[Pagina precedente]...col canonico Lupi che glielo aveva proposto. Quando uno ha fatto la minchioneria, è meglio starsi zitto e non parlarne più, per non darla vinta ai nemici. - Nulla, nulla gli aveva fruttato quel matrimonio; né la dote, né il figlio maschio, né l'aiuto del parentado, e neppure ciò che gli dava prima Diodata, un momento di svago un'ora di buonumore, come il bicchiere di vino a un pover'uomo che ha lavorato tutto il giorno, là ! Neppur quello! - Una moglie che vi squagliava fra le mani, che vi faceva gelare le carezze, con quel viso, con quegli occhi, con quel fare spaventato, come se volessero farla cascare in peccato mortale ogni volta e il prete non ci avesse messo su tanto di croce prima quand'ella aveva detto di sì... Bianca non ci aveva colpa. Era il sangue della razza che si rifiutava. Le pesche non si innestano sull'olivo. Ella, poveretta, chinava il viso, arrivava ad offrirlo anzi, tutto rosso, per ubbidire al comandamento di Dio, come fosse pagata per farlo...
Ma egli non si lasciava illudere, no. Era villano, ma aveva il naso fino di villano pure! E aveva il suo orgoglio anche lui. L'orgoglio di quello che aveva saputo guadagnarsi, colle sue mani, tutto opera sua, quei lenzuoli di tela fine in cui dormivano voltandosi le spalle, e quei bocconi buoni che doveva mangiare in punta di forchetta, sotto gli occhi della Trao...
Almeno in casa sua voleva comandar le feste. E se Domeneddio l'aveva gastigato giusto nei figliuoli che voleva mettere al mondo secondo la sua legge, dandogli una bambina invece dell'erede legittimo che aspettava, Isabella almeno doveva possedere tutto ciò che mancava a lui, essere signora di nome e di fatto. Bianca, quasi indovinasse d'aver poco da vivere, non avrebbe voluto separarsi dalla sua figliuoletta. Ma il padrone era lui, don Gesualdo. Egli era buono, amorevole, a modo suo; non le faceva mancare nulla, medici, speziali, tale e quale come se gli avesse portato una grossa dote. - Bianca non aveva parole per ringraziare Iddio quando paragonava la casa in cui il Signore l'aveva fatta entrare con quella in cui era nata. Lì suo fratello stesso desiderava di giorno il pane e di notte le coperte... Sarebbe morto di stenti se i suoi parenti non l'avessero aiutato con bella maniera, senza farglielo capire. Soltanto da lei don Ferdinando non voleva accettare checchessia, mentre don Gesualdo non gli avrebbe fatto mancar nulla, col cuore largo quanto un mare, quell'uomo! Gli stessi parenti di lei glielo dicevano: - Tu non hai parole per ringraziare Dio e tuo marito. Lascia fare a lui ch'è il padrone, e cerca il meglio della tua figliuola.
Poi considerava ch'era il Signore che la puniva, che non voleva quella povera innocente nella casa di suo marito, e la notte inzuppava di lagrime il guanciale. Pregava Iddio di darle forza, e si consolava alla meglio pensando che soffriva in penitenza dei suoi peccati. Don Gesualdo, che aveva tante altre cose per la testa, tanti interessi grossi sulle spalle, ed era abituato a vederla sempre così, con quel viso, non ci badava neppure. Qualche volta che la vedeva alzarsi più smorta, più disfatta del solito, le diceva per farle animo:
- Vedrai che quando avrai messo in collegio la tua bambina sarai contenta tu pure. E' come strapparsi un dente. Tu non puoi badare alla tua figliuola, colla poca salute che hai. E bisogna che quando sarà grande ella sappia tutto ciò che sanno tante altre che sono meno ricche di lei. I figliuoli bisogna avvezzarli al giogo da piccoli, ciascuno secondo il suo stato... Lo so io!... E non ho avuto chi mi aiutasse, io! Quella piccina è nata vestita.
Nondimeno, all'ultimo momento vi furono lagrime e piagnistei, quando accompagnarono l'Isabellina al parlatorio del monastero. Bianca s'era confessata e comunicata. Ascoltò la messa ginocchioni, sentendosi mancare, sentendosi strappare un'altra volta dalle viscere la sua creatura che le si aggrappava al collo e non voleva lasciarla.
Don Gesualdo non guardò a spesa per far stare contenta Isabellina in collegio: dolci, libri colle figure, immagini di santi, noci col bambino Gesù di cera dentro, un presepio del Bongiovanni che pigliava un'intera tavola: tutto ciò che avevano le figlie dei primi signori, la sua figliuola l'aveva; e i meglio bocconi, le primizie che offriva il paese, le ciriegie e le albicocche venute apposta da lontano. Le altre ragazzette guardavano con tanto d'occhi, e soffocavano dei sospiri grossi così. La minore delle Zacco, e le Mèndola di seconda mano, le quali dovevano contentarsi delle cipolle e delle olive nere che passava il convento a merenda, si rifacevano parlando delle ricchezze che possedevano a casa e nei loro poderi. Quelle che non avevano né casa né poderi, tiravano in ballo il parentado nobile, il Capitano Giustiziere ch'era fratello della mamma, la zia baronessa che aveva il cacciatore colle penne, i cugini del babbo che possedevano cinque feudi l'uno attaccato all'altro, nello stato di Caltagirone. Ogni festa, ogni Capo d'anno, come la piccola Isabella riceveva altri regali più costosi, un crocifisso d'argento, un rosario coi gloriapatri d'oro, un libro da messa rilegato in tartaruga per imparare a leggere, nascevano altre guerricciuole, altri dispettucci, delle alleanze fatte e disfatte a seconda di un dolce e di un'immagine data o rifiutata. Si vedevano degli occhietti già lucenti d'alterigia e di gelosia, dei visetti accesi, dei piagnistei, che andavano poi a sfogarsi nell'orecchio delle mamme, in parlatorio. Fra tutte quelle piccine, in tutte le famiglie, succedeva lo stesso diavoleto che mastro-don Gesualdo aveva fatto nascere nei grandi e nel paese. Non si sapeva più chi poteva spendere e chi no. Una gara fra i parenti a buttare il denaro in frascherie, e una confusione generale fra chi era stato sempre in prima fila, e chi veniva dopo. Quelli che non potevano, proprio, o si seccavano a spendere l'osso del collo pel buon piacere di mastro-don Gesualdo, si lasciavano scappare contro di lui certe allusioni e certi motteggi che fermentavano nelle piccole teste delle educande. Alla guerra intestina pigliavano parte anche le monache, secondo le relazioni, le simpatie, il partito che sosteneva oppure voleva rovesciare la superiora. Ci si accaloravano fin la portinaia, fin le converse che si sentivano umiliate di dover servire senz'altro guadagno anche la figliuola di mastro-don Gesualdo, uno venuto su dal nulla, come loro, arricchito di ieri. Le nimicizie di fuori, le discordie, le lotte d'interessi e di vanità , passavano la clausura, occupavano le ore d'ozio, si sfogavano fin là dentro in pettegolezzi, in rappresaglie, in parole grosse. - Sai come si chiama tuo padre? mastro-don Gesualdo. - Sai cosa succede a casa tua? che hanno dovuto vendere una coppia di buoi per seminare le terre. - Tua zia Speranza fila stoppa per conto di chi la paga, e i suoi figliuoli vanno scalzi. - A casa tua c'è stato l'usciere per fare il pignoramento. - La piccola Alimena arrivò a nascondersi nella scala del campanile, una domenica, per vedere se era vero che il padre d'Isabella portasse la berretta.
Egli trovava la sua figliuoletta ancora rossa, col petto gonfio di singhiozzi, volgendo il capo timorosa di veder luccicare dietro ogni grata gli occhietti maliziosi delle altre piccine, guardandogli le mani per vedere se davvero erano sporche di calcina, tirandosi indietro istintivamente quando nel baciarla la pungeva colla barba ispida. Tale e quale sua madre. - Così il pesco non s'innesta all'ulivo. - Tante punture di spillo; la stessa cattiva sorte che gli aveva attossicato sempre ogni cosa giorno per giorno; la stessa guerra implacabile ch'era stato obbligato a combattere sempre contro tutto e contro tutti; e lo feriva sin lì, nell'amore della sua creatura. Stava zitto, non lagnavasi, perché non era un minchione e non voleva far ridere i nemici; ma intanto gli tornavano in mente le parole di suo padre, gli stessi rancori, le stesse gelosie. Poi rifletteva che ciascuno al mondo cerca il suo interesse, e va per la sua via. Così aveva fatto lui con suo padre, così faceva sua figlia. Così dev'essere. Si metteva il cuore in pace, ma gli restava sempre una spina in cuore. Tutto ciò che aveva fatto e faceva per la sua figliuola l'allontanava appunto da lui: i denari che aveva speso per farla educare come una signora, le compagne in mezzo alle quali aveva voluto farla crescere, le larghezze e il lusso che seminavano la superbia nel cuore della ragazzina, il nome stesso che le aveva dato maritandosi a una Trao - bel guadagno che ci aveva fatto! - La piccina diceva sempre: - Io son figlia della Trao. Io mi chiamo Isabella Trao.
La guerra si riaccese più viva fra le ragazze quando si maritò don Ninì Rubiera: - S'è vero che siete parenti, perché tuo zio non ti ha mandato i confetti? Vuol dire che voialtri non vi vogliono per parenti. - L'Isabellina, che rispondeva già come una grande, ribatté:
- Mio padre me li comprerà lui i confetti. Ci siamo guastati coi Rubiera perché ci devono tanti denari. - La figlia della ceraiuola, ch'era del suo partito, aggiunse tante altre storie: - Il baronello era uno spiantato. La Margarone non aveva più voluto saperne. Sposava donna Giuseppina Alòsi più vecchia di lui, perché non aveva trovato altro, per amor dei denari: tutto ciò che narravasi nella bottega di sua madre, in ogni caffè, in ogni spezieria, di porta in porta.
Nel paese non si parlava d'altro che del matrimonio di don Ninì Rubiera. - Un matrimonio di convenienza! - diceva la signora Capitana che parlava sempre in punta di forchetta. Cogli anni, la Capitana aveva preso anche i vizii del paese; occupavasi dei fatti altrui ora che non aveva da nasconderne dei propri. Allorchè incontrava il cavalier Peperito gli faceva un certo visetto malizioso che la ringiovaniva di vent'anni, dei sorrisi che volevano indovinare molte cose, scrollando il capo, offrendosi graziosamente ad ascoltare le confidenze e gli sfoghi gelosi, minacciando il cavaliere col ventaglio, come a dirgli ch'era stato un gran discolaccio lui, e se si lasciava adesso portar via l'amante era segno che ci dovevano essere state le sue buone ragioni... prima o poi...
- No! - ribatteva Peperito fuori della grazia di Dio. - Né prima né poi! Questo potete andare a dirglielo a donna Giuseppina! Se non ho potuto comandare da padrone non voglio servire nemmeno da comodino, capite?... fare il gallo di razza... capite? Su di ciò donna Giuseppina potrà mettersi il cuore in pace!
Adesso sciorinava in piazza tutte le porcherie dell'Alòsi, che se vi mandava a regalare per miracolo un paniere d'uva voleva restituito il paniere; e vendeva sottomano le calze che faceva, delle calze da serva grosse un dito, - essa gliele aveva fatte anche vedere sulla forma per stuzzicarlo... per strappargli ciò che faceva comodo a lei... Ma lui, no!...
Insomma, andava raccontandone di cotte e di crude. Corsero anche delle sante legnate al Caffè dei Nobili. Ciolla gli stava alle calcagna per raccogliere i pettegolezzi e portarli in giro alla sua volta. Un giorno poi fu una vera festa per lui, quando si vide arrivare in paese la signora Aglae che veniva insieme al signor Pallante a fare uno scandalo contro il barone Rubiera, a riscuotere ciò che le spettava, se il seduttore non voleva vedersela comparire dinanzi all'altare. Essa giungeva apposta da Modica, sputando fiele, incerettata, dipinta, carica di piume di gallo e di pezzi di vetro, tirandosi dietro la prova innocente della birbonata di don Ninì, una bambinella ch'era un amore. Così la gente diceva che don Ninì era sempre stato un donnaiuolo, e se sposava l'Alòsi, che avrebbe potuto essergli madre, ci dovevano essere interessi gravi. Chi spiegava la cosa in un modo e chi in un altro. Il baronello, quelli che s'affrettarono a fargli i mirallegro onde tirargli di bocca la verità vera, se li levò dai piedi in poche parole. La Sganci che aveva combinato il negozio stava zitta colle amiche le quali andavano apposta a farle visita. Don Gesualdo ne sapeva forse più deg...
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