[Pagina precedente]...ggeva a dirittura la nota. Dirò piú; che quei sà spessi squarci dei nostri poeti primari italiani che vi s'incontrano, anco venivano da me saltati a piè pari, perché alcun poco mi avrebbero costato fatica a benissimo intenderli. Tanta era in me la primitiva ignoranza, e la desuetudÃne poi di questa divina lingua, la quale in ogni giorno piú andava perdendo.
Per la via di Milano e Venezia, due città ch'io volli rivedere; poi per Trento, Inspruck, Augusta, e Monaco, mi rendei a Vienna, pochissimo trattenendomi in tutti i suddetti luoghi. Vienna mi parve avere gran parte delle picciolezze di Torino, senza averne il bello della località . Mi vi trattenni tutta l'estate, e non vi imparai nulla. Dimezzai il soggiorno, facendo nel luglio una scorsa fino a Buda, per aver veduta una parte dell'Ungheria. Ridivenuto oziosissimo, altro non faceva che andare attorno qua e là nelle diverse compagnie; ma sempre ben armato contro le insidie d'amore. E mi era a questa difesa un fidissimo usbergo il praticare il rimedio commendato da Catone. Io avrei in quel soggiorno di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare il celebre poeta Metastasio, nella di cui casa ogni giorno il nostro ministro, il degnissimo conte di Canale, passava di molte ore la sera in compagnia scelta di altri pochi letterati, dove si leggeva seralmente alcuno squarcio di classici o greci, o latini, o italiani. E quell'ottimo vecchio conte di Canale, che mi affezionava, e moltissimo compativa i miei perditempi, mi propose piú volte d'introdurmivi. Ma io, oltre all'essere di natura ritrosa, era anche tutto ingolfato nel francese, e sprezzava ogni libro ed autore italiano. Onde quell'adunanza di letterati di libri classici mi parea dover essere una fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sà servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta all'autorità despotica da me sà caldamente abborrita. In tal guisa io andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore; e queste disparate accoppiandosi poi con le passioni naturali all'età di vent'anni e le loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e risibile.
Proseguii nel settembre il mio viaggio verso Praga e Dresda, dove mi trattenni da un mese; indi a Berlino, dove dimorai altrettanto. All'entrare negli stati del gran Federico, che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l'orrore per quell'infame mestier militare, infamissima e sola base dell'autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti. Fui presentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d'indegnazione bensà e di rabbia; moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere. Il conte di Finch, ministro del re, il quale mi presentava, mi domandò perché io, essendo pure in servizio del mio re, non avessi quel giorno indossato l'uniforme. Risposigli: "Perché in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza". Il re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l'osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi negli occhi; e ringraziai il cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii di quella universal caserma prussiana verso il mezzo novembre, abborrendola quanto bisognava.
Partito alla volta di Amburgo, dopo tre giorni di dimora, ne ripartii per la Danimarca. Giunto a Copenhaguen ai primi di decembre, quel paese mi piacque bastantemente, perché mostrava una certa somiglianza coll'Olanda; ed anche v'era una certa attività , commercio, ed industria, come non si sogliono vedere nei governi pretti monarchici: cose tutte, dalle quali ne ridonda un certo ben essere universale, che a primo aspetto previene chi arriva, e fa un tacito elogio di chi vi comanda; cose tutte, di cui neppur una se ne vede negli stati prussiani; benché il gran Federico vi comandasse alle lettere e all'arti e alla prosperità , di fiorire sotto l'uggia sua. Onde la principal ragione per cui non mi dispiacea Copenhaguen si era il non esser Berlino né Prussia; paese, di cui niun altro mi ha lasciato una piú spiacevole e dolorosa impressione, ancorché vi siano, in Berlino massimamente, molte cose belle e grandiose in architettura. Ma quei perpetui soldati, non li posso neppur ora, tanti anni dopo, ingoiare senza sentirmi rinnovare lo stesso furore che la loro vista mi cagionava in quel punto.
In quell'inverno mi rimisi alcun poco a cinguettare italiano con il ministro di Napoli in Danimarca, che si trovava essere pisano; il conte Catanti, cognato del celebre primo ministro in Napoli, marchese Tanucci, già professore nell'Università pisana. Mi dilettava molto il parlare e la pronunzia toscana, massimamente paragonandola col piagnisteo nasale e gutturale del dialetto danese che mi toccava di udire per forza, ma senza intenderlo, la Dio grazia. Io malamente mi spiegava col prefato conte Catanti, quanto alla proprietà dei termini, e alla brevità ed efficacia delle frasi, che è somma nei toscani; ma quanto alla pronunzia di quelle mie parole barbare italianizzate, ell'era bastantemente pura e toscana; stante che io deridendo sempre tutte le altre pronunzie italiane, che veramente mi offendeano l'udito, mi ero avvezzo a pronunziar quanto meglio poteva e la u, e la z, e gi, e ci, ed ogni altra toscanità . Onde alquanto inanimito dal suddetto conte Catanti a non trascurare una sà bella lingua, e che era pure la mia, dacché di essere io francese non acconsentiva a niun modo, mi rimisi a leggere alcuni libri italiani. Lessi, tra' molti altri, i Dialoghi dell'Aretino, i quali benché mi ripugnassero per le oscenità , mi rapivano pure per l'originalità , varietà , e proprietà dell'espressioni. E mi baloccava cosà a leggere, perché in quell'inverno mi toccò di star molto in casa ed anche a letto, atteso i replicati incomoducci che mi sopravvennero per aver troppo sfuggito l'amore sentimentale. Ripigliai anche con piacere a rileggere per la terza e quarta volta il Plutarco; e sempre il Montaigne; onde il mio capo era una strana mistura di filosofia, di politica, e di discoleria. Quando gl'incomodi mi permetteano d'andar fuori, uno dei maggiori miei divertimenti in quel clima boreale era l'andare in slitta; velocità poetica, che molto mi agitava e dilettava la non men celebre fantasia.
Verso il fin di marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund affatto libero dai ghiacci, indi la Scania libera dalla neve; tosto ch'ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo un ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i laghi rappresi, a segno che non potendo piú proseguire colle ruote, fui costretto di smontare il legno e adattarlo come ivi s'usa sopra due slitte; e cosà arrivai a Stockolm. La novità di quello spettacolo, e la greggia maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano; e benché non avessi mai letto l'Ossian, molte di quelle sue immagini mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte allorché piú anni dopo le lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti.
La Svezia locale, ed anche i suoi abitatori d'ogni classe, mi andavano molto a genio; o sia perché io mi diletto molto piú degli estremi, o altro sia ch'io non saprei dire; ma fatto si è, che s'io mi eleggessi di vivere nel settentrione, preferirei quella estrema parte a tutte l'altre a me cognite. La forma del governo della Svezia, rimestata ed equilibrata in un certo tal qual modo che pure una semilibertà vi trasparisce, mi destò qualche curiosità di conoscerla a fondo. Ma incapace poi di ogni seria e continuata applicazione, non la studiai che alla grossa. Ne intesi pure abbastanza per formare nel mio capino un'idea: che stante la povertà delle quattro classi votanti, e l'estrema corruzione della classe dei nobili e di quella dei cittadini, donde nasceano le venali influenze dei due corruttori paganti, la Russia e la Francia, non vi potea allignare né concordia fra gli ordini, né efficacità di determinazioni, né giusta e durevole libertà . Continuai il divertimento della slitta con furore, per quelle cupe selvone, e su quei lagoni crostati, fino oltre ai 20 di aprile; ed allora in soli quattro giorni con una rapidità incredibile seguiva il dimoiare d'ogni qualunque gelo, attesa la lunga permanenza del sole su l'orizzonte, e l'efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate forse in dieci strati l'una su l'altra, compariva la fresca verdura; spettacolo veramente bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi.
CAPITOLO NONO
Proseguimento di viaggi. Russia, Prussia di bel nuovo, Spa, Olanda e Inghilterra.
Io sempre incalzato dalla smania dell'andare, benché mi trovassi assai bene in Stockolm, volli partirne verso il mezzo maggio per la Finlandia alla volta di Pietroborgo. Nel fin d'aprile aveva fatto un giretto sino ad Upsala, famosa università , e cammin facendo aveva visitate alcune cave del ferro, dove vidi varie cose curiosissime; ma avendole poco osservate, e molto meno notate, fu come se non le avessi mai vedute. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell'entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l'inverno, dietro cui pareva ch'io avessi appostato di correre. Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest'entratura del suddetto golfo) attesa l'immobilità totale dell'acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là , e far crich, come dice il poeta nostro, quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d'intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e disseci il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io subito volli tentare, benché avendo una barca assai piú spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l'ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea piú robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E cosà per l'appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l'aspetto di quell'orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque; ma il vento essendo, la Dio mercè, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l'ascia, castigatrice d'ogni insolente. Piú d'una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll'impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò i...
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