[Pagina precedente]...abbra cadenti, povero vecchio.
- Una santa!... - disse al marito. - Una santa addirittura!
Don Gesualdo affermò col capo, col cuore gonfio anche lui. Bianca ora stava supina, cogli occhi sbarrati, il viso come velato da un'ombra. Donna Agrippina preparava l'altare sul comò, con la tovaglia damascata e i candelieri d'argento. A che gli giovava adesso avere i candelieri d'argento? Don Ferdinando andava toccando ogni cosa, proprio come un bambino curioso. Infine si piantò ritto dinanzi al letto, guardando la sorella che stava facendo i conti con Domeneddio in quel momento, e si mise a piangere e a singhiozzare. Piangevano tutti quanti. In quell'istante fece capolino dall'uscio donna Sarina Cirmena, scalmanata, col manto alla rovescia, esitante, guardando intorno per vedere come l'avrebbero accolta, cominciando diggià a fregarsi gli occhi col fazzoletto ricamato.
- Scusate! Perdonate! Io non ci ho il pelo nello stomaco... Ho sentito che mia nipote... Il cuore l'ho qui, di carne!... L'ho tenuta come una figliuola!... Bianca!... Bianca!...
- No, zia! - disse donna Agrippina. - S'aspetta il viatico. Non la disturbate adesso con pensieri mondani...
- E' giusto, - disse donna Sarina. - Scusatemi, don Gesualdo.
Dopo che si fu comunicata, Bianca parve un po' più calma. L'affanno era cessato, e arrivò a balbettare qualche parola. Ma aveva una voce che s'udiva appena.
- Vedete? - disse donna Agrippina. - Vedete, ora che si è messa in grazia di Dio!... Alle volte il Signore fa il miracolo. - Le misero sul petto la reliquia della Madonna. Donna Agrippina si tolse il cingolo della tonaca per ficcarglielo sotto il guanciale. La zia Cirmena portava esempi di guarigioni miracolose: tutto sta ad avere fede nei santi e nelle reliquie benedette: il Signore può far questo ed altro. Lo stesso don Gesualdo allora si mise a piangere come un bambino.
- Anche lui! - borbottò donna Sarina, fingendo di parlare all'orecchio della Macrì. - Anche lui, il cuore non l'ha cattivo in fondo. Non capisco però come Isabella non sia venuta... duchessa o no!... Mamme ne abbiamo una sola!... Se bisognava fare tante storie per arrivare a questo bel risultato...
- E' un porco!... un infame!... un assassino! - seguitò a brontolare don Gesualdo, stralunato, colle labbra strette, gli occhi accesi che pareva un pazzo.
- Eh? che cosa? - domandò la Cirmena.
- Ssst! ssst! - interruppe donna Agrippina.
Il barone Mèndola si chinò all'orecchio di Zacco per dirgli qualche cosa. L'altro scosse il testone arruffato e gonfio due o tre volte. La baronessa approfittò del buon momento per indurre don Gesualdo a pigliare un po' di ristoro dalle mani stesse di Lavinia. - Sì, un po' di brodo, due giorni che non apriva bocca il pover'uomo!...
Come passarono nella stanza accanto, che dava sulla strada, si udì da lontano un rumore che pareva del mare in tempesta. Mèndola narrò allora quello che aveva visto nel venire.
- Sissignore! Hanno messo la bandiera sul campanile.
Dicono ch'è il segno di abolire tutti i dazi e la fondiaria. Perciò or ora faranno la dimostrazione. Il procaccia delle lettere ha portato la notizia che a Palermo l'hanno già fatta... e anche in tutti i paesi lungo la strada. Sicché sarebbe una porcheria a non farla anche qui da noi... Infine cosa può costare? La banda, quattro palmi di mussolina... Guardate!... guardate!...
Dalla via del Rosario spuntava una bandiera tricolore in cima a una canna, e dietro una fiumana di gente che vociava e agitava braccia e cappelli in aria. Di tanto in tanto partiva anche una schioppettata. Il marchese, ch'era sordo come una talpa, domandò:
- Eh? Che c'è?
Il finimondo c'era! Don Gesualdo rimase colla chicchera in mano. S'udì in quel punto una forte scampanellata all'uscio, e Zacco corse a vedere. Dopo un momento sporse il capo dall'uscio dell'anticamera, e chiamò a voce alta:
- Marchese! Marchese Limòli!
Rimasero a discutere sottovoce nell'altra stanza. Pareva che il barone mettesse buone parole con un terzo che era arrivato allora, e il marchese andasse scaldandosi. - No! no! è una porcheria! - In quella rientrò Zacco, solo, col viso acceso.
- Sentite, don Gesualdo!... Un momento... una parolina...
La folla era giunta lì, sotto la casa; si vedeva la bandiera all'altezza del balcone, quasi volesse entrare. Si udivano degli urli: viva, morte.
- Un momento! - esclamò allora Zacco, mettendo da parte ogni riguardo. - Affacciatevi un momento, don Gesualdo! Fatevi vedere, se no succede qualche diavolo!...
C'era il canonico Lupi, che portava il ritratto di Pio Nono, il baronello Rubiera, giallo come un morto, sventolando il fazzoletto, tant'altra gente, tutti gridando:
- Viva!... abbasso!... morte!...
Don Gesualdo, accasciato sulla seggiola, colla chicchera in mano, seguitava a scrollare il capo, a stringersi nelle spalle, pallido come la camicia, ridotto un vero cencio. Il marchese assolutamente voleva sapere cosa cercasse quella gente, laggiù: - Eh? che cosa?
- Vogliono la vostra roba! - esclamò infine il barone Zacco fuori dei gangheri. Il marchese si mise a ridere dicendo: - Padroni! padronissimi! - In quel momento passò di furia donna Agrippina Macrì, colla tonaca color pulce che le sbatteva dietro, e nella camera della moribonda si udì un gran trambusto, seggiole rovesciate, donne che strillavano. Don Gesualdo s'alzò di botto, vacillando, coi capelli irti, posò la chicchera sul tavolino, e si mise a passeggiare innanzi e indietro, fuori di sé, picchiando le mani l'una sull'altra e ripetendo:
- S'è fatta la festa!... s'è fatta!
III
Giunse poco dopo una lettera d'Isabella la quale non sapeva nulla ancora della catastrofe, e fece piangere gli stessi sassi. Il duca scrisse anche lui - un foglietto con una lista nera larga un dito, e il sigillo stemmato, pur esso nero, che stringeva il cuore - inconsolabile per la perdita della suocera. Diceva che alla duchessa s'era dovuto nascondere la verità per consiglio degli stessi medici, visto che sarebbe stato un colpo di fulmine, malaticcia com'era anch'essa, giusto alla vigilia di mettersi in viaggio per andare a vedere sua madre!... Terminava chiedendo per lei qualche ricordo della morta, una bazzecola, una ciocca di capelli, il libro da messa, l'anellino nuziale che soleva portare al dito...
Al notaro poi scrisse per chiedere se la defunta, buon'anima, avesse lasciati beni stradotali. - Si seppe poi da don Emanuele Fiorio, l'impiegato della posta, il quale scovava i fatti di tutto il paese, giacché il notaro non rispose neppure, e solo con qualche intimo, brontolone come s'era fatto coll'età , andava dicendo:
- Mi pare che il signor duca sia ridotto a cercare la luna nel pozzo, mi pare!
La povera morta se n'era andata alla sepoltura in fretta, fra quattro ceri, nel subbuglio della gente ammutinata che voleva questo, e voleva quell'altro, stando in piazza dalla mattina alla sera, a bociare colle mani in tasca e la bocca aperta, aspettando la manna che doveva piovere dal campanile imbandierato. Ciolla ch'era diventato un pezzo grosso alfine, con una penna nera nel cappello e un camiciotto di velluto che sembrava un bambino, a quell'età , passeggiava su e giù per la piazza, guardando di qua e di là come a dire alla gente: - Ehi! badate a voi adesso! - Don Luca, portando la croce dinanzi alla bara, ammiccava gentilmente, per farsi strada fra la folla, e sorrideva ai conoscenti, come udiva lungo la via tutti quei gloria che recitava la gente alle spalle di mastro-don Gesualdo.
- Un brigante! un assassino! uno che s'era arricchito, mentre tanti altri erano rimasti poveri e pezzenti peggio di prima! uno che aveva i magazzini pieni di roba, e mandava ancora l'usciere in giro per raccogliere il debito degli altri. - A strillare più forte erano i debitori che s'erano mangiato il grano in erba prima della messe. Gli rinfacciavano pure di essere il più tenace a non voler che gli altri si pigliassero le terre del comune, ciascuno il suo pezzetto. Non si sapeva donde fosse partita l'accusa; ma ormai era cosa certa. Lo dicevano tutti: il canonico Lupi armato sino ai denti, il barone Rubiera colla cacciatora di fustagno, come un povero diavolo. Essi erano continuamente in mezzo ai capannelli, alla mano e bonaccioni, col cuore sulle labbra: - Quel mastro-don Gesualdo sempre lo stesso! aveva fatto morire la moglie senza neppure chiamare un medico da Palermo! Una Trao! Una che l'aveva messo all'onore del mondo! A che l'era giovato essere tanto ricca? - Il canonico si lasciava sfuggire dell'altro ancora, in confidenza: Le stesse messe in suffragio dell'anima avevano lesinato alla poveretta! - Lo so di certo. Sono stato in sagrestia. Se non ha cuore neppure pel sangue suo!... Non mi fate parlare, chè domattina devo dir messa! - Nobili e plebei, passato il primo sbigottimento, erano diventati tutti una famiglia. Adesso i signori erano infervorati a difendere la libertà ; preti e frati col crocifisso sul petto, o la coccarda di Pio Nono, e lo schioppo ad armacollo. Don Nicolino Margarone s'era fatto capitano, cogli speroni e il berretto gallonato. Donna Agrippina Macrì preparava filacce e parlava d'andare al campo, appena cominciava la guerra. La signora Capitana raccoglieva per la compera dei fucili, vestita di tre colori, il casacchino rosso, la gonnella bianca, e un cappellino calabrese colle penne verdi ch'era un amore. Le altre dame ogni giorno portavano sassi alle barricate, fuori porta, coi canestrini ornati di nastri e la musica avanti. Sembrava una festa, mattina e sera, con tutte quelle bandiere, quella folla per le strade, quelle grida di viva e di abbasso, ogni momento, lo scampanìo, la banda che suonava, la luminaria più tardi. Le sole finestre che rimanessero chiuse erano quelle di don Gesualdo Motta. Lui il solo che se ne stesse rintanato come un lupo, nemico del suo paese, adesso che ci s'era ingrassato, lagnandosi continuamente che venivano a pelarlo ogni giorno, la commissione per i poveri, il prestito forzoso la questua pei fucili!... Lui lo mettevano in capo lista, lo tassavano il doppio degli altri. Gli toccava difendersi e litigare. I signori del Comitato che tornavano stanchi di casa sua, dopo un'ora di tira e molla, ne contavano delle belle. Dicevano che non capiva più niente, uno stupido, l'ombra di mastro-don Gesualdo, un cadavere addirittura, che stava ancora in piedi per difendere i suoi interessi, ma la mano di Dio arriva, tosto o tardi!
Intanto i villani e gli affamati che stavano in piazza dalla mattina alla sera, a bocca aperta, aspettando la manna che non veniva, si scaldavano il capo a vicenda, discorrendo delle soperchierie patite, delle invernate di stenti, mentre c'era della gente che aveva i magazzini pieni di roba, dei campi e delle vigne!... Pazienza i signori, che c'erano nati... Ma non si davano pace, pensando che don Gesualdo Motta era nato povero e nudo al par di loro. - Se lo rammentavano tutti povero bracciante. - Speranza, la stessa sua sorella predicava lì, di faccia alla bandiera inalberata sul Palazzo di Città , ch'era giunto alfine il momento di restituire il mal tolto, di farsi giustizia colle proprie mani. Aizzava contro allo zio i suoi figliuoli che s'erano fatti grandi e grossi, e capaci di far valere le loro ragioni, se non fossero stati due capponi, come il genitore, che s'era acquetato subito, quando il cognato aveva mandato un gruzzoletto, allorché Bianca stava male, dicendo che voleva fare la pace con tutti quanti, e dei guai ne aveva anche troppi. Giacalone, a cui don Gesualdo aveva fatto pignorar la mula pel debito del raccolto, l'erede di Pirtuso, che litigava ancora con lui per certi denari che il sensale s'era portati all'altro mondo, tutti coloro che gli erano contro per un motivo o per l'altro, soffiavano adesso nel fuoco, dicendone roba da chiodi, raccontando tutte le porcherie di mastro-don Gesualdo, sparlandone in ogni bettola e in ogni crocchio, stuzzicando anche gli indifferenti, con quella storia delle terre comunali che dovevano spartirsi fra tutti quanti, delle quali ciascuno aspettava il suo...
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