[Pagina precedente]...zione affannosa di dissimularla in vari modi. Adesso non aveva più suggezione di nessuno, e afferrava chi gli capitava per domandare:
- Voglio sapere la verità , signori cari... Per regolare le mie cose... i miei interessi... - E se cercavano di rassicurarlo, dicendogli che non c'era nulla di grave... di serio... pel momento... egli tornava ad insistere, ad appuntare gli occhi, furbo, per scavar terreno: - E' che ho tanto da fare laggiù, al mio paese, signori miei... capite!... Non posso mica darmi bel tempo, io!... Bisogna che pensi a tutto, se no c'è la rovina!...
Poi spiegava di dove gli era venuto quel male: - Sono stati i dispiaceri!... i bocconi amari!... ne ho avuti tanti! Vedete, me n'è rimasto il lievito qui dentro!... - Era tornato diffidente. Temeva che non vedessero l'ora di levarselo di torno, per risparmiar la spesa e impadronirsi del fatto suo. Cercava di rassicurar tutti quanti, col sorriso affabile:
- Non guardate a spesa... Posso pagare... Mio genero lo sa... Tutto ciò che occorre... Non saranno denari persi... Se campo, ne guadagno ancora tanti dei denari... - Cogli occhi lucenti, cercava d'ingraziarsi la sua figliuola stessa. Sapeva che la roba, ahimè, mette l'inferno anche fra padri e figli. La pigliava in parola. Balbettava, accarezzandola come quand'era bambina, spiandola di sottecchi intanto, col cuore alla gola:
- Qui cosa mi manca? Ho tutto per guarire... Tutto quello che ci vorrà spenderemo, non è vero?
Ma il male lo vinceva e gli toglieva ogni illusione. In quei momenti di scoraggiamento il pover'uomo pensava a voce alta:
- A che mi serve?... a che giova tutto ciò?... Neppure a tua madre è giovato!
Un giorno venne a fargli visita l'amministratore del duca, officioso, tutto gentilezze come il suo padrone quando apparecchiavasi a dare la botta. S'informò della salute; gli fece le condoglianze per la malattia che tirava in lungo. Capiva bene, lui, un uomo d'affari come don Gesualdo... che dissesto... quanti danni... le conseguenze... un'azienda così vasta... senza nessuno che potesse occuparsene sul serio... Infine offrì d'incaricarsene lui... per l'interesse che portava alla casa... alla signora duchessa... Del signor duca era buon servo da tanti anni... Sicché prendeva a cuore anche gli interessi di don Gesualdo. Proponeva d'alleggerirlo d'ogni carico... finché si sarebbe guarito... se credeva... investendolo per procura...
A misura che colui sputava fuori il veleno, don Gesualdo andava scomponendosi in viso. Non fiatava, stava ad ascoltarlo, cogli occhi bene aperti, e intanto ruminava come trarsi d'impiccio. A un tratto si mise a urlare e ad agitarsi quasi fosse colto di nuovo dalla colica, quasi fosse giunta l'ultima sua ora, e non udisse e non potesse più parlare. Balbettò solo, smaniando:
- Chiamatemi mia figlia! Voglio veder mia figlia!
Ma appena accorse lei, spaventata egli non aggiunse altro. Si chiuse in sè stesso a pensare come uscire dal malo passo, torvo, diffidente, voltandosi in là per non lasciarsi scappare qualche occhiata che lo tradisse. Soltanto ne piantò una lunga lunga addosso a quel galantuomo che se ne andava rimminchionito. Infine, a poco a poco, finse di calmarsi. Bisognava giuocar d'astuzia per uscire da quelle grinfie. Cominciò a far segno di sì e di sì col capo, fissando gli occhi amorevoli in volto alla figliuola allibbita, col sorriso paterno, il fare bonario;
- Sì... voglio darvi in mano tutto il fatto mio... per alleggerirmi il carico... Mi farete piacere anzi... nello stato in cui sono... Voglio spogliarmi di tutto... Già ho poco da vivere... Rimandatemi a casa mia per fare la procura... la donazione... tutto ciò che vorrete... Lì conosco il notaro... so dove metter le mani... Ma prima rimandatemi a casa mia... Tutto quello che vorrete, poi!...
- Ah, babbo, babbo! - esclamò Isabella colle lagrime agli occhi.
Ma egli sentivasi morire di giorno in giorno. Non poteva più muoversi. Sembravagli che gli mancassero le forze d'alzarsi dal letto e andarsene via perché gli toglievano il denaro, il sangue delle vene, per tenerlo sottomano, prigioniero. Sbuffava, smaniava, urlava di dolore e di collera. E poi ricadeva sfinito, minaccioso, colla schiuma alla bocca, sospettando di tutto, spiando prima le mani del cameriere se beveva un bicchiere d'acqua, guardando ciascuno negli occhi per scoprire la verità , per leggervi la sua sentenza, costretto a ricorrere agli artifizii per sapere qualcosa di quel che gli premeva.
- Chiamatemi quell'uomo dell'altra volta... Portatemi le carte da firmare... E' giusto, ci ho pensato su. Bisogna incaricare qualcuno dei miei interessi, finchè guarisco...
Ma adesso coloro non avevano fretta; gli promettevano sempre, dall'oggi al domani. Lo stesso duca si strinse nelle spalle: come a dire che non serviva più. Un terrore più grande, più vicino, della morte lo colse a quell'indifferenza. Insisteva, voleva disporre della sua roba, come per attaccarsi alla vita, per far atto d'energia e di volontà . Voleva far testamento, per dimostrare a sè stesso ch'era tuttora il padrone. Il duca finalmente, per chetarlo, gli disse che non occorreva, poiché non c'erano altri eredi... Isabella era figlia unica...
- Ah?... - rispose lui. - Non occorre... è figlia unica?...
E tornò a ricoricarsi, lugubre. Avrebbe voluto rispondergli che ce n'erano ancora, degli eredi nati prima di lei, sangue suo stesso. Gli nascevano dei rimorsi, colla bile. Faceva dei brutti sogni, delle brutte facce pallide e irose gli apparivano la notte; delle voci, degli scossoni lo facevano svegliare di soprassalto, in un mare di sudore, col cuore che martellava forte. Tanti pensieri gli venivano adesso, tanti ricordi, tante persone gli sfilavano dinanzi: Bianca, Diodata, degli altri ancora: quelli non l'avrebbero lasciato morire senza aiuto! Volle un altro consulto, i migliori medici. Ci dovevano essere dei medici pel suo male, a saperli trovare, a pagarli bene. Il denaro l'aveva guadagnato apposta, lui! Al suo paese gli avevano fatto credere che rassegnandosi a lasciarsi aprire il ventre... Ebbene, sì, sì!
Aspettava il consulto, il giorno fissato, sin dalla mattina, raso e pettinato, seduto nel letto, colla faccia color di terra, ma fermo e risoluto. Ora voleva vederci chiaro nei fatti suoi. - Parlate liberamente, signori miei. Tutto ciò che si deve fare si farà !
Gli batteva un po' il cuore. Sentiva un formicolìo come di spasimo anticipato tra i capelli. Ma era pronto a tutto; quasi scoprivasi il ventre, perchè si servissero pure. Se un albero ha la cancrena addosso, cos'è infine? Si taglia il ramo! Adesso invece i medici non volevano neppure operarlo. Avevano degli scrupoli, dei ma e dei se. Si guardavano fra di loro e biasciavano mezze parole. Uno temeva la responsabilità ; un altro osservò che non era più il caso... oramai... Il più vecchio, una faccia di malaugurio che vi faceva morire prima del tempo, com'è vero Dio, s'era messo già a confortare la famiglia, dicendo che sarebbe stato inutile anche prima, con un male di quella sorta...
- Ah... - rispose don Gesualdo, fattosi rauco a un tratto. - Ah... Ho inteso...
E si lasciò scivolare pian piano giù disteso nel letto, trafelato. Non aggiunse altro, per allora. Stette zitto a lasciarli finire di discorrere. Soltanto voleva sapere s'era venuto il momento di pensare ai casi suoi. Non c'era più da scherzare adesso! Aveva tanti interessi gravi da lasciare sistemati... - Taci! taci! - borbottò rivolto alla figliuola che gli piangeva allato. Colla faccia cadaverica, cogli occhi simili a due chiodi in fondo alle orbite livide, aspettava la risposta che gli dovevano, infine. Non c'era da scherzare!
- No, no... C'è tempo. Simili malattie durano anni e anni... Però... certo... premunirsi... sistemare gli affari a tempo... non sarebbe male...
- Ho inteso, - ripetè don Gesualdo col naso fra le coperte. - Vi ringrazio, signori miei.
Un nuvolo gli calò sulla faccia e vi rimase. Una specie di rancore, qualcosa che gli faceva tremare le mani e la voce, e trapelava dagli occhi socchiusi. Fece segno al genero di fermarsi; lo chiamò dinanzi al letto, a quattr'occhi, da solo a solo.
- Finalmente... questo notaro... verrà , sì o no? Devo far testamento... Ho degli scrupoli di coscienza... Sissignore!... Sono il padrone, sì o no?... Ah... ah... stai ad ascoltare anche tu?...
Isabella andò a buttarsi ginocchioni ai piedi del letto, col viso fra le materasse, singhiozzando e disperandosi. Il genero lo chetava dall'altra parte. - Ma sì, ma sì, quando vorrete, come vorrete. Non c'è bisogno di far delle scene... Ecco in che stato avete messo la vostra figliuola!...
- Va bene! - seguitò a borbottare lui. - Va bene! Ho capito!
E volse le spalle, tal quale suo padre, buon'anima. Appena fu solo cominciò a muggire come un bue, col naso al muro. Ma poi se veniva gente, stava zitto. Covava dentro di sé il male e l'amarezza. Lasciava passare i giorni. Pensava ad allungarseli piuttosto, a guadagnare almeno quelli, uno dopo l'altro, così come venivano, pazienza! Finché c'è fiato c'è vita. A misura che il fiato gli andava mancando, a poco a poco, acconciavasi pure ai suoi guai; ci faceva il callo. Lui aveva le spalle grosse, e avrebbe tirato in lungo, mercé la sua pelle dura. Alle volte provava anche una certa soddisfazione, fra sé e sé, sotto il lenzuolo, pensando al viso che avrebbero fatto il signor duca e tutti quanti, al vedere che lui aveva la pelle dura. Era arrivato ad affezionarsi ai suoi malanni, li ascoltava, li accarezzava, voleva sentirseli lì, con lui, per tirare innanzi. I parenti ci avevano fatto il callo anch'essi; avevano saputo che quella malattia durava anni ed anni, e s'erano acchetati. Così va il mondo, pur troppo, che passato il primo bollore, ciascuno tira innanzi per la sua via e bada agli affari propri. Non si lamentava neppure; non diceva nulla, da villano malizioso, per non sprecare il fiato, per non lasciarsi sfuggire quel che non voleva dire; solamente gli scappavano di tanto in tanto delle occhiate che significavano assai, al veder la figliuola che gli veniva dinanzi con quella faccia desolata, e poi teneva il sacco al marito, e lo incarcerava lì, sotto i suoi occhi, col pretesto dell'affezione, per covarselo, pel timore che non gli giuocasse qualche tiro nel testamento. Indovinava che teneva degli altri guai nascosti, lei, e alle volte aveva la testa altrove, mentre suo padre stava colla morte sul capo. Si rodeva dentro, a misura che peggiorava; il sangue era diventato tutto un veleno; ostinavasi sempre più, taciturno, implacabile, col viso al muro, rispondendo solo coi grugniti, come una bestia.
Finalmente si persuase ch'era giunta l'ora, e s'apparecchiò a morire da buon cristiano. Isabella era venuta subito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi gomiti, e si rizzò a sedere sul letto. - Senti, - le disse, - ascolta...
Era turbato in viso, ma parlava calmo. Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accennava col capo. Essa gli prese la mano e scoppiò a singhiozzare.
- Taci, - riprese, - finiscila. Se cominciamo così non si fa nulla.
Ansimava perchè aveva il fiato corto, ed anche per l'emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volse verso l'uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano scarna, e trinciò una croce in aria, per significare ch'era finita, e perdonava a tutti, prima d'andarsene.
- Senti... Ho da parlarti... intanto che siamo soli...
Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l'accarezzavano. L'accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, senza dire una parola. Di lì a un po' riprese:
- Ti dico di sì. Non sono un ragazzo... Non perdiamo tempo inutilmente. - Poi gli venne una tenerezza. - Ti dispiace, eh?... ti dispiace a te pure?...
La voce gli si era intenerita anch'essa, gli occhi, tristi, s'erano fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. - Ti ho voluto bene... anch'io... quanto ho potuto... come ho potuto... Quando uno...
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