[Pagina precedente]...questi stessi strapazzi mi rinforzavano notabilmente il corpo, e m'innalzavano molto la mente; e mi andavano preparando l'animo al meritare e sopportare, e forse a ben valermi col tempo dell'acquistata mia libertà sà fisica che morale.
CAPITOLO OTTAVO
Ozio totale. Contrarietà incontrate, e fortemente sopportate.
Non aveva altri allora che s'ingerisse de' fatti miei, fuorché quel nuovo cameriere, datomi dal curatore, quasi come un semi-aio, ed aveva ordine di accompagnarmi sempre dapertutto. Ma a dir vero, siccome egli era un buon sciocco ed anche interessatuccio, io col dargli molto ne faceva assolutamente ogni mio piacere, ed egli non ridiceva nulla. Con tutto ciò, l'uomo per natura non si contentando mai, ed io molto meno che niun altro, mi venne presto a noia anche quella piccola suggezione dell'avermi sempre il cameriere alle reni, dovunque i' m'andassi. E tanto piú mi riusciva gravosa questa servitú, quanto ch'ella era una particolarità usata a me solo di quanti ne fossero in quel Primo Appartamento; poiché tutti gli altri uscivano da sé, e quante volte il giorno volevano. Né mi capacitai punto della ragione che mi si dava di questo, ch'io era il piú ragazzo di tutti, essendo sotto ai quindici anni. Onde m'incocciai in quell'idea di voler uscir solo anche io, e senza dir nulla al cameriere, né a chi che sia, cominciai a uscir da me. Da prima fui ripreso dal governatore; e ci tornai subito; la seconda volta fui messo in arresto in casa, e poi liberato dopo alcuni giorni, fui da capo all'uscir solo. Poi riarrestato piú strettamente, poi liberato, e riuscito di nuovo; e sempre cosà a vicenda piú volte, il che durò forse un mese, crescendomisi sempre il gastigo, e sempre inutilmente. Alla per fine dichiarai in uno degli arresti, che mi ci doveano tenere in perpetuo, perché appena sarei stato liberato, immediatamente sarei tornato fuori da me; non volendo io nessuna particolarità né in bene né in male, che mi facesse essere o piú o meno o diverso da tutti gli altri compagni; che codesta distinzione era ingiusta ed odiosa, e mi rendeva lo scherno degli altri; che se pareva al signor governatore ch'io non fossi d'età né di costumi da poter far come gli altri del Primo, egli mi poteva rimettere nel Secondo Appartamento. Dopo tutte queste mie arroganze mi toccò un arresto cosà lungo, che ci stetti da tre mesi e piú, e fra gli altri tutto l'intero carnevale del 1764. Io mi ostinai sempre piú a non voler mai domandare d'esser liberato, e cosà arrabbiando e persistendo, credo che vi sarei marcito, ma non piegatomi mai. Quasi tutto il giorno dormiva; poi verso la sera mi alzava da letto, e fattomi portare una materassa vicino al caminetto, mi vi sdraiava su per terra; e non volendo piú ricevere il pranzo solito dell'Accademia, che mi facevano portar in camera, io mi cucinava da me a quel fuoco della polenta, e altre cose simili. Non mi lasciava piú pettinare, né mi vestiva ed era ridotto come un ragazzo salvatico. Mà era inibito l'uscire di camera; ma lasciavano pure venire quei miei amici di fuori a visitarmi; i fidi compagni di quelle eroiche cavalcate. Ma io allora sordo e muto, e quasi un corpo disanimato, giaceva sempre, e non rispondeva niente a nessuno qualunque cosa mi si dicesse. E stava cosà delle ore intere, con gli occhi conficcati in terra, pregni di pianto, senza pur mai lasciare uscir una lagrima.
CAPITOLO NONO
Matrimonio della sorella. Reintegrazione del mio onore. Primo cavallo.
Da questa vita di vero bruto bestia, mi liberò finalmente la congiuntura del matrimonio di mia sorella Giulia, col conte Giacinto di Cumiana. Seguà il dà primo maggio 1764, giorno che mi restò impresso nella mente essendo andato con tutto lo sposalizio alla bellissima villeggiatura di Cumiana distante dieci miglia da Torino; dove passai piú d'un mese allegrissimamente, come dovea essere di uno scappato di carcere, detenutovi tutto l'inverno. Il mio nuovo cognato avea impetrata la mia liberazione, ed a piú equi patti fui ristabilito nei dritti innati dei Primi Appartamentisti dell'Accademia; e cosà ottenni l'eguaglianza con i compagni mediante piú mesi di durissimo arresto. Coll'occasione di queste nozze aveva anche ottenuto molto allargamento nella facoltà di spendere il mio, il che non mi si poteva oramai legalmente negare. E da questo ne nacque la compra del mio primo cavallo, che venne anche meco nella villeggiatura di Cumiana. Era questo cavallo un bellissimo sardo, di mantello bianco, di fattezze distinte, massime la testa, l'incollatura ed il petto. Lo amai con furore, e non me lo rammento mai senza una vivissima emozione. La mia passione per esso andò al segno di guastarmi la quiete, togliermi la fame ed il sonno, ogni qual volta egli aveva alcuno incommoduccio; il che succedeva assai spesso, perché egli era molto ardente e delicato ad un tempo; e quando poi l'aveva fra le gambe, il mio affetto non m'impediva di tormentarlo e malmenarlo anche tal volta quando non volea fare a modo mio. La delicatezza di questo prezioso animale mi servà ben tosto di pretesto per volerne un altro di piú, e dopo quello due altri di carrozza, e poi uno di calessetto, e poi due altri di sella, e cosà in men d'un anno arrivai sino a otto, fra gli schiamazzi del tenacissimo curatore, ch'io lasciava pur cantare a suo piacimento. E superato cosà l'argine della stitichezza e parsimonia di codesto mio curatore; tosto traboccai in ogni sorte di spesa, e principalmente negli abiti, come già mi par d'avere piú sopra accennato. V'erano alcuni di quegli inglesi miei compagni, che spendevano assai; onde io non volendo essere soverchiato, cercava pure e mi riusciva di soverchiare costoro. Ma, per altra parte, quei giovinotti miei amici di fuori dall'Accademia, e coi quali io conviveva assai piú che coi forestieri di dentro, per essere soggetti ai lor padri, avevano pochi quattrini; onde benché a loro mantenimento fosse decentissimo, essendo essi dei primi signori di Torino, pure le loro spese di capriccio venivano ad essere necessariamente tenuissime. A risguardo dunque di questi, io debbo per amor del vero confessare ingenuamente di aver allora praticata una virtú, ed appurato che ella era in me naturale, ed invincibile: ed era di non volere né potere soverchiar mai in nessuna cosa chi che sia, ch'io conoscessi o che si tenesse per minore di me in forza di corpo, d'ingegno, di generosità , d'indole, o di borsa. Ed in fatti, ad ogni abito nuovo, e ricco o di ricami, o di nappe, o di pelli ch'io m'andava facendo, se mi veniva fatto di vestirmelo la mattina per andare a corte, o a tavola con i compagni d'Accademia, che rivaleggiavano in queste vanezze con me, io poi me lo spogliava subito al dopo pranzo, ch'era l'ora in cui venivano quegli altri da me; e li faceva anzi nascondere perché non li vedessero, e me ne vergognava in somma con essi, come di un delitto; e tale in fatti nel mio cuore mi pareva, e l'avere, e molto piú il farne pompa, delle cose che gli amici ed eguali miei non avessero. E cosà pure, dopo avere con molte risse ottenuto dal curatore di farmi fare una elegante carrozza, cosa veramente inutilissima e ridicola per un ragazzaccio di sedici anni in una città cosà microscopica come Torino, io non vi saliva quasi mai, perché gli amici non l'avendo se ne dovevano andare a sante gambe sempre. E quanto ai molti cavalli da sella, io me li facea perdonare da loro, accomunandoli con essi; oltre che essi pure ne aveano ciascuno il suo, e mantenuto dai loro rispettivi genitori. Perciò questo ramo di lusso mi dilettava anche piú di tutti altri, e con meno misto di ribrezzo, perché in nulla veniva ad offendere gli amici miei.
Esaminando io spassionatamente e con l'amor del vero codesta mia prima gioventú, mi pare di ravvisarci fra le tante storture di un'età bollente, oziosissima, ineducata, e sfrenata, una certa naturale pendenza alla giustizia, all'eguaglianza, ed alla generosità d'animo, che mi paiono gli elementi d'un ente libero, o degno di esserlo.
CAPITOLO DECIMO
Primo amoruccio. Primo viaggetto. Ingresso nelle truppe.
In una villeggiatura ch'io feci di circa un mese colla famiglia di due fratelli, che erano dei principali miei amici, e compagni di cavalcate, provai per la prima volta sotto aspetto non dubbio la forza d'amore per una loro cognata, moglie del loro fratello maggiore. Era questa signorina, una brunetta piena di brio, e di una certa protervia che mi facea grandissima forza. I sintomi di quella passione, di cui ho provato dappoi per altri oggetti cosà lungamente tutte le vicende, si manifestarono in me allora nel seguente modo. Una malinconia profonda e ostinata; un ricercar sempre l'oggetto amato, e trovatolo appena, sfuggirlo; un non saper che le dire, se a caso mi ritrovava alcuni pochi momenti (non solo mai, che ciò non mi veniva fatto mai, essendo ella assai strettamente custodita dai suoceri) ma alquanto in disparte con essa; un correre poi dei giorni interi (dopo che si ritornò di villa) in ogni angolo della città , per vederla passare in tale o tal via, nelle passeggiate pubbliche del Valentino e Cittadella; un non poterla neppure udir nominare, non che parlar mai di essa; ed in somma tutti, ed alcuni piú, quegli effetti sà dottamente e affettuosamente scolpiti dal nostro divino maestro di questa divina passione, il Petrarca. Effetti, che poche persone intendono, e pochissime provano; ma a quei soli pochissimi è concesso l'uscir dalla folla volgare in tutte le umane arti. Questa prima mia fiamma, che non ebbe mai conclusione nessuna, mi restò poi lungamente semiaccesa nel cuore, ed in tutti i miei lunghi viaggi fatti poi negli anni consecutivi, io sempre senza volerlo, e quasi senza avvedermene l'avea tacitamente per norma intima d'ogni mio operare; come se una voce mi fosse andata gridando nel piú segreto di esso: "Se tu acquisti tale, o tal pregio, tu potrai al ritorno tuo piacer maggiormente a costei; e cangiate le circostanze, potrai forse dar corpo a quest'ombra".
Nell'autunno dell'anno 1765 feci un viaggietto di dieci giorni a Genova col mio curatore; e fu la mia prima uscita dal paese. La vista del mare mi rapà veramente l'anima, e non mi poteva mai saziare di contemplarlo. Cosà pure la posizione magnifica e pittoresca di quella superba città , mi riscaldò molto la fantasia. E se io allora avessi saputa una qualche lingua, ed avessi avuti dei poeti per le mani, avrei certamente fatto dei versi; ma da quasi due anni io non apriva piú nessun libro, eccettuati di radissimo alcuni romanzi francesi, e qualcuna delle prose di Voltaire, che mi dilettavano assai. Nel mio andare a Genova ebbi un sommo piacere di rivedere la madre e la città mia, di dove mancava già da sette anni, che in quell'età paiono secoli. Tornato poi di Genova, mi pareva di aver fatta una gran cosa, e d'aver visto molto. Ma quanto io mi teneva di questo mio viaggio cogli amici di fuori dell'Accademia (benché non lo dimostrassi loro, per non mortificarli), altrettanto poi mi arrabbiava e rimpiccioliva in faccia ai compagni di dentro, che tutti venivano di paesi lontani, come Inglesi, Tedeschi, Polacchi, Russi, etc.; ed a cui il mio viaggio di Genova pareva, com'era in fatti, una babbuinata. E questo mi dava una frenetica voglia di viaggiare, e di vedere da me i paesi di tutti costoro.
In quest'ozio e dissipazione continua, presto mi passarono gli ultimi diciotto mesi ch'io stetti nel Primo Appartamento. Ed essendomi io fatto inscrivere nella lista dei postulanti impiego nelle truppe sin dal prim'anno ch'io v'era entrato, dopo esservi stato tre anni, in quel maggio del 1766, finalmente fui compreso in una promozione generale di forse centocinquanta altri giovanotti. E benché io da piú d'un anno, mi fossi intiepidito moltissimo in questa vocazione militare, pure non avendo io ritrattata la mia petizione, mi convenne accettare; ed uscii porta-insegna nel Reggimento Provinciale d'Asti. Da prima io aveva chiesto d'entrare nella cavalleria, per l'amore innato dei cavalli; poi di là a qualche tempo, aveva cambiata...
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