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CAPITOLO DECIMOQUARTO
Viaggio in Alsazia. Rivedo la donna mia. Ideate tre nuove tragedie. Morte inaspettata dell'amico Gori in Siena.
Erano frattanto giunti in Siena pochi giorni dopo di me i miei quattordici cavalli, ed il decimoquinto ve l'avea lasciato io in custodia all'amico; ed era il mio bel falbo, il Fido; quello stesso che in Roma avea piú volte portato il dolce peso della donna mia, e che perciò mi era egli solo piú caro assai che tutta la nuova brigata. Tutte queste bestie mi tenevano scioperato e divagato ad un tempo; aggiuntavi poi la scontentezza di cuore, io andava invano tentando di ripigliare le occupazioni letterarie. Parte di giugno, e tutto luglio ch'io stetti senza muovermi di Siena, mi si consumarono cosÃ, senza ch'io facessi altro che qualche rime. Feci anche alcune stanze che mancavano a terminare il terzo canto del poemetto, e vi cominciai il quarto ed ultimo. Quell'opera, benché lavorata con tante interruzioni, in cosà lungo tempo, e sempre alla spezzata, e senza ch'io avessi alcun piano scritto, mi stava con tutto ciò assai fortemente fitta nel capo; e l'avvertenza ch'io vi osservava il piú, era di non l'allungare di soverchio; il che, se io mi fossi lasciato andare agli episodi o ad altri ornamenti, mi sarebbe riuscito pur troppo facile. Ma a volerla far cosa originale e frizzante d'un agrodolce terribile, il pregio di cui piú abbisognava si era la brevità . Perciò da prima io l'aveva ideata di tre soli canti; ma la rassegna dei consiglieri mi avea rubato quasi che un canto, perciò furon quattro. Non sono però ben certo in me stesso che quei tanti interrompimenti non abbiano influito sul totale del poema, dandogli un non so che di sconnesso.
Mentre io stava dunque tentando di proseguire quel quarto canto, io andava sempre ricevendo e scrivendo gran lettere; queste a poco a poco mi riempirono di speranza, e vieppiú m'infiammarono del desiderio di rivederla tra breve. E tanto andò crescendo questa possibilità , che un bel giorno non potendo io piú stare a segno, detto al solo amico Gori dove io fossi per andare, e finto di fare una scorsa a Venezia, io mi avviai verso la Germania il dà quattro d'agosto. Giorno, oimè, di sempre amara ricordanza per me. Che mentre io baldo e pieno di gioia mi avviava verso la metà di me stesso, non sapeva io che nell'abbracciare quel caro e raro amico, che per sei settimane sole mi credea di lasciarlo, io lo lascerei per l'eternità . Cosa, di cui non posso parlare, né pur pensarci, senza prorompere in pianto, anche molti anni dopo. Ma tacerò di questo pianto, poiché altrove quanto meglio il seppi v'ho dato sfogo.
Eccomi dunque da capo per viaggio. Per la solita mia dilettissima e assai poetica strada di Pistoia a Modena, me ne vo rapidissimamente a Mantova, Trento, Inspruck, e quindi per la Soavia a Colmar, città dell'Alsazia superiore alla sinistra del Reno. Quivi presso ritrovai finalmente quella ch'io andava sempre chiamando e cercando, orbo di lei da piú di sedici mesi. Io feci tutto questo cammino in dodici giorni né mai mi pareva di muovermi, per quanto i' corressi. Mi si riaprà in quel viaggio piú abbondante che mai si fosse la vena delle rime, e chi potea in me piú di me mi facea comporre sino a tre e piú sonetti quasi ogni giorno; essendo quasi fuor di me dal trasporto di calcare per tutta quella strada le di lei orme stesse, e per tutto informandomi, e rilevando ch'ella vi era passata circa due mesi innanzi. E col cuore alle volte gioioso, mi rivolsi anche al poetare festevole; onde scrissi cammin facendo un capitolo al Gori, per dargli le istruzioni necessarie per la custodia degli amati cavalli, che pure non erano in me che la passione terza: troppo mi vergognerei se avessi detto, seconda; dovendo, come è di ragione, al Pegaso preceder le Muse.
Quel mio lunghetto capitolo, che poi ho collocato fra le rime, fu la prima e quasi che la sola poesia ch'io mai scrivessi in quel genere bernesco, di cui, ancorché non sia quello al quale la natura m'inclini il piú, tuttavia pure mi par di sentire tutte le grazie e il lepore. Ma non sempre il sentirle basta ad esprimerle. Ho fatto come ho saputo. Giunto il dà 16 agosto presso la mia donna, due mesi in circa mi vi sfuggirono quasi un baleno. Ritrovatomi cosà di bel nuovo interissimo di animo di cuore e di mente, non erano ancor passati quindici giorni dal dà ch'io era ritornato alla vita rivedendola, che quell'istesso io il quale da due anni non avea mai piú neppure sognato di scrivere oramai altre tragedie; quell'io, che anzi avendo appeso il coturno al Saul, mi era fermamente proposto di non lo spiccare mai piú; mi ritrovai allora, senza accorgermene quasi, ideate per forza altre tre tragedie ad un parto: Agide, Sofonisba, e Mirra. Le due prime, mi erano cadute in mente altre volte, e sempre l'avea discacciate; ma questa volta poi mi si erano talmente rifitte nella fantasia, che mi fu forza di gettarne in carta l'abbozzo, credendomi pure e sperando che non le potrei poi distendere. A Mirra non avea pensato mai; ed anzi, essa non meno che Bibli, e cosà ogni altro incestuoso amore, mi si erano sempre mostrate come soggetti non tragediabili. Mi capitò alle mani nelle Metamorfosi di Ovidio quella caldissima e veramente divina allocuzione di Mirra alla di lei nutrice, la quale mi fece prorompere in lagrime, e quasi un subitaneo lampo mi destò l'idea di porla in tragedia; e mi parve che toccantissima ed originalissima tragedia potrebbe riuscire, ogni qual volta potesse venir fatto all'autore di maneggiarla in tal modo che lo spettatore scoprisse da sé stesso a poco a poco tutte le orribili tempeste del cuore infuocato ad un tempo e purissimo della piú assai infelice che non colpevole Mirra, senza che ella neppure la metà ne accennasse, non confessando quasi a sé medesima, non che ad altra persona nessuna, un sà nefando amore. In somma l'ideai a bella prima, ch'ella dovesse nella mia tragedia operare quelle cose stesse, ch'ella in Ovidio descrive; ma operarle tacendole. Sentii fin da quel punto l'immensa difficoltà ch'io incontrerei nel dover far durare questa scabrosissima fluttuazione dell'animo di Mirra per tutti gl'interi cinque atti, senza accidenti accattati d'altrove. E questa difficoltà che allora vieppiú m'infiammò, e quindi poi nello stenderla, verseggiarla, e stamparla sempre piú mi fu sprone a tentare di vincerla, io tuttavia dopo averla fatta, la conosco e la temo quant'ella s'è; lasciando giudicar poi dagli altri s'io l'abbia saputa superare nell'intero, od in parte, od in nulla.
Questi tre nuovi parti tragici mi raccesero l'amor della gloria, la quale io non desiderava per altro fine oramai, se non se per dividerla con chi mi era piú caro di essa. Io dunque allora da circa un mese stava passando i miei giorni beati, e occupati, e da nessunissima amarezza sturbati, fuorché dall'anticipato orribile pensiero che al piú al piú fra un altro mesetto era indispensabile il separarci di nuovo. Ma, quasi che questo sovrastante timore non fosse bastato egli solo a mescermi infinita amarezza al poco dolce brevissimo ch'io assaporava, la fortuna nemica me ne volle aggiungere una dose non piccola per farmi a caro prezzo scontare quel passeggero sollievo. Lettere di Siena mi portarono nello spazio di otto giorni, prima la nuova della morte del fratello minore del mio Gori, e la malattia non indifferente di esso; successivamente le prossime nuove mi portarono pur anche la morte di esso in sei soli giorni di malattia. Se io non mi fossi trovato con la mia donna al ricevere questo colpo sà rapido ed inaspettato, gli effetti del mio giusto dolore sarebbero stati assai piú fieri e terribili. Ma l'aver con chi piangere menoma il pianto d'assai. La mia donna conosceva essa pure e moltissimo amava quel mio Francesco Gori; il quale l'anno innanzi, dopo avermi accompagnato, come dissi, a Genova, tornato poi in Toscana erasi quindi portato a Roma quasi a posta per conoscerla, e soggiornatovi alcuni mesi l'aveva continuamente trattata, ed aveala giornalmente accompagnata nel visitare i tanti prodotti delle bell'arti di cui egli era caldissimo amatore e sagace conoscitore. Essa perciò nel piangerlo meco non lo pianse soltanto per me, ma anche per sé medesima, conoscendone per recente prova tutto il valore. Questa disgrazia turbò oltre modo il rimanente del breve tempo che si stette insieme; ed approssimandosi poi il termine, tanto piú amara ed orribile ci riuscà questa separazione seconda. Venuto il temuto giorno, bisognò obbedire alla sorte, ed io dovei rientrare in ben altre tenebre, rimanendo questa volta disgiunto dalla mia donna senza sapere per quanto, e privo dell'amico colla funesta certezza ch'io l'era per sempre. Ogni passo di quella stessa via, che al venire mi era andato sgombrando il dolore ed i tetri pensieri, me li facea raddoppiati ritrovare al ritorno. Vinto dal dolore, poche rime feci, ed un continuo piangere sino a Siena dove mi restituii ai primi di novembre. Alcuni amici dell'amico, che mi amavano di rimbalzo, ed io cosà loro, mi accrebbero in quei primi giorni smisuratamente il dolore troppo bene servendomi nel mio desiderio di sapere ogni particolarità di quel funesto accidente; ed io tremando pur sempre e sfuggendo di udirle, le andava pur domandando. Non tornai piú ad alloggio (come ben si può credere) in quella casa del pianto, che anzi non l'ho rivista mai piú. Fin da quando io era tornato di Milano l'anno innanzi, io avea accettato dall'ottimo cuor dell'amico un molto gaio e solitario quartierino nella di lui casa, e ci vivevamo come fratelli.
Ma il soggiorno di Siena senza il mio Gori, mi si fece immediatamente insoffribile. Volli tentare di indebolirne alquanto il dolore senza punto scemarmene la memoria, col cangiare e luoghi ed oggetti. Mi trasferii perciò nel novembre in Pisa, risolutomi di starvi quell'inverno; ed aspettando che un miglior destino mi restituisse a me stesso; che privo d'ogni pascolo del cuore, veramente non mi potea riputar vivo.
CAPITOLO DECIMOQUINTO
Soggiorno in Pisa. Scrittovi il Panegirico a Traiano ed altre cose.
La mia donna frattanto era per le Alpi della Savoia rientrata 1785 anch'essa in Italia; e per la via di Torino venuta a Genova, quindi a Bologna, in quest'ultima città si propose di passare l'inverno; combinandosi in questo modo per lei di stare negli Stati Pontificii, senza pure rimettersi in Roma nell'usato carcere. Sotto il pretesto dunque della stagione troppo inoltrata, sendo giunta a Bologna in decembre, non ne partà altrimenti. Eccoci dunque, io a Pisa, ed essa in Bologna, col solo Apennino di mezzo, per quasi cinque mesi, di nuovo disgiunti e pur vicinissimi. Questo m'era ad un tempo stesso una consolazione e un martirio; ne ricevea le nuove freschissime ogni tre o quattro giorni, e non potea pure né doveva in niun modo tentar di vederla, atteso il gran pettegolezzo delle città piccole d'Italia, dove chi nulla nulla esce dal volgo, è sempre minutamente osservato dai molti oziosi e maligni. Io mi passai dunque in Pisa quel lunghissimo inverno, col solo sollievo delle di lei spessissime lettere, e perdendo al solito il mio tempo fra i molti cavalli, e quasi nulla servendomi dei pochi ma fidi miei libri. Sforzato pure dalla noia, e nell'ore che cavalcare ed aurigare non si poteva, tanto e tanto qualcosa andava pur leggicchiando, massime la mattina in letto, appena sveglio. In queste semiletture avea scorse le lettere di Plinio il Minore, e molto mi avean dilettato sà per la loro eleganza, sà per le molte notizie su le cose e costumi romani che vi si imparano; oltre poi il purissimo animo, e la bella ed amabile indole che vi va sviluppando l'autore. Finite l'epistole, impresi di leggere il Panegirico a Traiano, opera che mi era nota per fama, ma di cui non avea mai letta parola. Inoltratomi per alcune pagine, e non vi ritrovando quell'uomo stesso dell'epistole, e molto meno un amico di Tacito, qual egli si professava, io sentii nel mio intimo un certo tal moto d'indegnazione; e tosto, buttato ...
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