[Pagina precedente]...esser costretto di farlo coi vetturini a passo a passo, io, che quattro o cinque anni prima, alla mia prima uscita di casa, aveva cosí rapidamente percorso quelle cinque poste che stanno tra Asti e Torino. Onde, mi pareva di essere tornato indietro invecchiando, e mi teneva molto avvilito di quella ignobile e gelida tardezza del passo d'asino di cui si andava; onde all'entrare in Carignano, Racconigi, Savigliano, ed in ogni anche minimo borguzzo, io mi rintuzzava ben dentro nel piú intimo del calessaccio, e chiudeva anche gli occhi per non vedere, né esser visto; quasi che tutti mi dovessero conoscere per quello che avea altre volte corsa la posta con tanto brio, e sbeffarmi ora come condannato a sí umiliante lentezza. Erano eglino in me questi moti il prodotto d'un animo caldo e sublime, oppure leggiero e vanaglorioso? Non lo so; altri potrà giudicarlo dagli anni miei susseguenti. Ma so bene, che se io avessi avuto al fianco una qualche persona che avesse conosciuto il cuor dell'uomo in esteso, egli avrebbe forse potuto cavare fin da allora qualche cosa da me, con la potentissima molla dell'amore di lode e di gloria.
In quel mio breve soggiorno in Cuneo, io feci il primo sonetto, che non dirò mio, perché egli era un rifrittume di versi o presi interi, o guastati, e riannestati insieme, dal Metastasio, e l'Ariosto, che erano stati i due soli poeti italiani di cui avessi un po' letto. Ma credo, che non vi fossero né le rime debite, né forse i piedi; stante che, benché avessi fatti dei versi latini esametri, e pentametri, niuno però mi avea insegnato mai niuna regola del verso italiano. Per quanto io ci abbia fantasticato poi per ritornarmene in mente almeno uno o due versi, non mi è mai piú stato possibile. Solamente so, ch'egli era in lode d'una signora che quel mio zio corteggiava, e che piaceva anche a me. Codesto sonetto, non poteva certamente esser altro che pessimo. Con tutto ciò mi venne lodato assai, e da quella signora, che non intendeva nulla, e da altri simili; onde io già già quasi mi credei un poeta. Ma lo zio, che era uomo militare, e severo, e che bastantemente notiziato delle cose storiche e politiche nulla intendeva né curava di nessuna poesia, non incoraggí punto questa mia Musa nascente; e disapprovando anzi il sonetto e burlandosene mi disseccò tosto quella mia poca vena fin da radice; e non mi venne piú voglia di poetare mai, sino all'età di venticinque anni passati. Quanti buoni o cattivi miei versi soffocò quel mio zio, insieme con quel mio sonettaccio primogenito!
A quella bestiale filosofia, succedé, l'anno dopo, lo studio della fisica, e dell'etica; distribuite parimente come le due altre scuole anteriori; la fisica la mattina, e la lezione di etica per far la siesta. La fisica un cotal poco allettavami; ma il continuo contrasto con la lingua latina, e la mia totale ignoranza della studiata geometria, erano impedimenti invincibili ai miei progressi. Onde con mia perpetua vergogna confesserò per amor del vero, che avendo io studiato un anno intero la fisica sotto il celebre padre Beccaria, neppure una definizione me n'è rimasta in capo; e niente affatto so né intendo del suo dottissimo corso su l'elettricità, ricco di tante nobilissime di lui scoperte. Ed al solito accadde qui come mi era accaduto in geometria, che per effetto di semplice memoria, io mi portava benissimo alle ripetizioni, e riscuoteva dai ripetitori piú lode che biasimo. Ed in fatti, in quell'inverno del 1763 lo zio si propose di farmi un regaluccio; il che non m'era accaduto mai; e ciò, in premio di quel che gli veniva detto, che io studiava cosí bene. Questo regalo mi fu annunziato tre mesi prima con enfasi profetica dal servitore Andrea; dicendomi che egli sapeva di buon luogo che lo riceverei poi continuando a portarmi bene; ma non mi venne mai individuato cosa sarebbe.
Questa speranza indeterminata, ed ingranditami dalla fantasia, mi riaccese nello studio, e rinforzai molto la mia pappagallesca dottrina. Un giorno finalmente mi fu poi mostrato dal camerier dello zio, quel famoso regalo futuro; ed era una spada d'argento non mal lavorata. Me ne invogliai molto dopo averla veduta; e sempre la stava aspettando, parendomi di ben meritarla; ma il dono non venne mai. Per quanto poi intesi, o combinai, in appresso, volevano che io la domandassi allo zio; ma quel mio carattere stesso, che tanti anni prima nella casa materna mi aveva inibito di chiedere alla nonna qualunque cosa volessi, sollecitato caldamente da lei di ciò fare, mi troncò anco qui la parola; e non vi fu mai caso ch'io domandassi la spada allo zio; e non l'ebbi.
CAPITOLO SESTO
Debolezza della mia complessione; infermità continue; ed incapacità d'ogni esercizio, e massimamente del ballo, e perché.
Passò in questo modo anche quell'anno della fisica; ed in quell'estate il mio zio essendo stato nominato viceré in Sardegna, si dispose ad andarvi. Partito egli dunque nel settembre, e lasciatomi raccomandato agli altri pochi parenti, od agnati ch'io aveva in Torino, quanto ai miei interessi pecuniari rinunziò, o accomunò la tutela con un cavaliere suo amico; onde in allora incominciai subito ad essere un poco piú allargato nella facoltà di spendere, ed ebbi per la prima volta una piccola mensualità fissatami dal nuovo tutore; cosa, alla quale lo zio non avea voluto mai consentire; e che mi pareva, ed anche ora mi pare, sragionevolissima. Forse vi si opponeva quel servo Andrea, al quale spendendo egli per conto mio (e suo, credo, ad un tempo) tornava piú comodo di far delle note, e di tenermi cosí in maggiore dipendenza di lui. Aveva codesto Andrea veramente l'animo di un principe, quali ne vediamo ai nostri tempi non pochi, illustri anche quant'egli. Nel finire dell'anno '62, essendo io passato allo studio del diritto civile, e canonico; corso, che in quattr'anní conduce poi lo scolare all'apice della gloria, alla laurea avvocatesca; dopo alcune settimane legali, ricaddi nella stessa malattia già avuta due anni prima, quello scoppio universale di tutta la pelle del cranio; e fu il doppio dell'altra volta, tanto la mia povera testa era insofferente di fare in sé conserva di definizioni, digesti, e simili apparati dell'uno e dell'altro gius, né saprei meglio assimilare lo stato fisico esterno di quel mio capo, che alla terra quando riarsa dal sole si screpola per tutti i versi, aspettando la benefica pioggia che la rimargini. Ma dal mio screpolío usciva in copia un umore viscoso a tal segno, che questa volta non fu possibile ch'io salvassi i capelli dalle odiose forfici; e dopo un mese uscii di quella sconcia malattia tosato ed imparruccato. Quest'accidente fu uno dei piú dolorosi ch'io provassi in vita mia; sí per la privazione dei capelli, che pel funesto acquisto di quella parrucca, divenuta immediatamente lo scherno di tutti i compagni petulantissimi. Da prima io m'era messo a pigliarne apertamente le parti; ma vedendo poi ch'io non poteva a nessun patto salvar la parrucca mia da quello sfrenato torrente che da ogni parte assaltavala, e ch'io andava a rischio di perdere anche con essa me stesso, tosto mutai di bandiera, e presi il partito il piú disinvolto, che era di sparruccarmi da me prima che mi venisse fatto quell'affronto, e di palleggiare io stesso la mia infelice parrucca per l'aria, facendone ogni vituperio. Ed in fatti, dopo alcuni giorni, sfogatasi l'ira pubblica in tal guisa, io rimasi poi la meno perseguitata, e direi quasi la piú rispettata parrucca, fra le due o tre altre che ve n'erano in quella stessa galleria. Allora imparai, che bisognava sempre parere di dare spontaneamente, quello che non si potea impedire d'esserti tolto.
In quell'anno mi erano anche stati accordati altri maestri; di cimbalo, e di geografia. E questa, andandomi molto a genio quel balocco della sfera e delle carte, l'aveva imparata piuttosto bene, e mista un pocolino alla storia, e massimamente all'antica. Il maestro, che me l'insegnava in francese, essendo egli della Val d'Aosta, mi andava anche prestando vari libri francesi, ch'io cominciava anche ad intendere alquanto; e tra gli altri ebbi il Gil Blas, che mi rapí veramente e fu questo il primo libro ch'io leggessi tutto di seguito dopo l'Eneide del Caro; e mi diverti assai piú. Da allora in poi caddi nei romanzi, e ne lessi molti, come Cassandre, Almachilde, ecc.; ed i piú tetri e piú teneri mi facevano maggior forza e diletto. Tra gli altri poi, Les mémoires d'un homme de qualité, ch'io rilessi almen dieci volte. Quanto al cimbalo poi, benché io avessi una passione smisurata per la musica, e non fossi privo di disposizioni naturali, con tutto ciò non vi feci quasi nessun progresso, fuorché di essermi sveltita molto la mano su la tastiera. Ma la musica scritta non mi voleva entrare in capo; tutto era orecchia in me, e memoria, e non altro. Attribuisco altresí la cagione di quella mia ignoranza invincibile nelle note musicali, all'inopportunità dell'ora in cui prendeva lezione, immediatamente dopo il pranzo; tempo, che in ogni epoca della mia vita ho sempre palpabilmente visto essermi espressamente contrario ad ogni qualunque anche minima operazione della mente, ed anche alla semplice applicazione degli occhi su qualunque carta od oggetto. Talché quelle note musicali e le lor cinque righe cosí fitte e parallele mi traballavano davanti alle pupille, ed io dopo quell'ora di lezione mi alzava dal cimbalo che non ci vedeva piú, e rimaneva ammalato e stupido per tutto il rimanente del giorno.
Le scuole parimente della scherma e del ballo, mi riuscivano infruttuosissime; quella, perché io era assolutamente troppo debole per poter reggere allo stare in guardia, e a tutte le attitudini di codest'arte; ed era anche il dopo pranzo, e spesso usciva dal cimbalo e dava di piglio alla spada; il ballo poi, perché io per natura lo abborriva, e vi si aggiungeva per piú contrarietà il maestro, francese, nuovamente venuto di Parigi, che con una cert'aria civilmente scortese, e la caricatura perpetua dei suoi moti e discorsi, mi quadruplicava l'abborrimento innato ch'era in me per codest'arte burattinesca. E la cosa andò a segno, ch'io dopo alcuni mesi abbandonai affatto la lezione; e non ho mai saputo ballare neppure un mezzo minué; questa sola parola mi ha sempre fin d'allora fatto ridere e fremere ad un tempo; che son i due effetti che mi hanno fatto poi sempre in appresso i francesi, e tutte le cose loro, che altro non sono che un perpetuo e spesso mal ballato minué. Io attribuisco in gran parte a codesto maestro di ballo quel sentimento disfavorevole, e forse anche un poco esagerato, che mi è rimasto nell'intimo del cuore, su la nazion francese, che pure ha anche delle piacevoli e ricercabili qualità. Ma le prime impressioni in quell'età tenera radicate, non si scancellano mai piú, e difficilmente s'indeboliscono, crescendo gli anni; la ragione le va poi combattendo, ma bisogna sempre combattere per giudicare spassionatamente, e forse non ci si arriva. Due altre cose parimente ritrovo, raccapezzando cosí le mie idee primitive, che m'hanno persin da ragazzo fatto essere antigallo: l'una è, che essendo io ancora in Asti nella casa paterna, prima che mia madre passasse alle terze nozze, passò di quella città la duchessa di Parma, francese di nascita, la quale o andava o veniva di Parigi. Quella carrozzata di lei e delle sue dame e donne, tutte impiastrate di quel rossaccio che usavano allora esclusivamente le francesi, cosa ch'io non avea vista mai, mi colpí singolarmente la fantasia, e ne parlai per piú anni, non potendomi persuadere dell'intenzione né dell'affetto di un ornamento cosí bizzarro, e ridicolo, e contro la natura delle cose; poiché quando, o per malattia, o per briachezza, o per altra cagione, un viso umano dà in codesto sconcio rossore, tutti se lo nascondono potendo, o mostrandolo fanno ridere o si fan compatire. Codesti ceffi francesi mi lasciarono una lunga e profonda impressione di spiacevolezza, e di ribrezzo per la parte femminina di quella nazione. L'altro ramo di disprezz...
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