[Pagina precedente]...i cosà sbiadita ed eunuca nel dialogo tragico? Perché il Cesarotti che sà vibratamente verseggia nell'Ossian, cosà fiaccamente poi sermoneggia nella Semiramide e nel Maometto del Voltaire da esso tradotte? Perché quel pomposo galleggiante scioltista caposcuola, il Frugoni, nella sua traduzione del Radamisto del Crebillon, è egli sà immensamente minore del Crebillon e di sé medesimo? Certo, ogni altra cosa ne incolperò che la nostra pieghevole e proteiforme favella. E questi dubbi ch'io proponeva ai miei amici e censori, nissuno me li sciogliea. L'ottimo Paciaudi mi raccomandava frattanto di non trascurare nelle mie laboriose letture la prosa, ch'egli dottamente denominava la nutrice del verso. Mi sovviene a questo proposito, che un tal giorno egli mi portò il Galateo del Casa, raccomandandomi di ben meditarlo quanto ai modi, che certo ben pretti toscani erano, ed il contrario d'ogni franceseria. Io, che da ragazzo lo aveva (come abbiam fatto tutti) maledetto, poco inteso, e niente gustatolo, mi tenni quasiché offeso di questo puerile o pedantesco consiglio. Onde, pieno di mal talento contro quel Galateo, lo apersi. Ed alla vista di quel primo Conciossiacosache, a cui poi si accoda quel lungo periodo cotanto pomposo e sà poco sugoso, mi prese un tal impeto di collera, che scagliato per la finestra il libro, gridai quasi maniaco: "Ella è pur dura e stucchevole necessità , che per iscrivere tragedie in età di venzett'anni mi convenga ingoiare di nuovo codeste baie fanciullesche, e prosciugarmi il cervello con sà fatte pedanterie". Sorrise di questo mio poetico ineducato furore; e mi profetizzò che io leggerei poi il Galateo, e piú d'una volta. E cosà fu in fatti; ma parecchi anni dopo, quando poi mi era ben bene incallite le spalle ed il collo a sopportare il giogo grammatico. E non il solo Galateo, ma presso che tutti quei nostri prosatori del Trecento, lessi e postillai poi, con quanto frutto, nol so. Ma fatto si è che chi gli avesse ben letti quanto ai lor modi, e fosse venuto a capo di prevalersi con giudizio e destrezza dell'oro dei loro abiti, scartando i cenci delle loro idee, quegli potrebbe forse poi ne' suoi scritti sà filosofici che poetici, o istorici, o d'altro qualunque genere, dare una ricchezza, brevità , proprietà , e forza di colorito allo stile, di cui non ho visto finora nessuno scrittore italiano veramente andar corredato. Forse, perché la fatica è improba; e chi avrebbe l'ingegno, e la capacità di sapersene giovare, non la vuol fare; e chi non ha questi dati, la fa invano.
CAPITOLO SECONDO
Rimessomi sotto il pedagogo a spiegare Orazio. Primo viaggio letterario in Toscana.
Verso il principio dell'anno '76, trovandomi già da sei e piú mesi ingolfato negli studi italiani, mi nacque una onesta e cocente vergogna di non piú intendere quasi affatto il latino; a segno che, trovando qua e là , come accade, delle citazioni, anco le piú brevi e comuni, mi trovava costretto di saltarle a piè pari, per non perder tempo a diciferarle. Trovandomi inoltre inibita ogni lettura francese, ridotto al solo italiano, io mi vedeva affatto privo d'ogni soccorso per la lettura teatrale. Questa ragione, aggiuntasi al rossore, mi sforzò ad intraprendere questa seconda fatica, per poter leggere le tragedie di Seneca, di cui alcuni sublimi tratti mi aveano rapito; e leggere anche le traduzioni letterali latine dei tragici greci, che sogliono essere piú fedeli e meno tediose di quelle tante italiane che sà inutilmente possediamo. Mi presi dunque pazientemente un ottimo pedagogo, il quale, postomi Fedro in mano, con molta sorpresa sua e rossore mio, vide e mi disse che non l'intendeva, ancorché l'avessi già spiegato in età di dieci anni; ed in fatti provandomici a leggerlo traducendolo in italiano, io pigliava dei grossissimi granchi, e degli sconci equivoci. Ma il valente pedagogo, avuto ch'egli ebbe cosà ad un tempo stesso il non dubbio saggio e della mia asinità , e della mia tenacissima risoluzione, m'incoraggà molto, e in vece di lasciarmi il Fedro mi diede l'Orazio, dicendomi: "Dal difficile si viene al facile; e cosà sarà cosa piú degna di lei. Facciamo degli spropositi su questo scabrosissimo principe dei lirici latini, e questi ci appianeran la via per scendere agli altri ". E cosà si fece; e si prese un Orazio senza commenti nessuni; ed io spropositando, costruendo, indovinando, e sbagliando, tradussi a voce tutte l'Odi dal principio di gennaio a tutto il marzo. Questo studio mi costò moltissima fatica, ma mi fruttò anche bene, poiché mi rimise in grammatica senza farmi uscire di poesia.
In quel frattempo non tralasciava però di leggere e postillare sempre i poeti italiani, aggiungendone qualcuno dei nuovi, come il Poliziano, il Casa, e ricominciando poi da capo i primari; talché il Petrarca e Dante nello spazio di quattr'anni lessi e postillai forse cinque volte. E riprovandomi di tempo in tempo a far versi tragici, avea già verseggiato tutto il Filippo. Ma benchè fosse venuto alquanto men fiacco e men sudicio della Cleopatra, pure quella versificazione mi riusciva languida, prolissa, fastidiosa e triviale. Ed in fatti quel primo Filippo, che poi alla stampa si contentò di annoiare il pubblico con soli millequattrocento e qualche versi, nei due primi tentativi pertinacemente volle annoiare e disperare il suo autore con piú di due mila versi, in cui egli diceva allora assai meno cose, che nei millequattrocento dappoi.
Quella lungaggine e fiacchezza di stile, ch'io attribuiva assai piú alla penna mia che alla mente mia, persuadendomi finalmente ch'io non potrei mai dir bene italiano finché andava traducendo me stesso dal francese, mi fece finalmente risolvere di andare in Toscana per avvezzarmi a parlare, udire, pensare, e sognare in toscano, e non altrimenti mai piú. Partii dunque nell'aprile del '76, coll'intenzione di starvi sei mesi, lusingandomi che basterebbero a disfrancesarmi. Ma sei mesi non disfanno una triste abitudine di dieci e piú anni. Avviatomi alla volta di Piacenza e di Parma, me n'andava a passo tardo e lento, ora in biroccio, ora a cavallo, in compagnia de' miei poetini tascabili, con pochissimo altro bagaglio, tre soli cavalli, due uomini, la chitarra, e le molte speranze della futura gloria. Per mezzo del Paciaudi conobbi in Parma, in Modena, in Bologna, e in Toscana, quasi tutti gli uomini di un qualche grido nelle lettere. E quanto io era stato non curante di tal mercanzia ne' miei primi viaggi, altrettanto e piú era poi divenuto curioso di conoscere i grandi, e i medi in qualunque genere. Allora conobbi in Parma il celebre nostro stampatore Bodoni, e fu quella la prima stamperia in cui io ponessi mai i piedi, benché fossi stato a Madrid, e a Birmingham, dove erano le due piú insigni stamperie d'Europa, dopo il Bodoni. Talché io non aveva mai vista un'a di metallo, né alcuno di quei tanti ordigni che mi doveano poi col tempo acquistare o celebrità o canzonatura. Ma certo in nessuna piú augusta officina io potea mai capitare per la prima volta, né mai ritrovare un piú benigno, piú esperto, e piú ingegnoso espositore di quell'arte maravigliosa che il Bodoni, da cui tanto lustro e accrescimento ha ricevuto e riceve.
Cosà a poco a poco ogni giorno piú ridestandomi dal mio lungo e crasso letargo, io andava vedendo e imparando (un po' tardetto) assai cose. Ma la piú importante si era per me, ch'io andava ben conoscendo appurando e pesando le mie facoltà intellettuali letterarie, per non isbagliar poi, se poteva, nella scelta del genere. Né in questo studio di me medesimo io era tanto novizio come negli altri; atteso che piuttosto precedendo l'età che aspettandola, io fin da anni addietro avea talvolta impreso a diciferare a me stesso la mia morale entità ; e l'avea fatto anche con penna, non che col pensiero. Ed ancora conservo una specie di diario che per alcuni mesi avea avuta la costanza di scrivere annoverandovi non solo le mie sciocchezze abituali di giorno in giorno, ma anche i pensieri, e le cagioni intime, che mi faceano operare o parlare: il tutto per vedere, se in cosà appannato specchio mirandomi, il migliorare d'alquanto mi venisse poi a riuscire. Avea cominciato il diario in francese; lo continuai in italiano; non era bene scritto né in questa lingua, né in quella; era piuttosto originalmente sentito e pensato. Me ne stufai presto, e feci benissimo; perché ci si perdeva il tempo e l'inchiostro, trovandomi essere tuttavia un giorno peggiore dell'altro. Serva questo per prova, ch'io poteva forse ben per l'appunto conoscere e giudicare la mia capacità e incapacità letteraria in tutti i suoi punti. Parendomi dunque ormai discernere appieno tutto quello che mi mancava e quel poco ch'io aveva in proprio dalla natura, io sottilizzava anche piú in là per discernere tra le parti che mi mancavano, quali fossero quelle che mi sarei potute acquistar nell'intero, quali a mezzo soltanto, e quali niente affatto. A questo sà fatto studio di me stesso io forse sarò poi tenuto (se non di essere riuscito) di non avere almeno tentato mai nessun genere di composizione al quale non mi sentissi irresistibilmente spinto da un violento impulso naturale; impulso, i di cui getti sempre poi in qualunque bell'arte, ancorché l'opera non riesca perfetta, si distinguono di gran lunga dai getti dell'impulso comandato, ancorché potessero pur procreare un'opera in tutte le sue parti perfetta.
Giunto in Pisa vi conobbi tutti i piú celebri professori, e ne andai cavando per l'arte mia tutto quell'utile che si poteva. Nel fregarmi con costoro, la piú disastrosa fatica ch'io provassi, ell'era d'interrogarli con quel riguardo e destrezza necessaria per non smascherar loro spiattellatamente la mia ignoranza; ed in somma dirò con fratesca metafora, per parer loro professo, essendo tuttavia novizio. Non già ch'io potessi né volessi spacciarmi per dotto; ma era al buio di tante e poi tante cose, che coi visi nuovi me ne vergognava; e pareami, a misura che mi si andavano dissipando le tenebre, di vedermi sempre piú gigantesca apparire questa mia fatale e pertinace ignoranza. Ma non meno forse gigantesco era e facevasi il mio ardimento. Quindi, mentr'io per una parte tributava il dovuto omaggio al sapere d'altrui, non mi atterriva punto per l'altra il mio non sapere; sendomi ben convinto che al far tragedie il primo sapere richiesto, si è il forte sentire; il qual non s'impara. Restavami da imparare (e non era certo poco) l'arte di fare agli altri sentire quello che mi parea di sentir io.
Nelle sei o sette settimane ch'io dimorai a Pisa, ideai e distesi a dirittura in sufficiente prosa toscana la tragedia d'Antigone, e verseggiai il Polinice un po' men male che il Filippo. E subito mi parve di poter leggere il Polinice ad alcuni di quei barbassori dell'Università , i quali mi si mostrarono assai soddisfatti della tragedia, e ne censurarono qua e là l'espressioni, ma neppure con quella severità che avrebbe meritata. In quei versi, a luoghi si trovavan dette cose felicemente; ma il totale della pasta ne riusciva ancora languida, lunga, e triviale a giudizio mio; a giudizio dei barbassori, riusciva scorretta qualche volta, ma fluida, diceano, e sonante. Non c'intendevamo. Io chiamava languido e triviale ciò ch'essi diceano fluido e sonante; quanto poi alle scorrezioni, essendo cosa di fatto e non di gusto, non ci cadea contrasto. Ma neppure su le cose di gusto cadeva contrasto tra noi, perché io a maraviglia tenea la mia parte di discente, come essi la loro di docenti; era però ben fermo di volere prima d'ogni cosa piacere a me stesso. Da quei signori dunque io mi contentava d'imparare negativamente, ciò che non va fatto; dal tempo, dall'esercizio, dall'ostinazione, e da me, io mi lusingava poi d'imparare quel che va fatto. E s'io volessi far ridere a spese di quei dotti, com'essi forse avran riso allora alle mie, potrei nominar taluno fra essi, e dei piú pettoruti, che mi consigliava, e portava egli stesso la Tancia del Buonarroti, non dirò per modello, ma per aiuto al mio tragico verseggiar...
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