[Pagina precedente]...erte come la Provvidenza. Aveva dato ricovero a mezzo paese, nei fienili, nelle stalle, nelle capanne dei guardiani, nelle grotte lassù a Budarturo. Un giorno era arrivato persino Nanni l'Orbo con tutta la sua masnada, strizzando l'occhio, tirandolo in disparte per dirgli il fatto suo:
- Don Gesualdo... qui c'è anche roba vostra. Guardate Nunzio e Gesualdo come vi somigliano! Quattro tumoli di pane al mese si mangiano, prosit a loro! Non potete chiudere loro la porta in faccia... Ne avete fatta tanta della carità ? E fate anche questa, che così vuol Dio.
- Guarda cosa diavolo t'è venuto in mente!... Qui c'è mia moglie e mia figlia adesso!... Almeno andatevene nel palmento, e non vi fate vedere da queste parti...
Ma tutto quel bene e quella carità gli tornavano in veleno per l'ostinazione dei parenti che non avevano voluto mettersi sotto le sue ali. Se ne sfogava spesso con Bianca la sera, quando chiudeva usci e finestre e si vedeva al sicuro: - Salviamo tanta gente dal colèra... Abbiamo tanta gente sotto le ali, e soltanto il sangue nostro è disperso di qua e di là ... Lo fanno apposta... per farci stare in angustie... per lasciarci la spina dentro!... Non parlo di tuo fratello poveraccio quello non capisce... Ma mio padre... Non me la doveva lasciare questa spina, lui!...
Non sapeva di quell'altro dispiacere che doveva procuragli la figliuola, il pover'uomo! Isabella ch'era venuta dal collegio con tante belle cose in testa, che s'era immaginata di trovare a Mangalavite tante belle cose come alla Favorita di Palermo, sedili di marmo, statue, fiori da per tutto, dei grandi alberi dei viali tenuti come tante sale da ballo, aveva provata qui un'altra delusione. Aveva trovato dei sentieri alpestri, dei sassi che facevano vacillare le sue scarpette, delle vigne polverose, delle stoppie riarse che l'accecavano, delle rocce a picco sparse di sommacchi che sembravano della ruggine a quell'altezza, e dove il tramonto intristiva rapidamente la sera. Poi dei giorni sempre uguali, in quella tebaide; un sospetto continuo, una diffidenza d'ogni cosa, dell'acqua che bevevasi, della gente che passava, dei cani che abbaiavano, delle lettere che giungevano - un mucchio di paglia umida in permanenza dinanzi al cancello per affumicare tutto ciò che veniva di fuori, - le rare lettere ricevute in cima a una canna, attraverso il fumo - e per solo svago, il chiacchierìo della zia Cirmena, la quale arrivava ogni sera colla lanterna in mano e il panierino della calza infilato al braccio. Suo nipote l'accompagnava raramente; preferiva rimanersene in casa, a far l'orso e a pensare ai casi suoi o ai suoi morti, chissà ... La zia Cirmena per scusarlo parlava del gran talento che aveva quel ragazzo, tutto il santo giorno chiuso nella sua stanzetta, col capo in mano, a riempire degli scartafacci, più grossi di un basto, di poesie che avrebbero fatto piangere i sassi. Don Gesualdo ci s'addormentava sopra a quei discorsi. La mamma parlava poco anche lei, sempre senza fiato, sempre fra letto e lettuccio. La sola che dovesse dar retta alla zia era lei, Isabella, soffocando gli sbadigli, dopo quelle giornate vuote. Alle sue amiche di collegio, disseminate anch'esse di qua e di là , non sapeva proprio cosa scrivere. Marina di Leyra le mandava ogni settimana delle paginette stemmate piene zeppe di avventure, di confidenze interessanti. La stuzzicava, la interrogava, chiedeva in ricambio le sue confidenze, sembrava a ogni lettera che le capitasse lì dinanzi, coi suoi occhioni superbi, colle belle labbra carnose, a dirle in un orecchio delle cose che le facevano avvampare il viso, che le facevano battere il cuore, quasi ci avesse nascosto il suo segreto da confidarle anche lei. S'erano regalato a vicenda un libriccino di memorie, colla promessa di scrivervi sopra tutti i loro pensieri più intimi, tutto, tutto, senza nascondere nulla! I begli occhi azzurri d'Isabella, gli occhi che diceva lo zio Limòli, senza volerlo, senza guardare neppure, sembrava che cercassero quei pensieri. In quella testolina che portava ancora le trecce sulle spalle, nasceva un brulichìo, quasi uno sciame di api vi recasse tutte le voci e tutti i profumi della campagna, di là dalle roccie, di là da Budarturo, di lontano. Sembrava che l'aria libera, lo stormire delle frondi, il sole caldo, le accendessero il sangue, penetrassero nelle sottili vene azzurrognole, le fiorissero nei colori del viso, le gonfiassero di sospiri il seno nascente sotto il pettino del grembiule. - Vedi quanto ti giova la campagna? - diceva il babbo. - Vedi come ti fai bella?
Ma essa non era contenta. Sentiva un'inquietezza un'uggia, che la facevano rimanere colle mani inerti sul ricamo, che la facevano cercare certi posti per leggere i pochi libri, quei volumetti tenuti nascosti sotto la biancheria, in collegio. All'ombra dei noci, vicino alla sorgente, in fondo al viale che saliva dalla casina, c'era almeno una gran pace, un gran silenzio, s'udiva lo sgocciolare dell'acqua nella grotta, lo stormire delle frondi come un mare, lo squittire improvviso di qualche nibbio che appariva come un punto nell'azzurro immenso. Tante piccole cose che l'attraevano a poco a poco, e la facevano guardare attenta per delle ore intere una fila di formiche che si seguivano, una lucertolina che affacciavasi timida a un crepaccio, una rosa canina che dondolava al disopra del muricciuolo, la luce e le ombre che si alternavano e si confondevano sul terreno. La vinceva una specie di dormiveglia, una serenità che le veniva da ogni cosa, e si impadroniva di lei, e l'attaccava lì, col libro sulle ginocchia, cogli occhi spalancati e fissi, la mente che correva lontano. Le cadeva addosso una malinconia dolce come una carezza lieve, che le stringeva il cuore a volte, un desiderio vago di cose ignote. Di giorno in giorno era un senso nuovo che sorgeva in lei, dai versi che leggeva, dai tramonti che la facevano sospirare, un'esaltazione vaga, un'ebbrezza sottile, un turbamento misterioso e pudibondo che provava il bisogno di nascondere a tutti. Spesso, la sera, scendeva adagio adagio dal lettuccio perché la mamma non udisse, senza accendere la candela, e si metteva alla finestra, fantasticando, guardando il cielo che formicolava di stelle. La sua anima errava vagamente dietro i rumori della campagna, il pianto del chiù, l'uggiolare lontano, le forme confuse che viaggiavano nella notte, tutte quelle cose che le facevano una paura deliziosa. Sentiva quasi piovere dalla luna sul suo viso, sulle sue mani una gran dolcezza, una gran prostrazione, una gran voglia di piangere. Le sembrava confusamente di vedere nel gran chiarore bianco, oltre Budarturo, lontano, viaggiare immagini note, memorie care, fantasie che avevano intermittenze luminose come la luce di certe stelle: le sue amiche, Marina di Leyra, un altro viso sconosciuto che Marina le faceva sempre vedere nelle sue lettere, un viso che ondeggiava e mutava forma, ora biondo, ora bruno, alle volte colle occhiaie appassite e la piega malinconica che avevano le labbra del cugino La Gurna. Penetrava in lei il senso delle cose, la tristezza della sorgente, che stillava a goccia a goccia attraverso le foglie del capelvenere, lo sgomento delle solitudini perdute lontano per la campagna, la desolazione delle forre dove non poteva giungere il raggio della luna, la festa delle rocce che s'orlavano d'argento, lassù a Budarturo, disegnandosi nettamente nel gran chiarore, come castelli incantati. Lassù, lassù, nella luce d'argento, le pareva di sollevarsi in quei pensieri quasi avesse le ali, e le tornavano sulle labbra delle parole soavi, delle voci armoniose, dei versi che facevano piangere, come quelli che fiorivano in cuore al cugino La Gurna. Allora ripensava a quel giovinetto che non si vedeva quasi mai, che stava chiuso nella sua stanzetta, a fantasticare, a sognare come lei. Laggiù, dietro quel monticello, la stessa luna doveva scintillare sui vetri della sua finestra, la stessa dolcezza insinuarsi in lui. Che faceva? che pensava? Un brivido di freddo la sorprendeva di tratto in tratto come gli alberi stormivano e le portavano tante voci da lontano - Luna bianca, luna bella!... Che fai, luna? dove vai? che pensi anche tu? - Si guardava le mani esili e delicate, candide anch'esse come la luna, con una gran tenerezza, con un vago senso di gratitudine e quasi di orgoglio.
Poscia ricadeva stanca da quell'altezza, con la mente inerte, scossa dal russare del babbo che riempiva la casa. La mamma vicino a lui non osava neppure fare udire il suo respiro; come non osava quasi mostrare tutta la sua tenerezza alla figliuola dinanzi al marito, timida, con quegli occhi tristi e quel sorriso pallido che voleva dire tante cose nelle più umili parole: - Figlia! figlia mia!... - Soltanto la stretta delle braccia esili, e l'espressione degli sguardi che correvano inquieti all'uscio dicevano il resto. Quasi dovesse nascondere le carezze che faceva alla sua creatura, le mani tremanti che le cercavano il viso, gli occhi turbati che l'osservavano attentamente. - Che hai? Sei pallida!... Non ti senti bene?
La zia Cirmena che vedeva la ragazza così gracile, così pallidina, con quelle pesche sotto gli occhi, cercava di distrarla, le insegnava dei lavori nuovi, delle cornicette intessute di fili di paglia, delle arance e dei canarini di lana. Le contava delle storielle, le portava da leggere le poesie che scriveva suo nipote Corrado, di nascosto, nel panierino della calza. - Son fresche fresche di ieri. Gliele ho prese dal tavolino ora che è uscito a passeggiare. E' ritroso, quel benedetto figliuolo. Così timido! uno che ha bisogno d'aiuto, col talento che ha, peccato! - E le suggeriva anche dei rimedi per la salute delicata, lo sciroppo marziale, delle teste di chiodi in una bottiglia d'acqua. Si sbracciava ad aiutare in cucina, col vestito rimboccato alla cintola, a far cuocere un buon brodo di ossa per sua nipote Bianca, a preparare qualche intingolo per Isabella che non mangiava nulla. - Lasciate fare a me. So quel che ci vuole per lei. Voialtri Trao siete tanti pulcini colla luna. - Un braccio di mare quella zia Cirmena. Una donna che se le si faceva del bene, non ci si perdeva interamente. Spesso costringeva Corrado a venire anche lui la sera per tenere allegra la brigata.
- Tu che sai fare tante cose, coi tuoi libri, colle tue chiacchiere, porterai un po' di svago. Santo Dio! se stai sempre rintanato coi tuoi libri, come vuoi far conoscere i tuoi meriti? - Poi, quando lui non era presente, cantava anche più chiaro: - Alla sua età !... Non è più un bambino... Bisogna che s'aiuti... Non può vivere sempre alle spalle dei parenti!... - E superbo come Lucifero per giunta, ricalcitrando e inalberandosi se alcuno cercava di aiutarlo, di fargli fare buona figura, se la zia s'ingegnava lei di aprir gli occhi alla gente sul valore del suo nipote Corrado e gli rubava gli scartafacci, e andava a sciorinarli lei stessa in mezzo al crocchio dei cugini Motta, compitando, accalorandosi come un sensale che fa valere la merce, mentre don Gesualdo andava appisolandosi a poco a poco, e diceva di sì col capo, sbadigliando, e Bianca guardava Isabella la quale teneva i grand'occhi sbarrati nell'ombra, assorta, e le si mutava a ogni momento l'espressione del viso delicato, quasi delle ondate di sangue la illuminassero tratto tratto. Donna Sarina tutta intenta alla lettura non si accorgeva di nulla, badava ad accomodarsi gli occhiali di tanto in tanto, chinavasi verso il lume, oppure se la pigliava col nipote che scriveva così sottile.
- Ma che talento, eh! Come amministratore... che so io... per soprintendere ai lavori di campagna... dirigere una fattoria, quel ragazzo varrebbe tant'oro. Il cuore mi dice che se voi, don Gesualdo, trovaste di collocarlo in alcuno dei vostri negozi, fareste un affare d'oro!... E... ora che non ci sente... per poco salario anche! Il giovane ha gli occhi chiusi, come si dice... ancora senza malizia... e si contenterebbe di poco! Fareste anche un'opera di carità , ...
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