[Pagina precedente]... fa quello che può...
Allora l'attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per vedere se voleva lei pure, e l'abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini.
- Non ti fo male, di'?... come quand'eri bambina?...
Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d'interessi, avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò discorso.
- Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso...
Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiudere gli occhi.
- Ma no, parliamone! - insisteva lui. - Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere adesso. - Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli corruscava negli occhi. - Allora vuol dire che non te ne importa nulla... come a tuo marito...
Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, con tutti quei debiti... Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: - Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!... quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!... Lui non sa cosa vuol dire! - Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l'Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l'altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi: - Mangalavite, sai... la conosci anche tu... ci sei stata con tua madre... Quaranta salme di terreni, tutti alberati!... ti rammenti... i belli aranci?... anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!... 300 migliaia l'anno, ne davano! Circa 300 onze! E la Salonia... dei seminati d'oro... della terra che fa miracoli... benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!...
Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino.
- Basta, - disse poi. - Ho da dirti un'altra cosa... Senti...
La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l'effetto che avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino che esitava e cercava le parole.
- Senti!... Ho degli scrupoli di coscienza... Vorrei lasciare qualche legato a delle persone verso cui ho degli obblighi... Poca cosa... Non sarà molto per te che sei ricca... Farai conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda... in punto di morte... se ho fatto qualcosa anch'io per te...
- Ah, babbo, babbo!... che parole! - singhiozzò Isabella.
- Lo farai, eh? lo farai?... anche se tuo marito non volesse...
Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l'avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell'altro segreto, quell'altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in sè, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta, com'essa era Trao, diffidente, ostile, di un'altra pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse altro.
- Ora fammi chiamare un prete, - terminò con un altro tono di voce. - Voglio fare i miei conti con Domeneddio.
Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l'udì agitarsi e smaniare prima dell'alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall'altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c'era.
- Mia figlia! - borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. - Chiamatemi mia figlia!
- Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla, - rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
Ma non lo lasciava dormire quell'accidente! Un po' erano sibili, e un po' faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce.
- Cos'è? Gli è venuto l'uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?
Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto.
- Ohi! ohi! Che facciamo adesso? - balbettò grattandosi il capo.
Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po', o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s'irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s'affacciò a prendere una boccata d'aria, fumando.
Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra.
- Mattinata, eh, don Leopoldo?
- E nottata pure! - rispose il cameriere sbadigliando. - M'è toccato a me questo regalo!
L'altro scosse il capo, come a chiedere che c'era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n'era andato, grazie a Dio.
- Ah... così... alla chetichella?... - osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l'androne.
Degli altri domestici s'erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po' la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.
- Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica... E neanche lui... non vi mette più le mani addosso di sicuro...
- Zitto, scomunicato!... No, ho paura, poveretto... - Ha cessato di penare.
- Ed io pure, - soggiunse don Leopoldo.
Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano - uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. - Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi... Basta, dei morti non si parla.
- Si vede com'era nato... - osservò gravemente il cocchiere maggiore. - Guardate che mani!
- Già, son le mani che hanno fatto la pappa!... Vedete cos'è nascer fortunati... Intanto vi muore nella battista come un principe!...
- Allora, - disse il portinaio, - devo andare a chiudere il portone?
- Sicuro, eh! E' roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa.
Mastro don Gesualdo - Giovanni Verga
- Fine -