[Pagina precedente]...ra il termine, in cui, attesa la partenza per la campagna dove ella solea stare sette e piú mesi, diveniva assolutamente impossibile il vederla né punto né poco. Io quindi vedeva arrivare quel giugno come l'ultimo termine indubitalmente della mia vita; non ammettendo io mai nel mio cuore, né nella mente mia inferma, la possibilità fisica di sopravvivere a un tale distacco, sendosi in tanto piú lungo spazio di tempo rinforzata questa mia seconda passione tanto superiormente alla prima. In questo funesto pensiere del dover senza dubbio perire quando la dovrei lasciare, mi si era talmente inferocito l'animo, ch'io non procedeva in quella mia pratica altrimenti che come chi non ha oramai piú nulla che perdere. Ed a ciò contribuiva parimente non poco il carattere dell'amata donna, la quale pareva non gustar punto né intendere i partiti di mezzo. Essendo le cose in tal termine, e raddoppiandosi ogni giorno le imprudenze sà mie che sue, il di lei marito avvistosene già da qualche tempo avea piú volte accennato di volermene fare un qualche risentimento; ed io nessun'altra cosa al mondo bramava quanto questa, poiché dal solo uscir esso dei gangheri potea nascere per me o alcuna via di salvamento, ovvero una total perdizione. In tale orribile stato io vissi circa cinque mesi, finché finalmente scoppiò la bomba nel modo seguente. Piú volte già in diverse ore del giorno con grave rischio d'ambedue noi io era stato da essa stessa introdotto in casa; inosservato sempre, attesa la piccolezza delle case di Londra, e il tenersi le porte chiuse, e la servitú stare per lo piú nel piano sotterraneo, il che dà campo di aprirsi la porta di strada da chi è dentro, e facilmente introdursi l'estraneo ad una qualche camera terrena contigua immediatamente alla porta. Quindi quelle mie introduzioni di contrabbando erano tutte francamente riuscite; tanto piú ch'era in ore ove il marito era fuor di casa, e per lo piú la gente di servizio a mangiare. Questo prospero esito ci inanimà a tentare maggiori rischi. Onde, venuto il maggio, avendola il marito condotta in una villa vicina, sedici miglia di Londra, per starci otto o dieci giorni e non piú, subito si appuntò il giorno e l'ora in cui parimente nella villa verrei introdotto di furto; e si colse il giorno d'una rivista delle truppe a cui il marito, essendo uffiziale delle guardie, dovea intervenir senza fallo, e dormire in Londra. Io dunque mi ci avviai quella sera stessa soletto, a cavallo; ed avendo avuto da essa l'esatta topografia del luogo, lasciato il mio cavallo ad un'osteria distante circa un miglio dalla villa, proseguii a piedi, sendo già notte, fino alla porticella del parco, di dove introdotto da essa stessa passai nella casa, non essendo, o credendomi tuttavia non essere, stato osservato da chi che fosse. Ma cotali visite erano zolfo sul fuoco, e nulla ci bastava se non ci assicurava del sempre. Si presero dunque alcune misure per replicare e spesseggiar quelle gite, finché durasse la villeggiatura breve, disperatissimi poi se si pensava alla villeggiatura imminente e lunghissima che ci sovrastava. Ritornato io la mattina dopo in Londra, fremeva e impazziva pensando che altri due giorni dovrei stare senza vederla, e annoverava l'ore e i momenti. Io viveva in un continuo delirio, inesprimibile quanto incredibile da chi provato non l'abbia, e pochi certamente l'avranno provato a un tal segno. Non ritrovava mai pace se non se andando sempre, e senza saper dove; ma appena quetatomi o per riposarmi, o per nutrirmi, o per tentar di dormire, tosto con grida ed urli orribili era costretto di ribalzare in piedi, e come un forsennato mi dibatteva almeno per la camera, se l'ora non permetteva di uscire. Aveva piú cavalli, e tra gli altri quel bellissimo comprato a Spa, e fatto poi trasportare in Inghilterra. E su quello io andava facendo le piú pazze cose, da atterrire i piú temerari cavalcatori di quel paese, saltando le piú alte e larghe siepi di slancio, e fossi stralarghi, e barriere quante mi si affacciavano. Una di quelle mattine intermedie tra una e l'altra mia gita in quella sospirata villa, cavalcando io col marchese Caraccioli, volli fargli vedere quanto bene saltava quel mio stupendo cavallo, e adocchiata una delle piú alte barriere che separava un vasto prato dalla pubblica strada, ve lo cacciai di carriera; ma essendo io mezzo alienato, e poco badando a dare in tempo i debiti aiuti e la mano al cavallo, egli toccò coi piè davanti la sbarra, ed entrambi in un fascio precipitati sul prato, ribalzò egli primo in piedi, io poi; né mi parve di essermi fatto male alcuno. Del resto il mio pazzo amore mi aveva quadruplicato il coraggio, e pareva ch'io a bella posta mendicassi ogni occasione di rompermi il collo. Onde, per quanto il Caraccioli, rimasto su la strada di là dalla mal per me saltata barriera, gridassemi di non far altro, e di andar cercar l'uscita naturale del prato per riunirmi a lui, io che poco sapeva quel che mi facessi, correndo dietro il cavallo che accennava di voler fuggire pel prato, ne afferrai in tempo le redini, e saltatovi su di bel nuovo, lo rispinsi spronando contro la stessa barriera, e ristorando egli ampiamente il mio onore ed il suo la passò di volo. La giovenile superbia mia non godé lungamente di quel trionfo, che dopo fatti alcuni passi adagino, freddandomisi a poco a poco la mente e il corpo, cominciai a provare un fiero dolore nella sinistra spalla, che era in fatti slogata, e rotto un ossuccio che collega la punta di essa col collo. Il dolore andava crescendo, e le poche miglia che mi trovava esser distante da casa mi parvero fieramente lunghe prima di ricondurmivi a cavallo ad oncia ad oncia. Venuto il chirurgo, e straziatomi per assai tempo, disse di aver riallogato ogni cosa, e fasciatomi, ordinò ch'io stessi in letto. Chi intende d'amore si rappresenti le mie smanie e furore nel vedermi io cosà inchiodato in un letto, la vigilia per l'appunto di quel beato giorno ch'era prefisso alla mia seconda gita in villa. La slogatura del braccio era accaduta nella mattina del sabato; pazientai per quel giorno, e la domenica, sino verso la sera, onde quel poco di riposo mi rendé alcuna forza nel braccio, e piú ardire nell'animo. Onde verso le ore sei del giorno mi volli a ogni conto alzare, e per quanto mi dicesse il mio semi-aio Elia, entrai alla meglio in un carrozzino di posta soletto, e mi avviai verso il mio destino. Il cavalcare mi si era fatto impossibile atteso il dolore del braccio, e l'impedimento della stringatissima fasciatura, onde non dovendo né potendo arrivare sino alla villa in quel carrozzino col postiglione, mi determinai di lasciare il legno alla distanza di circa due miglia, e feci il rimanente della strada a piedi con l'un braccio impedito, e l'altro sotto il pastrano con la spada impugnata, andando solo di notte in casa d'altri, non come amico. La scossa del legno mi avea frattanto rinnovato e raddoppiato il dolore della spalla, e scompostami la fasciatura a tal segno che la spalla in fatti non si riallogò poi in appresso mai piú. Pareami pur tuttavia di essere il piú felice uomo del mondo avvicinandomi al sospirato oggetto. Arrivai finalmente, e con non poco stento (non avendo l'aiuto di chicchessia, poiché dei confidenti non v'era) pervenni pure ad accavalciare gli stecconi del parco per introdurmivi, poiché la porticella che la prima volta ritrovai socchiusa, in quella seconda mi riuscà inapribile. Il marito, al solito per cagione della rivista dell'indomani lunedÃ, era ito anche quella sera a dormire in Londra. Pervenni dunque alla casa, trovai chi mi vi aspettava, e senza molto riflettere né essa né io all'accidente dell'essersi ritrovata chiusa la porticella ch'essa pure avea già piú ore prima aperta da sé, mi vi trattenni fino all'alba nascente. Uscitone poi nello stesso modo, e tenendo per fermo di non essere stato veduto da anima vivente, per la stessa via fino al mio legno, e poi salito in esso mi ricondussi in Londra verso le sette della mattina assai mal concio fra i due cocentissimi dolori dell'averla lasciata e di trovarmi assai peggiorata la spalla. Ma lo stato dell'animo mio era sà pazzo e frenetico, ch'io nulla curava qualunque cosa potesse accadere, prevedendole pure tutte. Mi feci dal chirurgo ristringere di nuovo la fasciatura senza altrimenti toccare al riallogamento o slogamento che fosse. E martedà sera trovatomi alquanto meglio, non volli neppur piú stare in casa, e andai al Teatro Italiano nel solito palco del principe di Masserano, che vi era con la sua moglie, e che credendomi mezzo stroppio ed in letto, molto si maravigliarono di vedermi col solo braccio al collo.
Frattanto io me ne stava in apparenza tranquillo, ascoltando la musica, che mille tempeste terribili mi rinnovava nel cuore; ma il mio viso era, come suol essere, di vero marmo. Quand'ecco ad un tratto io sentiva, o pareami, pronunziato il mio nome da qualcuno, che sembrava contrastare con un altro alla porta del chiuso palco. Io, per un semplice moto machinale, balzo alla porta, l'apro, e richiudola dietro di me in un attimo, e agli occhi mi si presenta il marito della mia donna, che stava aspettando che di fuori gli venisse aperto il palco chiuso a chiave da quegli usati custodi dei palchi, che nei teatri inglesi si trattengono a tal effetto nei corridoi. Io già piú e piú volte mi era aspettato a quest'incontro, e non potendolo onoratamente provocare io primo, l'avea pure desiderato piú che ogni cosa al mondo. Presentatomi dunque in un baleno fuori del palco, le parole furon queste brevissime, "Eccomi qua" gridai io. "Chi mi cerca?" "Io," mi rispos'egli, "la cerco, che ho qualche cosa da dirle." "Usciamo," io replico; "sono ad udirla." Né altro aggiungendovi, uscimmo immediatamente dal teatro. Erano circa le ore ventitré e mezzo d'Italia; nei lunghissimi giorni di maggio cominciando in Londra i teatri verso le ventidue. Dal Teatro dell'Haymarket per un assai buon tratto di strada andavamo al Parco di San Giacomo, dove per un cancello si entra in un vasto prato, chiamato Green-Park. Quivi, già quasi annottando, in un cantuccio appartato si sguainò senza dir altro le spade. Era allor d'uso il portarla anch'essendo infrack, onde io mi era trovato d'averla, ed egli appena tornato di villa era corso da uno spadaio a provvedersela. A mezzo la via di Pallmall che ci guidava al Parco San Giacomo, egli due o tre volte mi andò rimproverando ch'io era stato piú volte in casa sua di nascosto, ed interrogavami del come. Ma io, malgrado la frenesia che mi dominava, presentissimo a me, e sentendo nell'intimo del cuor mio quanto fosse giusto e sacrosanto lo sdegno dell'avversario, null'altro mai mi veniva fatto di rispondere, se non se: "Non è vera tal cosa; ma quand'ella pure la crede son qui per dargliene buon conto". Ed egli ricominciava ad affermarlo, e massimamente di quella mia ultima gita in villa egli ne sminuzzava sà bene ogni particolarità , ch'io rispondendo sempre, "Non è vero", vedea pure benissimo ch'egli era informato a puntino di tutto. Finalmente egli terminava col dirmi: "A che vuol ella negarmi quanto mi ha confessato e narrato la stessa mia moglie?". Strasecolai di un sà fatto discorso, e risposi (benché feci male, e me ne pentii poi dopo): "Quand'ella il confessi, non lo negherò io". Ma queste parole articolai, perché oramai era stufo di stare sà lungamente sul negare una cosa patente e verissima; parte che troppo mi ripugnava in faccia ad un nemico offeso da me; ma pure violentandomi, lo faceva per salvare, se era possibile, la donna. Questo era stato il discorso tra noi prima di arrivar sul luogo ch'io accennai. Ma allorché nell'atto di sguainar la spada, egli osservò ch'io aveva il manco braccio sospeso al collo, egli ebbe la generosità di domandarmi se questo non m'impedirebbe di battermi. Risposi ringraziandolo, ch'io sperava di no, e subito lo attaccai. Io sempre sono stato un pessimo schermidore; mi ci buttai dunque fuori d'ogni regola d'arte come un disperato; e a dir vero io non cercava ...
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