[Pagina precedente]...r meco dopo quei due anni del secondo mio viaggio. E questi illustri maestri mi accompagnarono poi sempre da allora in poi da per tutto; benché in quei primi due o tre anni non ne facessi a dir vero grand'uso. Certo che allora comprai la raccolta piú per averla che non per leggerla, non mi sentendo nessuna né voglia né possibilità di applicar la mente in nulla. E quanto alla lingua italiana sempre piú m'era uscita dall'animo e dall'intendimento a tal segno, che ogni qualunque autore sopra il Metastasio mi dava molto imbroglio ad intenderlo. Tuttavia, cosà per ozio e per noia, squadernando alla sfuggita que' miei trentasei volumetti mi maravigliai del gran numero di rimatori che in compagnia dei nostri quattro sommi poeti erano stati collocati a far numero; gente, di cui (tanta era la mia ignoranza) io non avea mai neppure udito il nome; ed erano: un Torracchione, un Morgante, un Ricciardetto, un Orlandino, un Malmantile, e che so io; poemi, dei quali molti anni dopo deplorai la triviale facilità , e la fastidiosa abbondanza. Ma carissima mi riuscà la mia nuova compra, poiché mi misi d'allora in poi in casa per sempre que' sei luminari della lingua nostra, in cui tutto c'è; dico Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Boccaccio e Machiavelli; e di cui (pur troppo per mia disgrazia e vergogna) io era giunto all'età di circa ventidue anni senza averne punto mai letto, toltone alcuni squarci dell'Ariosto nella prima adolescenza essendo in Accademia, come mi pare di aver detto a suo luogo.
Munito in tal guisa di questi possenti scudi contro l'ozio e la noia (ma invano, poiché sempre ozioso e noioso altrui e a me stesso rimanevami), partii per la Spagna verso il mezzo agosto. E per Orléans, Tours, Poitiers, Bordeaux e Toulouse, attraversata senza occhi la piú bella e ridente parte della Francia, entrai in Ispagna per la via di Perpignano; e Barcellona fu la prima città dove mi volli alquanto trattenere da Parigi in poi. In tutto questo lungo tratto di viaggio non facendo per lo piú altro che piangere tra me e me soletto in carrozza, ovvero a cavallo, di quando in quando andava pur ripigliando alcun tometto del mio Montaigne, il quale da piú di un anno non avea piú guardato in viso. Questa lettura spezzata mi andava restituendo un pocolino di senno e di coraggio, ed una qualche consolazione anche me la dava.
Alcuni giorni dopo essere arrivato a Barcellona, siccome i miei cavalli inglesi erano rimasti in Inghilterra, venduti tutti, fuorché il bellissimo lasciato in custodia al marchese Caraccioli; e siccome io senza cavalli non son neppur mezzo, subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, piú piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo. Dacché era nato sempre avea desiderato cavalli di Spagna, che difficilmente si possono estrarre: onde non mi parea vero di averne due sà belli; e questi mi sollevavano assai piú che Montaigne. E su questi io disegnava di fare tutto il mio viaggio di Spagna, dovendo la carrozza andare a corte giornate a passo di mula, stante che posta per le carrozze non v'è stabilita, né vi potrebbe essere attese le pessime strade di tutto quel regno affricanissimo. Qualche indisposizionuccia avendomi costretto di soggiornare in Barcellona sino ai primi di novembre, in quel frattempo col mezzo di una grammatica e vocabolario spagnuolo mi era messo da me a leggicchiare quella bellissima lingua, che riesce facile a noi italiani; ed in fatti tanto leggeva il Don Quixote, e bastantemente lo intendeva e gustava: ma in ciò molto mi riusciva di aiuto l'averlo già altre volte letto in francese.
Postomi in via per Saragozza e Madrid, mi andava a poco a poco avvezzando a quel nuovissimo modo di viaggiare per quei deserti; dove chi non ha molta gioventú, salute, danari e pazienza, non ci può resistere. Pure io mi vi feci in quei quindici giorni di viaggio sino a Madrid in maniera che poi mi tediava assai meno l'andare, che il soggiornare in qualunque di quelle semibarbare città : ma per me l'andare era sempre il massimo dei piaceri; e lo stare il massimo degli sforzi; cosà volendo la mia irrequieta indole. Quasi tutta la strada soleva farla a piedi col mio bell'andaluso accanto, che mi accompagnava come un fedelissimo cane, e ce la discorrevamo fra noi due; ed era il mio gran gusto d'essere solo con lui in quei vasti deserti dell'Arragona; perciò sempre facea precedere la mia gente col legno e le mule, ed io seguitava di lontano. Elia frattanto sovra un muletto andava con lo schioppo a dritta e sinistra della strada cacciando e tirando conigli, lepri, ed uccelli, che quelli sono gli abitatori della Spagna; e precedendomi poi di qualch'ora mi facea trovare di che sfamarmi alla posata del mezzogiorno, e cosà a quella della sera.
Disgrazia mia (ma forse fortuna d'altri) che io in quel tempo non avessi nessunissimo mezzo né possibilità oramai di stendere in versi i miei diversi pensieri ed affetti; ché in quelle solitudini e moto continuato avrei versato un diluvio di rime, infinite essendo le riflessioni malinconiche e morali, come anche le imagini e terribili, e liete, e miste, e pazze, che mi si andavano affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando neppure di dovere né poter mai scrivere nessuna cosa né in prosa né in versi, io mi contentava di ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che, se non sono poi seguitate da scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano poesia, e lo sono.
In questo modo me la passai in quel primo viaggio sino a Madrid; e tanto era il genio che era andato prendendo per quella vita di zingaro, che subito in Madrid mi tediai, e non mi vi trattenni che a stento un mesetto; né ci trattai né conobbivi anima al mondo, eccetto un oriuolaio, giovine spagnuolo che tornava allora di Olanda, dove era andato per l'arte sua. Questo giovinetto era pieno d'ingegno naturale, ed avendo un pocolino visto il mondo si mostrava meco addoloratissimo di tutte le tante e sà diverse barbarie che ingombravano la di lui patria. E qui narrerò brevemente una mia pazza bestialità che mi accadde di fare contro il mio Elia, trovandovisi in terzo codesto giovine spagnuolo. Una sera che questo oriuolaio avea cenato meco, e che ancora si stava discorrendo a tavola dopo cenati, entrò Elia per ravviarmi al solito i capelli, per poi andarcene tutti a letto; e nello stringere col compasso una ciocca di capelli, me ne tirò un pochino piú l'uno che l'altro. Io, senza dirgli parola, balzato in piedi piú ratto che folgore, di un man rovescio con uno dei candelieri ch'avea impugnato glie ne menai un cosà fiero colpo su la tempia diritta, che il sangue zampillò ad un tratto come da una fonte sin sopra il viso e tutta la persona di quel giovine, che mi stava seduto in faccia all'altra parte di quella assai ben larga tavola dove si era cenati. Quel giovane, che mi credé (con ragione) impazzito subitamente, non avendo osservato né potendosi dubitare che un capello tirato avesse cagionato quel mio improvviso furore, saltò subito su egli pure come per tenermi. Ma già in quel frattempo l'animoso ed offeso e fieramente ferito Elia, mi era saltato addosso per picchiarmi; e ben fece. Ma io allora snellissimo gli scivolai di sotto, ed era già saltato su la mia spada che stava in camera posata su un cassettone, ed avea avuto il tempo di sfoderarla. Ma Elia inferocito mi tornava incontro, ed io glie l'appuntava al petto; e lo spagnuolo a rattenere ora Elia, ed or me; e tutta la locanda a romore; e i camerieri saliti, e cosà separata la zuffa tragicomica e scandalosissima per parte mia. Rappaciati alquanto gli animi si entrò negli schiarimenti; io dissi che l'essermi sentito tirar i capelli mi avea messo fuor di me; Elia disse di non essersene avvisto neppure; e lo spagnuolo appurò ch'io non era impazzito, ma che pure savissimo non era. Cosà finà quella orribile rissa, di cui io rimasi dolentissimo e vergognosissimo e dissi ad Elia ch'egli avrebbe fatto benissimo ad ammazzarmi. Ed era uomo da farlo; essendo egli di statura quasi un palmo piú di me che sono altissimo; e di coraggio e forza niente inferiore all'aspetto. La piaga della tempia non fu profonda, ma sanguinò moltissimo, e poco piú in su che l'avessi colto, io mi trovava aver ucciso un uomo che amavo moltissimo per via d'un capello piú o meno tirato. Inorridii molto di un cosà bestiale eccesso di collera; e benché vedessi Elia alquanto placato, ma non rasserenato meco, non volli pure né mostrare né nutrire diffidenza alcuna di lui; e un par d'ore dopo, fasciata che fu la ferita, e rimessa in sesto ogni cosa me n'andai a letto, lasciando la porticina che metteva in camera di Elia, aderente alla mia, aperta al solito, e senza voler ascoltare lo spagnuolo che mi avvertiva di non invitare cosà un uomo offeso e irritato di fresco ad una qualche vendetta. Ma io anzi dissi forte ad Elia che era già stato posto a letto, che egli poteva volendo uccidermi quella notte se ciò gli tornava comodo, poiché io lo meritava. Ma egli era eroe per lo meno quanto me; né altra vendetta mai volle prendere, che di conservare poi per sempre due fazzoletti pieni zeppi di sangue, coi quali s'era rasciutta da prima la fumante piaga; e di poi mostrarmeli qualche volta, che li serbò per degli anni ben molti. Questo reciproco misto di ferocia e di generosità per parte di entrambi noi, non si potrà facilmente capire da chi non ha esperienza dei costumi, e del sangue di noi piemontesi.
Io, nel rendere poi dopo ragione a me stesso del mio orribile trasporto, fui chiaramente convinto, che aggiunta all'eccessivo irascibile della natura mia l'asprezza occasionata dalla continua solitudine ed ozio, quella tiratura di capello avea colmato il vaso, e fattolo in quell'attimo traboccare. Del resto io non ho mai battuto nessuno che mi servisse se non se come avrei fatto un mio eguale; e non mai con bastone né altr'arme, ma con pugni, o seggiole, o qualunque altra cosa mi fosse caduta sotto la mano, come accade quando da giovine altri, provocandoti, ti sforza a menar le mani. Ma nelle pochissime volte che tal cosa mi avvenne, avrei sempre approvato e stimato quei servi che mi avessero risalutato con lo stesso picchiare; atteso che io non intendeva mai di battere il servo come padrone, ma di altercare da uomo ad uomo.
Vivendo cosà come orso terminai il mio breve soggiorno in Madrid, dove non vidi nessunissima delle non molte cose, che poteano eccitare qualche curiosità ; né il palazzo dell'Escurial famosissimo, né Araniuez, né il palazzo pure del re in Madrid, non che vedervi il padrone di esso. E cagione principale di questa straordinaria selvatichezza fu l'essere io mezzo guasto col nostro ambasciator di Sardegna; ch'io avea conosciuto in Londra dal primo viaggio ch'io ci avea fatto nel 1768, dove egli era allora ministro, e non c'eramo niente piaciuti l'un l'altro. Nell'arrivare io a Madrid, saputo ch'egli era con la corte in una di quelle ville reali, colsi subito il tempo ch'egli non v'era, e lasciai il polizzino di visita con una commendatizia della Segreteria di Stato che avea recato meco com'è d'uso. Tornato egli in Madrid fu da me, non mi trovò; né io piú mai cercai di lui, né egli di me. E tutto questo non contribuiva forse poco a sempre piú inasprire il mio già bastantemente insoave ed irto carattere. Lasciai dunque Madrid verso i primi del dicembre, e per Toledo, e Badaioz, mi avviai a passo a passo verso Lisbona, dove dopo circa venti giorni di viaggio arrivai la vigilia del Natale.
Lo spettacolo di quella città , la quale a chi vi approda, come io, da oltre il Tago, si presenta in aspetto teatrale e magnifico quasi quanto quello di Genova, con maggiore estensione e varietà , mi rapà veramente, massime in una certa distanza. La maraviglia poi e il diletto andavano scemando all'approssimar della ripa, e intieramente poi mi si...
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