e allora scappò anche a bestemmiare:
- Che bestie!... Han fatto un mondezzaio!..
Brasi corse colla scopa. - Spazzo via tutto, signor marchese? Butto via ogni cosa?
- No, no!... Adesso son passato. Non grattar troppo colla scopa, piuttosto... Si sente l'odor di stalla.
Udendo delle voci, Santo Motta che aspettava di sopra, vestito di nuovo, coi pantaloni a staffe e un panciotto di raso a fiori, si affacciò nel pianerottolo, infilandosi la giamberga.
- Eccomi! eccomi!... Sono qui!... Ah, signor marchese!... bacio le mani!...
E rimase un po' confuso, non vedendo altri che il Limòli.
- Servo, servo, caro don Santo!... Non baciate più nulla... ora siamo parenti.
In cima alla scala comparve anche donna Sara Cirmena, la sola di tutto il parentado della sposa che si fosse degnata di venire, con un moggio di fiori finti in testa, il vestito di seta che aveva preso le pieghe come la carta, nel cassettone, i pendagli di famiglia che le strappavano le orecchie, seccata di aspettare da un gran pezzo in un bagno di sudore, e si mise a strillare di lassù:
- Ma che fanno? C'è qualche altra novità?
- Nulla, nulla, - rispose il marchese salendo adagio adagio.
- Son uscito prima per non far vedere ch'ero solo in chiesa, di tutti i parenti... Son venuto a dare un'occhiata.
Don Gesualdo aveva fatto delle spese: mobili nuovi, fatti venire apposta da Catania, specchi con le cornici dorate, sedie imbottite, dei lumi con le campane di cristallo: una fila di stanze illuminate, che viste così, con tutti gli usci spalancati, pareva di guardare nella lente di un cosmorama.
Don Santo precedeva facendo la spiegazione, tirando in su ogni momento le maniche che gli arrivavano alla punta delle dita.
- Come? Non c'è nessuno ancora? - esclamò il marchese, giunti che furono nella camera nuziale, parata come un altare.
Compare Santo rannicchiò il capo nel bavero di velluto, al pari di una testuggine.
- Per me non manca... Io son qui dall'avemaria... Tutto è pronto...
- Credevo di trovare almeno gli altri parenti... Mastro Nunzio... vostra sorella...
- Nossignore... si vergognano... C'è stato un casa del diavolo! Io son venuto per tener d'occhio il trattamento...
E aprì l'uscio per farglielo vedere: una gran tavola carica di dolci e di bottiglie di rosolio, ancora nella carta ritagliata come erano venuti dalla città, sparsa di garofani e gelsomini d'Arabia, tutto quello che dava il paese, perché la signora Capitana aveva mandato a dire che ci volevano dei fiori; quanti candelieri si erano potuti avere in prestito, a Sant'Agata e nell'altre chiese. Diodata ci aveva pure messi in bell'ordine tutti i tovagliuoli arrotolati in punta, come tanti birilli, che portavano ciascuno un fiore in cima.
- Bello! bello! - approvò il marchese. - Una cosa simile non l'ho mai vista!... E questi qui, cosa fanno?
Ai due lati della tavola, come i giudei del Santo Sepolcro ci erano Pelagatti e Giacalone, che sembravano di cartapesta così lavati e pettinati.
- Per servire il trattamento, sissignore!... Mastro Titta e l'altro barbiere suo compagno si son rifiutati, con un pretesto!... Vanno soltanto nelle casate nobili quei pezzenti!... Temevano di sporcarsi le mani qui, loro che fanno tante porcherie!...
Giacalone, premuroso, corse tosto con una bottiglia per ciascuna mano. Il marchese si schermì:
- Grazie, figliuol mio!... Ora mi rovini il vestito, bada!
- Di là ci sono anche le tinozze coi sorbetti! - aggiunse don Santo.
Ma appena aprì l'uscio della cucina, si videro fuggire delle donne che stavano a guardare dal buco della serratura.
- Ho visto, ho visto, caro parente. Lasciateli stare; non li spaventate.
In quel momento si udì un baccano giù in istrada, e corsero in tempo al balcone per vedere arrivare la carrozza degli sposi. Nanni l'Orbo, a cassetta, col cappello sino alle orecchie, faceva scoppiettare la frusta come un carrettiere, e vociava:
- Largo!... A voi!... Guardatevi!... - Le mule, tolte allora dall'armento, ricalcitravano e sbuffavano, tanto che il canonico Lupi propose di smontare lì dov'erano, e Burgio s'era già alzato per scavalcare lo sportello. Ma le mule tutt'a un tratto abbassarono il capo insieme, e infilarono il portone a precipizio.
- Morte subitanea! - esclamò il canonico, ricadendo col naso sui ginocchi della sposa.
Salivano a braccetto. Don Gesualdo con una spilla luccicante nel bel mezzo del cravattone di raso, le scarpe lucide, il vestito coi bottoni dorati, il sorriso delle nozze sulla faccia rasa di fresco; soltanto il bavero di velluto, troppo alto, che gli dava noia. Lei che sembrava più giovane e graziosa in quel vestito candido e spumante, colle braccia nude, un po' di petto nudo, il profilo angoloso dei Trao ingentilito dalla pettinatura allora in moda, i capelli arricciati alle tempie e fermati a sommo del capo dal pettine alto di tartaruga: una cosa che fece schioccare la lingua al canonico, mentre la sposa andava salutando col capo a destra e a sinistra, palliduccia, timida, quasi sbigottita, tutte quelle nudità che arrossivano di mostrarsi per la prima volta dinanzi a tanti occhi e a tanti lumi.
- Evviva gli sposi! evviva gli sposi! - si mise a gridare il canonico, messo in allegria, sventolando il fazzoletto.
Bianca prese il bacio della zia Cirmena, il bacio dello zio marchese, ed entrò sola nelle belle stanze, dove non era anima viva.
- Ehi? ehi? bada che perdi il marito! - le gridò dietro lo zio marchese fra le risate generali.
- Ci siamo tutti? - borbottò sottovoce donna Sarina.
Il canonico si affrettò a risponder lui.
- Sissignora. Poca brigata, vita beata!
Dietro di loro saliva Alessi, colla berretta in mano, intimidito da quei lumi e da quell'apparato. Sin dall'uscio si mise a balbettare:
- Mi manda la signora baronessa Rubiera... Dice che non può venire perchè le duole il capo... Manda a salutare la nipote, e don Gesualdo anche...
- Vai in cucina, da questa parte - gli rispose il marchese. - Di' che ti dieno da bere.
Don Gesualdo approfittò di quel momento per raccomandare sottovoce a suo fratello:
- Stai attento, dinanzi a tutta questa gente!... Ti metti a sedere, e non ti muovi più. Come vedi fare a me, fai tu pure.
- Ho capito. Lascia fare a me!
La zia Cirmena si era impadronita della sposa, e aveva assunta un'aria matronale che la faceva sembrare in collera. Dopo che ciascuno ebbe preso posto nella bella sala cogli specchi, si fece silenzio; ciascuno guardando di qua e di là per fare qualche cosa, ed ammirando coi cenni del capo. Alla fine il canonico credette di dover rompere il ghiaccio:
- Don Santo, sedetevi qua. Avvicinatevi; non abbiate timore.
- A me? - rispose Santo che si sentiva dar del don lui pure.
- Questo è tuo cognato, - disse il marchese a Bianca.
Il notaro ripigliò di lì a un momento:
- Guardate! guardate! Sembra lo sbarco di Cristoforo Colombo!
Vedevasi sull'uscio dell'anticamera un mucchio di teste che si pigiavano, fra curiose e timide, quasi stesse per scoppiare una mina. Il canonico fra gli altri monelli scorse Nunzio, il nipotino di don Gesualdo, e gli fece segno d'entrare, ammiccandogli. Ma il ragazzo scappò via come un selvaggio; e il canonico, sempre sorridendo, disse:
- Che diavoletto!... tutto sua madre...
Il marchese, sdraiato sulla sedia a bracciuoli, accanto alla nipote, sembrava un ...
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