[Pagina precedente]... d'essi le riconosceva piú per le stesse, e mi domandavano sul serio, perché l'avessi mutate; tanta era l'influenza dei cangiati abiti e panneggiamenti alla stessa figura, ch'ella non era piú né conoscibile, né sopportabile. Io mi arrabbiava, e piangeva; ma invano. Era forza pigliar pazienza, e rifare; ed intanto ingoiarmi le piú insulse e antitragiche letture dei nostri testi di lingua per invasarmi di modi toscani, e direi (se non temessi la sguaiataggine dell'espressione), in due parole direi che mi conveniva tutto il giorno spensare per poi ripensare.
Tuttavia, l'aver io quelle due tragedie future nello scrigno, mi facea prestare alquanto piú pazientemente l'orecchio agli avvisi pedagogici, che d'ogni parte mi pioveano addosso. E parimente quelle due tragedie mi aveano prestato la forza necessaria per ascoltare la recita a' miei orecchi sgradevolissima della Cleopatra, che ogni verso che pronunziava l'attore mi risuonava nel core come la piú amara critica dell'opera tutta, la quale già fin d'allora era divenuta un nulla ai miei occhi; né la considerava per altro, se non se come lo sprone dell'altre avvenire. Onde, siccome non mi avvilirono punto le critiche (forse giuste in parte, ma piú assai maligne ed indotte) che mi furono poi fatte su le tragedie della mia prima edizione di Siena del 1783, cosà per l'appunto nulla affatto m'insuperbirono, né mi persuasero, quegli ingiusti non meritati applausi che la platea di Torino, mossa forse a compassione della mia giovenile fidanza e baldanza, mi volle pur tributare. Primo passo adunque verso la purità toscana essere doveva, e lo fu, di dare interissimo bando ad ogni qualunque lettura francese. Da quel luglio in poi non volli piú mai proferire parola di codesta lingua, e mi diedi a sfuggire espressamente ogni persona o compagnia da cui si parlasse. Con tutti questi mezzi non veniva perciò a capo d'italianizzarmi. Assai male mi piegava agli studi gradati e regolati; ed essendo ogni terzo giorno da capo a ricalcitrare contro gli ammonimenti, io andava pur sempre ritentando di svolazzare coll'ali mie. Perciò, ogni qualunque pensiero mi cadesse nella fantasia, mi provava di porlo in versi; ed ogni genere, ed ogni metro andava tasteggiando, ed in tutti io mi fiaccava le corne e l'orgoglio, ma l'ostinata speranza non mai. Tra l'altre di queste rimerie (che poesie non ardirò di chiamarle) una me ne occorse di fare, da essere da me cantata ad un banchetto di liberi muratori. Era questa, o dovea essere un capitolo allusivo ai diversi utensili e gradi e officiali di quella buffonesca società . E benché io nel primo sonetto quassú trascritto avessi rubato un verso del Petrarca dai suoi capitoli, con tutto ciò, tanta era la mia disattenzione e ignoranza, che allora cominciai questo mio senza piú ricordarmi, e non l'avendo forse mai bene osservata, la regola delle terzine; e cosà me lo proseguii sbagliando, sino alla duodecima terzina; dove essendomene nato il dubbio, aperto Dante conobbi l'errore, e lo corressi in appresso, ma lasciai le dodici terzine com'elle stavano; e cosà le cantai al banchetto: ma quei liberi muratori tanto intendevan di rime e di poesia, quanto dell'arte di fabbricare; e il mio capitolo passò. Per ultima prova e saggio degli infruttuosi miei sforzi, trascriverò ancora qui, o gran parte, o tutto forse quel capitolo; secondo che mi basterà la carta, e la pazienza(10).
Verso l'agosto di quell'anno stesso '75, credendomi far vita troppo dissipata stando in città , e non potere perciò studiare abbastanza, me n'andai nei monti che confinano tra il Piemonte e il Delfinato, e passai quasi due mesi in un borguccio, chiamato Cezannes a' piedi del Monginevro, dove è fama che Annibale varcasse l'Alpi. Io benché riflessivo per natura, talvolta pure sconsiderato per impeto, non riflettei nel prendere quella risoluzione, che in quei monti mi tornerebbe fra i piedi la maladettissima lingua francese, che con giusta e necessaria ostinazione io m'era proposto di sfuggire sempre. Ma a questo mi indusse quell'abate, ch'io dissi mi avea accompagnato in quel viaggio ridicolo fatto l'anno innanzi a Firenze. Era quest'abate nativo di Cezannes; chiamavasi Aillaud; era pieno d'ingegno, di una lieta filosofia, e di molta coltura nella letteratura latina e francese. Egli era stato aio di due fratelli coi quali io m'era trovato assai collegato nella prima gioventú, ed allora aveamo fatto amicizia l'Aillaud ed io; e continuatala dappoi. Debbo dire pel vero, che codesto abate ne' miei primi anni avea fatto il possibile per inspirarmi l'amore delle lettere, dicendomi che ci avrei potuto riuscire; ma il tutto invano. E alle volte si era fatto fra noi il seguente risibile patto: ch'egli mi dovrebbe leggere per un'ora intera del romanzo, o novelliere, intitolato Les Milles et une Nuits, con che poi io mi sottomettessi a sentirmi leggere per soli dieci minuti uno squarcio delle tragedie di Racine. Ed io me ne stava tutto orecchi nel tempo di quella prima insulsa lettura, e mi addormentava poi al suono dei dolcissimi versi di quel gran tragico; cosa, di cui l'Aillaud arrabbiava, e vituperavami, con gran ragione. Questa era la mia disposizione a diventar tragico, quando stava nel Primo Appartamento della Reale Accademia. Ma neppur dappoi ho potuto ingoiar mai la cantilena metodica muta e gelidissima dei versi francesi, che non mi sono sembrati mai versi; né quando non mi sapea che cosa si fosse un verso, né quando poi mi parve di saperlo.
Torno a quel mio ritiro estivo in Cezannes, dove oltre l'abate letterato, aveva anche meco un abate citarista, che m'insegnava suonar la chitarra, stromento che mi parea inspirare poesia, e pel quale una qualche disposizione avea; ma non poi la stabile volontà , che si agguagliasse al trasporto che quel suono mi cagionava. Onde né in questo stromento, né sul cimbalo, che da giovane avea imparato, non ho mai ecceduta la mediocrità , ancorché l'orecchio e la fantasia fossero in me musichevoli nel sommo grado. Passai cosà quell'estate fra codesti due abati, di cui l'uno mi sollevava dalla angoscia per me sà nuova (dell'applicar seriamente allo studio) col suonarmi la cetra; l'altro poi mi facea dar al diavolo col suo francese. Con tutto ciò deliziosissimi momenti mi furono, ed utilissimi, quelli in cui mi venne pur fatto di raccogliermi in me stesso; e di lavorare efficacemente e disrugginire il mio povero intelletto, e dischiudere nella memoria le facoltà dell'imparare, le quali oltre ogni credere mi si erano oppilate in quei quasi dieci anni continui d'incallimento nel piú vituperoso letargico ozio. Subito mi accinsi a tradurre o ridurre in prosa e frase italiana quel Filippo o quel Polinice, nati in veste spuria. Ma, per quanto mi ci arrovellassi, quelle due tragedie mi rimanevano pur sempre due cose anfibie, ed erano tra il francese e l'italiano senza esser né l'una cosa né l'altra; appunto come dice il Poeta nostro della carta avvampante:
... un color bruno,
che non è nero ancora, e il bianco muore.
In quest'angoscia di dover fare versi italiani di pensieri francesi mi era già travagliato aspramente anche nel rifare la terza Cleopatra; talché alcune scene di essa, ch'io avea stese e poi lette in francese al mio censor tragico e non grammatico, al conte Agostino Tana, e ch'egli avea trovate forti, e bellissime, tra cui quella d'Antonio con Augusto, allorché poi vennero trasmutate ne' miei versacci poco italiani, slombati, facili, e cantanti, essi gli comparvero una cosa men che mediocre; e me lo disse chiaramente; ed io lo credei; e dirò di piú, che lo sentii anche io. Tanto è pur vero che in ogni poesia il vestito fa la metà del corpo, ed in alcune (come nella lirica) l'abito fa il tutto; a segno che alcuni versi
con la lor vanità che par persona
trionfano di parecchi altri in cui
fosser gemme legate in vile anello.
E noterò pure qui, che sà al padre Paciaudi, che al conte Tana, e principalmente a questo secondo, io professerò eternamente una riconoscenza somma per le verità che mi dissero, e per avermi a viva forza fatto rientrare nel buon sentiero delle sane lettere. E tanta era in me la fiducia in questi due soggetti, che il mio destino letterario è stato interamente ad arbitrio loro; ed avrei ad ogni lor minimo cenno buttata al fuoco ogni mia composizione che avessero biasimata, come feci di tante rime, che altra correzione non meritavano. Sicché, se io ne sono uscito poeta, mi debbo intitolare, per grazia di Dio, e del Paciaudi, e del Tana. Questi furono i miei santi protettori nella feroce continua battaglia in cui mi convenne passare ben tutto il primo anno della mia vita letteraria, di sempre dar la caccia alle parole e forme francesi, di spogliar per dir cosà le mie idee per rivestirle di nuovo sotto altro aspetto, di riunire in somma nello stesso punto lo studio d'un uomo maturissimo con quello di un ragazzaccio alle prime scuole. Fatica indicibile, ingratissima, e da ributtare chiunque avesse avuto (ardirò dirlo) una fiamma minor della mia.
Tradotte dunque in mala prosa le due tragedie, come dissi, mi posi all'impresa di leggere e studiare a verso a verso per ordine d'anzianità tutti i nostri poeti primari, e postillarli in margine, non di parole, ma di uno o piú tratticelli perpendicolari ai versi; per accennare a me stesso se piú o meno mi andassero a genio quei pensieri, o quelle espressioni, o quei suoni. Ma trovando a bella prima Dante riuscirmi pur troppo difficile, cominciai dal Tasso, che non avea mai neppure aperto fino a quel punto. Ed io leggeva con sà pazza attenzione, volendo osservar tante e sà diverse e sà contrarie cose, che dopo dieci stanze non sapea piú quello ch'io avessi letto, e mi trovava essere piú stanco e rifinito assai che se le avessi io stesso composte. Ma a poco a poco mi andai formando e l'occhio e la mente a quel faticosissimo genere di lettura; e cosà tutto il Tasso, la Gerusalemme; poi l'Ariosto, il Furioso; poi Dante senza commenti, poi il Petrarca, tutti me gli invasai d'un fiato postillandoli tutti, e v'impiegai forse un anno. Le difficoltà di Dante, se erano istoriche, poco mi curava di intenderle, se di espressione, di modi, o di voci, tutto faceva per superarle indovinando; ed in molte non riuscendo, le poche poi ch'io vinceva mi insuperbivano tanto piú. In quella prima lettura io mi cacciai piuttosto in corpo un'indigestione che non una vera quintessenza di quei quattro gran luminari; ma mi preparai cosà a ben intenderli poi nelle letture susseguenti, a sviscerarli, gustarli, e forse anche rassomigliarli. Il Petrarca però mi riuscà ancor piú difficile che Dante; e da principio mi piacque meno; perché il sommo diletto dei poeti non si può mai estrarre, finché si combatte coll'intenderli. Ma dovendo io scrivere in verso sciolto, anche di questo cercai di formarmi dei modelli. Mi fu consigliata la traduzione di Stazio del Bentivoglio. Con somma avidità la lessi, studiai, e postillai tutta; ma alquanto fiacca me ne parve la struttura del verso per adattarla al dialogo tragico. Poi mi fecero i miei amici censori capitare alle mani l'Ossian del Cesarotti, e questi furono i versi sciolti che davvero mi piacquero, mi colpirono e m'invasarono. Questi mi parvero con poca modificazione, un eccellente modello pel verso di dialogo. Alcune altre tragedie, o nostre italiane, o tradotte dal francese, che io volli pur leggere sperando d'impararvi almeno quanto allo stile, mi cadevano dalle mani per la languidezza, trivialità , e prolissità dei modi e del verso, senza parlare poi della snervatezza dei pensieri. Tra le men cattive lessi e postillai le quattro traduzioni del Paradisi dal francese, e la Merope originale del Maffei. E questa, a luoghi mi piacque bastantemente per lo stile, ancorché mi lasciasse pur tanto desiderare per adempirne la perfettibilità , o vera, o sognata, ch'io me n'andava fabbricando nella fantasia. E spesso andava interrogando me stesso: or, perché mai questa nostra divina lingua, sà maschia ancor ed energica e feroce in bocca di Dante, dovrà ella fars...
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