[Pagina precedente]... sonetti mi si facean fare, affacciandosi con molto impeto e spontaneità alla mia agitatissima fantasia. In Venezia poi, allorché sentii pubblicata e assodata la pace tra gli americani e l'Inghilterra, pattuitavi la loro indipendenza totale, scrissi la quinta ode dell'America libera, con cui diedi compimento a quel lirico poemetto. Di Venezia venuto a Padova, questa volta non trascurai come nelle due altre anteriori, di visitare la casa e la tomba del nostro sovrano maestro d'amore in Arquà. Quivi parimente un giorno intero vi consecrai al pianto, e alle rime, per semplice sfogo del troppo ridondante mio cuore. In Padova poi imparai a conoscere di persona il celebre Cesarotti, dei di cui modi vivaci e cortesi non rimasi niente men soddisfatto, che il fossi stato sempre della lettura de' suoi maestrevolissimi versi nell'Ossian. Di Padova ritornai a Bologna, passando per Ferrara, affine di quivi compiere il mio quarto pellegrinaggio poetico, col visitarvi la tomba, e i manoscritti dell'Ariosto. Quella del Tasso piú volte l'avea visitata in Roma; cosí la di lui culla in Sorrento, dove nell'ultimo viaggio di Napoli, mi era espressamente portato ad un tale effetto. Questi quattro nostri poeti, erano allora, e sono, e sempre saranno i miei primi, e direi anche soli, di questa bellissima lingua: e sempre mi è sembrato che in essi quattro vi sia tutto quello che umanamente può dare la poesia; meno però il meccanismo del verso sciolto di dialogo, il quale si dee però trarre dalla pasta di questi quattro, fattone un tutto, e maneggiatolo in nuova maniera. E questi quattro grandissimi, dopo sedici anni oramai ch'io li ho giornalmente alle mani, mi riescono sempre nuovi, sempre migliori nel loro ottimo, e direi anche utilissimi nel loro pessimo; ché io non asserirò con cieco fanatismo, che tutti e quattro a luoghi non abbiano e il mediocre ed il pessimo; dirò bensí che assai, ma assai, vi si può imparare anche dal loro cattivo; ma da chi ben si addentra nei loro motivi e intenzioni: cioè da chi, oltre l'intenderli pienamente e gustarli, li sente.
Di Bologna, sempre piangendo e rimando, me n'andai a Milano; e di là, trovandomi cosí vicino al mio carissimo abate di Caluso, che allora villeggiava co' suoi nipoti nel bellissimo loro castello di Masino poco distante da Vercelli, ci diedi una scorsa di cinque o sei giorni. E in uno di quelli, trovandomi anche tanto vicino a Torino, mi vergognai di non vi dare una scorsa per abbracciar la sorella. V'andai dunque per una notte sola coll'amico, e l'indomani sera ritornammo a Masino. Avendo abbandonato il paese mio colla donazione, in aspetto di non lo voler piú abitare, non mi vi volea far vedere cosí presto, e massime dalla corte. Questa fu la ragione del mio apparire e sparire in un punto. Onde questa scorsa cosí rapida che a molti potrebbe parere bizzarra, cesserà d'esserlo saputane la ragione. Erano già sei e piú anni, ch'io non dimorava piú in Torino; non mi vi parea essere né sicuro, né quieto, né libero; non ci voleva, né doveva, né potea rimanervi lungamente.
Di Masino, tosto ritornai a Milano, dove mi trattenni ancora quasi tutto luglio; e ci vidi assai spesso l'originalissimo autore del Mattino, vero precursore della futura satira italiana. Da questo celebre e colto scrittore procurai d'indagare, con la massima docilità, e con sincerissima voglia d'imparare, dove consistesse principalmente il difetto del mio stile in tragedia. E Parini con amorevolezza e bontà mi avvertí di varie cose, non molto a dir vero importanti, e che tutte insieme non poteano mai costituire la parola stile, ma alcune delle menome parti di esso. Ma le piú, od il tutto di queste parti che doveano costituire il vero difettoso nello stile, e che io allora non sapeva ancor ben discernere da me stesso, non mi fu mai saputo o voluto additare né dal Parini, né dal Cesarotti, né da altri valenti uomini ch'io col fervore e l'umiltà d'un novizio visitai ed interrogai in quel viaggio per la Lombardia. Onde mi convenne poi dopo il decorso di molti anni con molta fatica ed incertezza andar ritrovando dove stesse il difetto, e tentare di emendarlo da me. Sul totale però, di qua dell'Appennino le mie tragedie erano piaciute assai piú che in Toscana; e vi s'era anche biasimato lo stile con molto minore accanimento e qualche piú lumi. Lo stesso era accaduto in Roma ed in Napoli, presso quei pochissimi che l'aveano volute leggere. Egli è dunque un privilegio antico della sola Toscana, di incoraggire in questa maniera gli scrittori italiani, allorché non iscrivono delle cicalate.
CAPITOLO UNDECIMO
Seconda stampa di sei altre tragedie. Varie censure delle quattro stampate prima. Risposta alla lettera del Calsabigi.
Verso i primi d'agosto partito di Milano, mi volli restituire in Toscana. Ci venni per la bellissima e pittoresca via nuova di Modena, che riesce a Pistoia. Nel far questa strada, tentai per la prima volta di sfogare anche alquanto il mio ben giusto fiele poetico, in alcuni epigrammi. Io era intimamente persuaso, che se degli epigrammi satirici, taglienti, e mordenti, non avevamo nella nostra lingua, non era certo colpa sua; ch'ella ha ben denti, ed ugne, e saette, e feroce brevità, quanto e piú ch'altra lingua mai l'abbia, o le avesse. I pedanti fiorentini, verso i quali io veniva scendendo a gran passi nell'avvicinarmi a Pistoia, mi prestavano un ricco soggetto per esercitarmi un pochino in quell'arte novella. Mi trattenni alcuni giorni in Firenze, e visitai alcuni di essi, mascheratomi da agnello, per cavarne o lumi, o risate. Ma essendo quasi impossibile il primo lucro, ne ritrassi in copia il secondo. Modestamente quei barbassori mi lasciarono, anzi mi fecero chiaramente intendere: che se io prima di stampare avessi fatto correggere il mio manoscritto da loro, avrei scritto bene. Ed altre sí fatte mal confettate impertinenze mi dissero. M'informai pazientemente, se circa alla purità ed analogia delle parole, e se circa alla sacrosanta grammatica, io avessi veramente solecizzato, o barbarizzato, o smetrizzato. Ed in questo pure, non sapendo essi pienamente l'arte loro, non mi seppero additare niuna di queste tre macchie nel mio stampato, individuandone il luogo; abbenché pur vi fossero qualche sgrammaticature; ma essi non le conoscevano. Si appagarono dunque di appormi delle parole, dissero essi, antiquate; e dei modi insoliti, troppo brevi, ed oscuri, e duri all'orecchio. Arricchito io in tal guisa di sí peregrine notizie, addottrinato e illuminato nell'arte tragica da sí cospicui maestri, me ne ritornai a Siena. Quivi mi determinai, sí per occuparmi sforzatamente, che per divagarmi dai miei dolorosi pensieri, di proseguirvi sotto i miei occhi la stampa delle tragedie. Nel riferire io poi all'amico le notizie ed i lumi ch'io era andato ricavando dai nostri diversi oracoli italiani, e massimamente dai fiorentini e pisani, noi gustammo un pocolino di commedia, prima di accingerci a far di nuovo rider coloro a spese delle nostre ulteriori tragedie. Caldamente, ma con troppa fretta, mi avviai a stampare, onde in tutto settembre, cioè in meno di due mesi, uscirono in luce le sei tragedie in due tomi, che giunti al primo di quattro, formano il totale di quella prima edizione. E nuova cosa mi convenne allora conoscere per dura esperienza. Siccome pochi mesi prima io avea imparato a conoscere i giornali ed i giornalisti; allora dovei conoscere i censori di manoscritti, i revisori delle stampe, i compositori, i torcolieri, ed i proti. Meno male di questi tre ultimi, che pagandoli si possono ammansire e dominare: ma i revisori e censori, sí spirituali che temporali, bisogna visitarli, pregarli, lusingarli, e sopportarli, che non è picciol peso. L'amico Gori per la stampa del primo volume si era egli assunto in Siena queste noiose brighe per me. E cosí forse avrebbe anche potuto proseguire egli per la continuazione dei du' altri volumi. Ma io, volendo pure, per una volta almeno, aver visto un poco di tutto nel mondo, volli anche in quell'occasione aver veduto un sopracciglio censorio, ed una gravità e petulanza di revisore. E vi sarebbe stato di cavarne delle barzellette non poche, se io mi fossi trovato in uno stato di cuore piú lieto che non era il mio.
E allora anche per la prima volta abbadai io stesso alla correzione delle prove; ma essendo il mio animo troppo oppresso, ed alieno da ogni applicazione, non emendai come avrei dovuto e potuto, e come feci poi molti anni dopo ristampando in Parigi, la locuzione di quelle tragedie; al qual effetto riescono utilissime le prove dello stampatore, dove leggendosi quegli squarci spezzatamente e isolati dal corpo dell'opera, vi si presentano piú presto all'occhio le cose non abbastanza ben dette; le oscurità; i versi mal tomiti; e tutte in somma quelle mendarelle, che moltiplicate e spesseggianti fanno poi macchia. Sul totale però queste sei tragedie stampate seconde, riuscirono, anche al dir dei malevoli, assai piú piane che le quattro prime. Stimai bene per allora di non aggiungere alle dieci stampate le quattro altre tragedie che mi rimanevano, tra le quali sí la Congiura de' Pazzi, che la Maria Stuarda, potevano in quelle circostanze accrescere a me dei disturbi, ed a chi assai piú mi premea che me stesso. Ma intanto quel penoso lavoro del riveder le prove, e sí affollatamente tante in sí poco spazio di tempo, e per lo piú rivedendole subito dopo pranzo, mi cagionò un accesso di podagra assai gagliardetto, che mi tenne da quindici giorni zoppo e angustiato, non avendo voluto covarla in letto. Quest'era il secondo accesso; il primo l'avea avuto in Roma un anno e piú innanzi, ma leggerissimo. Con questo secondo mi accertai, che mi toccherebbe quel passatempo assai spesso per lo rimanente della mia vita. Il dolor d'animo, e il troppo lavoro di mente erano in me i due fonti di quell'incommodo; ma l'estrema sobrietà nel vitto l'andò sempre poi vittoriosamente combattendo; tal che finora pochi e non forti sono sempre stati gli assalti della mia mal pasciuta podagra. Mentr'io stava quasi per finire la stampa, ricevei dal Calsabigi di Napoli una lunghissima lettera, piena zeppa di citazioni in tutte le lingue, ma bastantemente ragionata, su le mie prime quattro tragedie. Immediatamente, ricevutala, mi posi a rispondergli, sí perché quello scritto mi pareva essere stato fin allora il solo che uscisse da una mente sanamente critica e giusta ed illuminata; sí perché con quell'occasione io poteva sviluppare le mie ragioni, e investigando io medesimo il come e il perché fossi caduto in errore, insegnare ad un tempo a tutti i tant'altri inetti miei critici a criticare con frutto e discernimento, o tacersi. Quello scritto mio, che dal ritrovarmi io allora pienissimo di quel soggetto, non mi costò quasi punto fatica, poteva poi anche col tempo servire come di prefazione a tutte le tragedie, allorché l'avessi tutte stampate; ma me lo tenni in corpo per allora, e non lo volli apporre alla stampa di Siena, la quale non dovendo essere altro per me che un semplice tentativo, io voleva uscire del tutto nudo d'ogni scusa, e ricevere cosí da ogni parte e d'ogni sorte saette; lusingandomi forse che n'avrei cosí ricevuto piú vita che morte; niuna cosa piú ravvivando un autore, che il criticarlo inettamente. Né questo mio orgoglietto avrei dovuto rivelare, s'io non avessi fin dal principio di queste chiacchiere impreso e promesso di non tacer quasi che nulla del mio, o di non dare almeno mai ragione del mio operare, la quale non fosse, la schiettissima verità. Finita la stampa, verso il principio d'ottobre pubblicai il secondo volume; e riserbai il terzo a sostener nuova guerra, tosto che fosse sfogata e chiarita la seconda.
Ma intanto, ciò che mi premeva allora sopra ogni cosa, il rivedere la donna mia, non potendosi assolutamente effettuare per quell'entrante inverno, io disperatissimo di tal cosa, e non ritrovando mai pace, né luogo che mi contenesse, pensai di fare un lungo viaggio in Francia ed in Inghilterra, non già che me ne fosse rimasto ...
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