[Pagina precedente]...idato per mano come orbo ch'io era; che in fatti chiusi gli occhi all'ingresso, non gli apersi piú finché non fui inginocchiato al mio luogo di udir la messa; né, aprendoli poi, li alzai mai a segno di potervi distinguere nessuno. E rifattomi orbo all'uscire, tornai a casa con la morte in cuore, credendomi disonorato per sempre. Non volli in quel giorno mangiare, né parlare, né studiare, né piangere. E fu tale in somma e tanto il dolore, e la tensione d'animo, che mi ammalai per piú giorni; né mai piú si nominò pure in casa il supplizio della reticella, tanto era lo spavento che cagionò alla amorosissima madre la disperazione ch'io ne mostrai. Ed io parimenti per assai gran tempo non dissi piú bugia nessuna; e chi sa s'io non devo poi a quella benedetta reticella l'essere riuscito in appresso un degli uomini i meno bugiardi ch'io conoscessi.
Altra storietta. Era venuta in Asti la mia nonna materna, matrona di assai gran peso in Torino, vedova di uno dei barbassori di corte, e corredata di tutta quella pompa di cose, che nei ragazzi lasciano grand'impressione. Questa, dopo essere stata alcuni giorni con la mia madre, per quanto mi fosse andata accarezzando moltissimo in quel frattempo, io non m'era per niente addimesticato con lei, come selvatichetto ch'io m'era; onde, stando essa poi per andarsene, mi disse ch'io le doveva chiedere una qualche cosa, quella che piú mi potrebbe soddisfare, e che me la darebbe di certo. Io, a bella prima per vergogna e timidezza ed irresoluzione, ed in seguito poi per ostinazione e ritrosia, incoccio sempre a rispondere la stessa e sola parola: niente; e per quanto poi ci si provassero tutti in venti diverse maniere a rivoltarmi per pure estrarre da me qualcosa altro che non fosse quell'ineducatissimo niente, non fu mai possibile; né altro ci guadagnarono nel persistere gl'interrogatori, se non che da principio il niente veniva fuori asciutto, e rotondo; poi verso il mezzo veniva fuori con voce dispettosa e tremante ad un tempo; ed in ultimo, fra molte lagrime, interrotto da profondi singhiozzi. Mi cacciarono dunque, come io ben meritava, dalla loro presenza, e chiusorni in camera, mi lasciarono godermi il mio cosà desiderato niente, e la nonna partÃ. Ma quell'istesso io, che con tanta pertinacia aveva ricusato ogni dono legittimo della nonna, piú giorni addietro le avea pure involato in un suo forziere aperto un ventaglio, che poi celato nel mio letto, mi fu ritrovato dopo alcun tempo; ed io allora dissi, com'era vero, di averlo preso per darlo poi alla mia sorella. Gran punizione mi toccò giustamente per codesto furto; ma, benché il ladro sia alquanto peggior del bugiardo, pure non mi venne piú né minacciato né dato il supplizio della reticella; tanta era piú la paura che aveva la mia madre di farmi ammalare di dolore, che non di vedermi riuscire un po' ladro; difetto, per il vero, da non temersi poi molto, e non difficile a sradicarsi da qualunque ente non ha bisogno di esercitarlo. Il rispetto delle altrui proprietà , nasce e prospera prestissimo negl'individui che ne posseggono alcune legittime loro.
E qui, a guisa di storietta, inserirò pure la mia prima confessione spirituale, fatta tra i sette ed otto anni. Il maestro mi vi andò preparando, suggerendomi egli stesso i diversi peccati ch'io poteva aver commessi, dei piú de' quali io ignorava persino i nomi. Fatto questo preventivo esame in comune con don Ivaldi, si fissò il giorno in cui porterei il mio fastelletto ai piedi del padre Angelo, carmelitano, il quale era anche il confessore di mia madre. Andai: né so quel che me gli dicessi, tanta era la mia natural ripugnanza e il dolore di dover rivelare i miei segreti fatti e pensieri ad una persona ch'io appena conosceva. Credo, che il frate facesse egli stesso la mia confessione per me; fatto si è che assolutomi m'ingiungeva di prosternarmi alla madre prima di entrare in tavola, e di domandarle in tal atto pubblicamente perdono di tutte le mie mancanze passate. Questa penitenza mi riusciva assai dura da ingoiare; non già , perché io avessi ribrezzo nessuno di domandar perdono alla madre; ma quella prosternazione in terra, e la presenza di chiunque vi potrebbe essere, mi davano un supplizio insoffribile. Tornato dunque a casa, salito a ora di pranzo, portato in tavola, e andati tutti in sala, mi parve di vedere che gli occhi di tutti si fissassero sopra di me; onde io chinando i miei me ne stavo dubbioso e confuso ed immobile, senza accostarmi alla tavola, dove ognuno andava pigliando il suo luogo; ma non mi figurava per tutto ciò, che alcuno sapesse i segreti penitenziali della mia confessione. Fattomi poi un poco di coraggio, m'inoltro per sedermi a tavola; ed ecco la madre con occhio arcigno guardandomi, mi domanda se io mi ci posso veramente sedere; se io ho fatto quel ch'era mio dovere di fare; e se in somma io non ho nulla da rimproverare a me stesso. Ciascuno di questi quesiti mi era una pugnalata nel cuore; rispondeva certamente per me l'addolorato mio viso; ma il labbro non poteva proferir parola; né ci fu mezzo mai, che io volessi non che eseguire, ma né articolare né accennar pure la ingiuntami penitenza. E parimente la madre non la voleva accennare, per non tradire il traditor confessore. Onde la cosa finÃ, che ella perdé per quel giorno la prosternazione da farglisi, ed io ci perdei il pranzo, e fors'anco l'assoluzione datami a sà duro patto dal padre Angelo. Non ebbi con tutto ciò per allora la sagacità di penetrare che il padre Angelo aveva concertato con mia madre la penitenza da ingiungermi. Ma il core servendomi in ciò meglio assai dell'ingegno, contrassi d'allora in poi un odietto bastantemente profondo pel suddetto frate, e non molta propensione in appresso per quel sagramento ancorché nelle seguenti confessioni non mi si ingiungesse poi mai piú nessuna pena pubblica.
CAPITOLO QUINTO
Ultima storietta puerile.
Era venuto in vacanza in Asti il mio fratello maggiore, il marchese di Cacherano, che da alcuni anni si stava educando in Torino nel collegio de' Gesuiti. Egli era in età di circa anni quattordici al piú, ed io di otto. La di lui compagnia mi riusciva ad un tempo di sollievo e d'angustia. Siccome io non lo avea mai conosciuto prima (essendomi egli fratello uterino soltanto), io veramente non mi sentiva quasi nessun amore per esso; ma siccome egli andava pure un cotal poco ruzzando con me, una certa inclinazione per lui mi sarebbe venuta crescendo con l'assuefazione. Ma egli era tanto piú grande di me; avea piú libertà di me, piú danari, piú carezze dai genitori; avea già vedute piú assai cose di me, abitando in Torino; aveva spiegato il Virgilio; e che so io, tante altre cosarelle aveva egli, che io non avea, che allora finalmente io conobbi per la prima volta l'invidia. Ella non era però atroce, poiché non mi traeva ad odiare precisamente quell'individuo, ma mi faceva ardentissimamente desiderare di aver io le stesse cose, senza però volerle togliere a lui. E questa credo io, che sia la diramazione delle due invidie, di cui, l'una negli animi rei diventa poi l'odio assoluto contro chi ha il bene, e il desiderio d'impedirglielo, o toglierglielo, anche non lo acquistando per sé; l'altra, nei non rei, diventa sotto il nome di emulazione, o di gara, un'inquietissima brama di ottenere quelle cose stesse in eguale o maggior copia dell'altro. Oh quanto è sottile, e invisibile quasi la differenza che passa fra il seme delle nostre virtú e dei nostri vizi!
Io dunque, con questo mio fratello ora ruzzando, ora bisticciando, e cavandone ora dei regalucci, ora dei pugni, mi passava tutta quella state assai piú divertito del solito, essendo io fin allora stato sempre solo in casa; che non v'è pe' ragazzi maggior fastidio. Un giorno tra gli altri caldissimo, mentre tutti su la nona facevano la siesta, noi due stavamo facendo l'esercizio alla prussiana, che il mio fratello m'insegnava. Io, nel marciare, in una voltata cado, e batto il capo sopra uno degli alari rimasti per incuria nel camminetto sin dall'inverno precedente. L'alare, per essere tutto scassinato e privo di quel pomo d'ottone solito ad innestarvisi su le due punte che sporgono in fuori del camminetto, su una di esse mi venni quasi ad inchiodare la testa un dito circa sopra l'occhio sinistro nel bel mezzo del sopraciglio. E fu la ferita cosà lunga e profonda, che tuttora ne porto, e porterò sino alla tomba, la cicatrice visibilissima. Dalla caduta mi rizzai immediatamente da me stesso, ed anzi gridai subito al fratello di non dir niente; tanto piú che in quel primo impeto non mi parea d'aver sentito nessunissimo dolore, ma bensà molta vergogna di essermi cosà mostrato un soldato male in gambe. Ma già il fratello era corso a risvegliare il maestro, e il romore era giunto alla madre, e tutta la casa era sottosopra. In quel frattempo, io che non avea punto gridato né cadendo né rizzandomi, quando ebbi fatti alcuni passi verso il tavolino, al sentirmi scorrere lungo il viso una cosa caldissima, portatevi tosto le mani, tosto che me le vidi ripiene di sangue cominciai allora ad urlare. E doveano essere di semplice sbigottimento quegli urli, poiché mi ricordo benissimo, che non sentii mai nessun dolore sinché non venne il chirurgo e cominciò a lavare a tastare e medicare la piaga. Questa durò alcune settimane, prima di rimarginare; e per piú giorni dovei stare al buio, perché si temeva non poco per l'occhio, stante la infiammazione e gonfiezza smisurata, che vi si era messa. Essendo poi in convalescenza, ed avendo ancora gl'impiastri e le fasciature, andai pure con molto piacere alla messa al Carmine; benché certo quell'assetto spedalesco mi sfigurasse assai piú che non quella mia reticella da notte, verde e pulita, quale appunto i zerbini d'AndalusÃa portano per vezzo. Ed io pure, poi viaggiando nelle Spagne la portai per civetteria ad imitazione di essi. Quella fasciatura dunque non mi facea nessuna ripugnanza a mostrarla in pubblico: o fosse, perché l'idea, di un pericolo corso mi lusingasse; o che, per un misto d'idee ancora informi nel mio capicino, io annettessi pure una qualche idea di gloria a quella ferita. E cosà bisogna pure che fosse; poiché, senza aver presenti alla mente i moti dell'animo mio in quel punto, mi ricordo bensà che ogniqualvolta s'incontrava qualcuno che domandasse al prete Ivaldi cosa fosse quel mio capo fasciato; rispondendo egli, ch'io era cascato; io subito soggiungeva del mio: facendo l'esercizio.
Ed ecco, come nei giovanissimi petti, chi ben li studiasse, si vengono a scorgere manifestamente i semi diversi delle virtú e dei vizi. Che questo certamente in me era un seme di amor di gloria; ma, né il prete Ivaldi, né quanti altri mi stavano intorno, non facevano simili riflessioni.
Circa un anno dopo, quel mio fratello maggiore, tornatosene in quel frattempo in collegio a Torino, infermò gravemente d'un mal di petto, che degenerato in etisia, lo menò alla tomba in alcuni mesi. Lo cavarono di collegio, lo fecero tornare in Asti nella casa materna, e mi portarono in villa perché non lo vedessi; ed in fatti in quell'estate morà in Asti, senza ch'io lo rivedessi piú. In quel frattempo il mio zio paterno, il cavalier Pellegrino Alfieri, al quale era stata affidata la tutela de' miei beni sin dalla morte di mio padre, e che allora ritornava di un suo viaggio in Francia, Olanda e Inghilterra, passando per Asti mi vide; ed avvistosi forse, come uomo di molto ingegno ch'egli era, ch'io non imparerei gran cosa continuando quel sistema d'educazione, tornato a Torino, di là a pochi mesi scrisse alla madre, che egli voleva assolutamente pormi nell'Accademia di Torino. La mia partenza si trovò dunque coincidere con la morte del fratello; onde io avrò sempre presenti alla mente l'aspetto i gesti e le parole della mia addoloratissima madre, che diceva singhiozzando: "Mi è tolto l'uno da Dio, e per sempre: e quest'altro, chi sa per quanto!". Ella non aveva allora dal suo terzo marito se non se una femmina; due maschi poi le nacquero successivamente, me...
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