[Pagina precedente]...che assai piú tagliente scalpello ci volea che un passeggiere rincrescimento, a volernela estirpare. Onde passò quella sacrosanta vergogna senza lasciare in me orma nessuna per allora, e non lessi altrimenti né Virgilio, né alcun altro buon libro in nessuna lingua, per degli anni parecchi.
In questa mia seconda dimora in Roma fui introdotto al papa, che era allora Clemente XIII, bel vecchio, e di una veneranda maestà ; la quale, aggiunta alla magnificenza locale del palazzo di Montecavallo, fece sà che non mi cagionò punto ribrezzo la solita prosternazione e il bacio del piede, benché io avessi letta la storia ecclesiastica, e sapessi il giusto valore di quel piede.
Per mezzo poi del predetto conte di Rivera, io intavolai e riuscii il mio terzo raggiro presso la corte paterna di Torino, per ottenere la permissione di un secondo anno di viaggi in cui destinava di vedere la Francia, l'Inghilterra e l'Olanda; nomi che mi suonavano maraviglia e diletto nella mia giovinezza inesperta. E anche questo terzo raggiretto mi riuscÃ, onde, ottenuto quell'anno piú, per tutto il 1768 in circa io mi trovava in piena libertà e certezza di poter correre il mondo. Ma nacque allora una piccola difficoltà , la quale mi contristò lungamente. Il mio curatore, col quale non si era mai entrato in conti, e che non mi avea mai fatto vedere in chiaro con esattezza quello ch'io m'avessi d'entrata; dandomi parole diverse ed ambigue, ed ora accordandomi danari, ora no; mi scrisse in quell'occasione dell'ottenuta permissione, che pel second'anno mi avrebbe somministrata una credenziale di millecinquecento zecchini, non me ne avendo dati che soli milleduecento pel primo viaggio. Questa sua intimazione mi sbigottà assai, senza però scoraggirmi. Udendo io sempre mentovare la gran carezza dei paesi oltramontani, mi riusciva assai dura cosa di dovermi trovare sprovvisto, e di esservi costretto a far delle triste figure. Per altra parte poi, io non mi arrischiava di scrivere di buon inchiostro allo stitico curatore, perché a quel modo l'avrei subito avuto contrario; e m'avrebbe intuonato la parola re, la quale in Torino nei piú interni affari domestici si suole sempre intrudere, fra il ceto dei nobili; e gli sarebbe stato facilissimo di divolgarmi per discolo e scialacquatore, e di farmi come tale richiamar subito in patria. Non feci dunque nessuna querela col curatore, ma presi in me la risoluzione di risparmiare quanti piú danari potrei in quel primo viaggio dai milleduecento zecchini già assegnatimi, per cosà accrescere quanto piú potrei ai millecinquecento da esigersi, e che mi pareano scarsissimi per un anno di viaggi oltramontani. In questo modo io per la prima volta, da un giusto e piuttosto largo spendere, ristrettomi alla meschinità , provai un doloroso accesso di sordida avarizia. Ed andò questa tant'oltre che non solo non andava piú a visitare nessuna delle curiosità di Roma per non dare le mancie, ma anche al mio fidato e diletto Elia, procrastinandolo d'un giorno in un altro, io venni a negargli i danari del suo salario e vitto, a segno ch'egli mi si protestò ch'io lo sforzerei a rubarmeli per campare. Allora, di mal animo, glie li diedi.
Rimpicciolito cosà di mente e di cuore, partii verso i primi di maggio alla volta di Venezia; e la mia meschinità mi fece prendere il vetturino, ancorché io abborrissi quel passo mulare: ma pure il divario tra la posta e la vettura essendosi grande, io mi vi sottoposi, e mi avviai bestemmiando. Io lasciava nel calesse Elia col servitore, e me n'andava cavalcando un umile ronzino, che ad ogni terzo passo inciampava; onde io faceva quasi tutta la strada a piedi, conteggiando cosà sotto voce e su le dita della mano quanto mi costerebbero quei dieci o dodici giorni di viaggio; quanto, un mese di soggiorno in Venezia; quanto sarebbe il risparmio all'uscir d'Italia, e quanto questa cosa, e quanto quell'altra; e mi logorava il cuore e il cervello in cotali sudicerie.
Il vetturino era patteggiato da me sino a Bologna per la via di Loreto; ma giunto con tanta noia e strettezza d'animo in Loreto, non potei piú star saldo all'avarizia e alla mula, e non volli piú continuare di quel mortifero passo. E qui la nascente gelata avarizia rimase vinta e sbeffata dalla bollente indole e dalla giovanile insofferenza. Onde, fatto a dirittura un grosso sbilancio, sborsai al vetturino quasi che tutto il pattuito importare di tutto il viaggio di Roma a Bologna, e piantatolo in Loreto, me ne partii per le poste tutto riavutomi; e l'avarizia diventò d'allora in poi un giusto ordine, ma senza spilorceria.
Bologna non mi piacque nulla piú, anzi meno al ritorno che non mi fosse piaciuta all'andare; Loreto non mi compunse di divozione nessuna; e non sospirando altro che Venezia, della quale avea udito tante maraviglie già fin da ragazzo, dopo un solo giorno di stazione in Bologna, proseguii per Ferrara. Passai anche questa città senza pur ricordarmi, ch'ella era la patria e la tomba di quel divino Ariosto di cui pure avea letto in parte il poema con infinito piacere, e i di cui versi erano stati i primi primissimi che mi fossero capitati alle mani. Ma il mio povero intelletto dormiva allora di un sordidissimo sonno, e ogni giorno piú s'irruginiva quanto alle lettere. Vero è però, che quanto alla scienza del mondo e degli uomini, io andava acquistando non poco ogni giorno senza avvedermene, stante la gran quantità di continui e diversi quadri morali che mi venivan visti e osservati giornalmente.
Al ponte di Lagoscuro m'imbarcai su la barca corriera di Venezia; e mi vi trovai in compagnia d'alcune ballerine di teatro, di cui una era bellissima; ma questo non mi alleggerà punto la noia di quell'imbarcazione, che durò due giorni e una notte, sino a Chiozza, atteso che codeste ninfe faceano le Susanne, e che io non ho mai tollerato la simulata virtú.
Ed eccomi finalmente in Venezia. Nei primi giorni l'inusitata località mi riempà di maraviglia e diletto e me ne piacque perfino il gergo, forse perché dalle commedie del Goldoni ne avea sin da ragazzo contratta una certa assuefazÃone d'orecchio; ed in fatti quel dialetto è grazioso, e manca soltanto di maestà . La folla dei forestieri, la quantità dei teatri, ed i molti divertimenti e feste che, oltre le solite farsi per ogni fiera dell'Ascensa, si davano in quell'anno a contemplazione del duca di Wirtemberg, e tra l'altre la sontuosa regata, mi fecero trattenere in Venezia sino a mezzo giugno, ma non mi tennero perciò divertito. La solita malinconia, la noia, e l'insofferenza dello stare, ricominciavano a darmi i loro aspri morsi tosto che la novità degli oggetti trovavasi ammorzata. Passai piú giorni in Venezia solissimo senza uscir di casa; e senza pure far nulla che stare alla finestra, di dove andava facendo dei segnuzzi, e qualche breve dialoghetto con una signorina che mi abitava di faccia; e il rimanente del giorno lunghissimo, me lo passava o dormicchiando, o ruminando non saprei che, o il piú spesso anche piangendo, né so di che; senza mai trovar pace, né investigare né dubitarmi pure della cagione che me la intorbidava o toglieva. Molti anni dopo, osservandomi un poco meglio, mi convinsi poi che questo era in me un accesso periodico d'ogni anno nella primavera, alle volte in aprile, alle volte anche sino a tutto giugno; e piú o meno durevole e da me sentito, secondo che il cuore e la mente si combinavano essere allora piú o meno vuoti ed oziosi. Nell'istesso modo ho osservato poi, paragonando il mio intelletto ad un eccellente barometro, che io mi trovava avere ingegno e capacità al comporre piú o meno, secondo il piú o men peso dell'aria; ed una totale stupidità nei gran venti solstiziali ed equinoziali; e una infinitamente minore perspicacità la sera che la mattina; e assai piú fantasia, entusiasmo, e attitudine all'inventare nel sommo inverno e nella somma state che non nelle stagioni di mezzo. Questa mia materialità , che credo pure in gran parte essere comune un po' piú un po' meno a tutti gli uomini di fibra sottile, mi ha poi col tempo scemato e annullato ogni orgoglio del poco bene ch'io forse andava alle volte operando, come anche mi ha in gran parte diminuito la vergogna del tanto piú male che avrò certamente fatto, e massime nell'arte mia; essendomi pienamente convinto che non era quasi in me il potere in quei dati tempi fare altrimenti.
CAPITOLO QUARTO
Fine del viaggio d'Italia, e mio primo arrivo a Parigi.
Riuscitomi dunque il soggiorno in Venezia sul totale anzi noioso che no; ed essendo perpetuamente incalzato dalla smania del futuro viaggio d'oltramonti, non ne cavai neppure il minimo frutto. Non visitai neppure la decima parte delle tante maraviglie, sà di pittura che d'architettura e scoltura, riunite tutte in Venezia; basti dire con mio infinito rossore, che né pure l'Arsenale. Non presi nessunissima notizia, anco delle piú alla grossa, su quel governo che in ogni cosa differisce da ogni altro; e che, se non buono, dee riputarsi almen raro, poiché pure per tanti secoli ha sussistito con tanto lustro, prosperità , e quiete. Ma io, digiuno sempre d'ogni bell'arte turpemente vegetava, e non altro. Finalmente partii di Venezia al solito con mille volte assai maggior gusto che non c'era arrivato. Giunto a Padova, ella mi spiacque molto; non vi conobbi nessuno dei tanti professori di vaglia, i quali desiderai poi di conoscere molti anni dopo; anzi, allora al solo nome di professori, di studio, e di Università , io mi sentiva rabbrividire. Non mi ricordai (anzi neppur lo sapeva) che poche miglia distante da Padova giacessero le ossa del nostro gran luminare secondo, il Petrarca; e che m'importava egli di lui, io che mai non l'avea né letto, né inteso, né sentito, ma appena appena preso fra le mani talvolta, e non v'intendendo nulla buttatolo? Perpetuamente cosà spronato e incalzato dalla noia e dall'ozio, passai Vicenza, Verona, Mantova, Milano, e in fretta in furia mi ridussi in Genova, città che da me veduta alla sfuggita qualch'anni prima, mi avea lasciato un certo desiderio di sé. Io avea delle lettere di raccomandazione in quasi tutte le suddette città , ma per lo piú non le ricapitava, o se pur lo faceva, il mio solito era di non mi lasciar piú vedere; fuorché quelle persone non mi venissero insistentemente a cercare; il che non accadea quasi mai, e non doveva in fatti accadere. Questa sà fatta selvatichezza era in me occasionata in parte da fierezza e inflessibilità d'ineducato carattere, in parte da una renitenza naturale e quasi invincibile al veder visi nuovi. Ed era pur cosa impossibile davvero di andar sempre cangiando paese senza che mi si cangiassero le persone. Avrei voluto per la parte del cuore convivere sempre con la stessa gente; ma sempre in luogo diverso.
In Genova dunque, non vi essendo allora il ministro di Sardegna, e non conoscendovi altri che il mio banchiere, non tardai anche molto a tediarmi; e già aveva fissato di partirne verso il fine di giugno, allorché un giorno quel banchiere, uomo di mondo e di garbo, venutomi a visitare, e trovatomi cosà solitario, selvatico, e malinconico, volle sapere come io passassi il mio tempo; e vedendomi senza libri, senza conoscenze, senza occupazione altra che di stare al balcone, e correre tutto il giorno per le vie di Genova, o di passeggiare pel fido in barchetta, gli prese forse una certa compassione di me e della mia giovinezza, e volle assolutamente portarmi da un cavaliere suo amico. Questi era il signor Carlo Negroni, che avea passata gran parte della sua vita in Parigi, e che vedendomi cotanto invogliato di andarvi, me ne disse quel vero e schietto, al quale non prestai fede se non se alcuni mesi dopo, tosto che vi fui arrivato. Frattanto quel garbato signore mi introdusse in parecchie case delle primarie; e all'occasione del famoso banchetto che si suol dare dal doge nuovo, egli mi servà d'introduttore e compagno. E là fui quasi sul punto d'innamorarmi d'una gentil signora, la quale mi si mostrava bastantemente benigna. Ma per altra parte smaniando io di c...
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