[Pagina precedente]...e, pure la desiderava, come fine di dolore; perché quando era morto quel mio fratello minore avea sentito dire ch'egli era diventato un angioletto.
Per quanti sforzi io abbia fatto spessissimo per raccogliere le idee primitive, o sia le sensazioni ricevute prima de' sei anni, non ho potuto mai raccapezzarne altre che queste due. La mia sorella Giulia, ed io, seguitando il destino della madre, eramo passati dalla casa paterna ad abitare con lei nella casa del patrigno, il quale pure ci fu piú che padre per quel tempo che ci stemmo. La figlia ed il figlio del primo letto rimasti, furono successivamente inviati a Torino, l'uno nel collegio de' Gesuiti, l'altra nel monastero; e poco dopo fu anche posta in monastero, ma in Asti stessa, la mia sorella Giulia, essendo io vicino ai sett'anni. E di quest'avvenimento domestico mi ricordo benissimo, come del primo punto in cui le facoltà mie sensitive diedero cenno di sé. Mi sono presentissimi i dolori e le lagrime ch'io versai in quella separazione di tetto solamente, che pure a principio non impediva ch'io la visitassi ogni giorno. E speculando poi dopo su quegli effetti e sintomi del cuore provati allora, trovo essere stati per l'appunto quegli stessi che poi in appresso provai quando nel bollore degli anni giovenili mi trovai costretto a dividermi da una qualche amata mia donna; ed anche nel separarmi da un qualche vero amico, che tre o quattro successivamente ne ho pure avuti finora: fortuna che non sarà toccata a tanti altri, che gli avranno forse meritati piú di me. Dalla reminiscenza di quel mio primo dolore del cuore, ne ho poi dedotta la prova che tutti gli amori dell'uomo, ancorchè diversi, hanno lo stesso motore.
Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia ad un buon prete, chiamato Don Ivaldi, il quale m'insegnò cominciando dal compitare e scrivere, fino alla classe quarta, in cui io spiegava non male, per quanto diceva il maestro alcune vite di Cornelio Nipote, e le solite favole di Fedro. Ma il buon prete era egli stesso ignorantuccio, a quel ch'io combinai poi dopo; e se dopo i nov'anni mi avessero lasciato alle sue mani, verisimilmente non avrei imparato piú nulla. I parenti erano anch'essi ignorantissimi, e spesso udiva loro ripetere, quella usuale massima dei nostri nobili di allora: che ad un signore non era necessario di diventare un dottore. Io nondimeno aveva per natura una certa inclinazione allo studio, e specialmente dopo che uscí di casa la sorella, quel ritrovarmi in solitudine col maestro mi dava ad un tempo malinconia e raccoglimento.
CAPITOLO TERZO.
Primi sintomi di carattere appassionato.
Ma qui mi occorre di notare un'altra particolarità assai strana, quanto allo sviluppo delle mie facoltà amatorie. La privazione della sorella mi avea lasciato addolorato per lungo tempo, e molto piú serio in appresso. Le mie visite a quell'amata sorella erano sempre andate diradando, perché essendo sotto il maestro, e dovendo attendere allo studio, mi si concedeano solamente nei giorni di vacanza o di festa, e non sempre. Una tal quale consolazione di quella mia solitudine mi si era andata facendo sentire a poco a poco nell'assuefarmi ad andare ogni giorno alla chiesa del Carmine attigua alla nostra casa; e di sentirvi spesso della musica, e di vedervi uffiziare quei frati, e far tutte le cerimonie della messa cantata, processione e simili. In capo a piú mesi nonpensava piú tanto alla sorella, ed in capo a piú altri, non ci pensava quasi piú niente, e non desiderava altro che di esser condotto mattina e giorno al Carmine. Ed eccone la ragione. Dal viso di mia sorella in poi, la quale aveva circa nov'anni quando uscí di casa, non avea piú veduto altro viso di ragazza, né di giovane, fuorché certi fraticelli novizi del Carmine, che poteano avere tra i quattordici e sedici anni all'incirca, i quali coi loro roccetti assistevano alle diverse funzioni di chiesa; questi loro visi giovanili, e non dissimili da' visi donneschi, aveano lasciato nel mio tenero ed inesperto cuore a un di presso quella stessa traccia e quel desiderio di loro, che mi vi avea già impresso il viso della sorella. E questo insomma, sotto tanti e sí diversi aspetti, era amore; come poi pienamente conobbi, e me ne accertai parecchi anni dopo, riflettendovi su; perché di quanto io allora sentissi o facessi nulla affatto sapeva, ed obbediva al puro istinto animale. Ma questo mio innocente amore per quei novizi giunse tant'oltre, che io sempre pensava ad essi ed alle loro diverse funzioni; ora mi si rappresentavano nella fantasia coi loro devoti ceri in mano, servienti la messa con viso compunto ed angelico, ora coi turiboli incensando l'altare; e tutto assorto in codeste immagini, trascurava i miei studi, ed ogni occupazione, o compagnia, mi noiava. Un giorno fra gli altri, stando fuori di casa il mio maestro, trovatomi solo in camera, cercai ne' due vocabolari latino e italiano l'articolo frati, e cassata in ambedue quella parola, vi scrissi Padri: cosí credendomi di nobilitare, o che so io d'altro, quei novizietti, ch'io vedeva ogni giorno, e da cui non sapeva assolutamente quello ch'io mi volessi. L'aver sentito alcune volte con qualche disprezzo articolare la parola Frate, e con rispetto ed amore quella di Padre, erano la sola cagione per cui m'indussi a correggere quei dizionari: e codeste correzioni fatte anche grossolanamente col temperino e la penna, le nascosi poi sempre con gran sollecitudine e timore al maestro, il quale non se ne dubitando, né a tal cosa certamente pensando, non se n'avvide poi mai. Chiunque vorrà riflettere alquanto su quest'inezia, e rintracciarvi il seme delle passioni dell'uomo, non la troverà forse né tanto risibile né tanto puerile, quanto ella pare.
Da questi siffatti effetti d'amore ingnoto intieramente a me stesso, ma pure tanto operante nella mia fantasia, nasceva, per quanto ora credo, quell'umor malinconico assai, che a poco a poco s'insignoriva di me, e dominava poi sempre su tutte le altre qualità dell'indole mia. Fra i sette ed ott'anni, trovandomi un giorno in queste disposizioni malinconiche, occasionate forse anche dalla salute che era gracile anzi che no, visto uscire il maestro, e il servitore, corsi fuori dal mio salotto che posto a terreno riusciva in un secondo cortile, dove eravi intorno intorno molt'erba. E tosto mi misi a strapparne colle mani quanta ne veniva, e ponendomela in bocca a masticarne e ingoiarne quanta piú ne poteva, malgrado il sapore ostico ed amarissimo. Io avea sentito dire non so da chi, né come, né quando, che v'era un'erba detta cicuta che avvelenava e faceva morire; io non avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse; eppure, seguendo cosí un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui m'era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a mangiar di quell'erba, figurandomi che in essa vi dovesse anco essere della cicuta. Ma ributtato poi dall'insopportabile amarezza e crudità d'un tal pascolo, e sentendomi provocato a dare di stomaco, fuggii nell'annesso giardino, dove non veduto da chi che sia mi liberai quasi interamente di tutta l'erba ingoiata, e tornatomene in camera me ne rimasi soletto e tacito con qualche doloruzzo di stomaco e di corpo. Tornò frattanto il maestro, che di nulla si avvide, ed io nulla dissi. Poco dopo si dovè andare a tavola, e mia madre vedendomi gli occhi gonfi e rossi, come sogliono rimanere dopo gli sforzi del vomito, domandò insistendo e volle assolutamente sapere quel che fosse; ed oltre i comandi della madre mi andavano anche sempre piú punzecchiando i dolori di corpo, sí ch'io non potea punto mangiare, e parlar non voleva. Onde io sempre duro a tacere, ed a vedere di non mi scontorcere, la madre sempre dura ad interrogare e minacciarmi; finalmente osservandomi essa ben bene, e vedendomi in atto di patire, e poi le labbra verdiccie, che io non avea pensato di risciacquarmele, spaventatasi molto, s'alza, si approssima a me, mi parla dell'insolito color delle labbra, m'incalza e sforza a rispondere, finchè vinto dal timore e dolore io tutto confesso piangendo. Mi vien dato subito un qualche leggiero rimedio, e nessun altro male ne segue; fuorché per piú giorni fui rinchiuso in camera per castigo; e quindi nuovo pascolo, e fomento all'umor malinconico.
CAPITOLO QUARTO.
Sviluppo dell'indole indicato da alcuni fattarelli.
L'indole, che io andava manifestando in quei primi anni della nascente ragione, era questa. Taciturno e placido per lo piú; ma alle volte loquacissimo e vivacissimo; e quasi sempre negli estremi contrari; ostinato e restío contro alla forza, pieghevolissimo agli avvisi amorevoli; rattenuto piú che da nessun'altra cosa di essere sgridato; suscettibile di vergognarmi fino all'eccesso, e inflessibile se io veniva preso a ritroso.
Ma per meglio dar conto ad altrui e a me stesso di quelle qualità primitive, che la natura mi avea improntate nell'animo, fra molte sciocche istoriette accadutemi in quella prima età, ne allegherò due o tre di cui mi ricordo benissimo e che ritrarranno al vivo il mio carattere. Di quanti gastighi mi si potessero dare, quello che smisuratamente mi addolorava, e da segno di farmi ammalare, e che perciò non mi fu dato che due volte sole, era di mandarmi alla messa colla reticella da notte in capo; assetto che nasconde quasi interamente i capelli. La prima volta ch'io ci fui condannato (né mi ricordo piú del perché) venni dunque strascinato per mano dal maestro alla vicinissima Chiesa del Carmine; chiesa abbandonata, dove non si trovavano mai quaranta persone radunate nella sua vastità: tuttavia sí fattamente mi afflisse codesto gastigo, che per piú di tre mesi poi rimasi irreprensibile. Tra le ragioni ch'io sono andato cercando in appresso entro di me medesimo, per ben conoscere il fonte d'un simile effetto, due principalmente ne trovai, che mi diedero intiera soluzione del dubbio. L'una si era, che io mi credeva gli occhi di tutti doversi necessariamente affissare su quella mia reticella, e ch'io doveva esser molto sconcio e difforme in codesto assetto, e che tutti mi terrebbero per un vero malfattore vedendomi punito cosí orribilmente. L'altra, si era ch'io temeva di esser visto cosí dagli amati novizi; e questo mi passava veramente il cuore. Or mira, o lettore, in me omiccino il ritratto e tuo e di quanti anche uomoni sono stati o saranno; che tutti siam pur sempre, a ben prendere, bambini perpetui.
Ma l'effetto straordinario in me cagionato da quel gastigo, avea riempito di gioia i miei parenti e il maestro; onde ad ogni ombra di mancamento, minacciatami la reticella abborrita, io rientrava immediatamente nel dovere, tremando. Pure, essendo poi ricaduto al fine in un qualche fallo insolito, per iscusa del quale mi occorse di articolare una solennissima bugia alla signora madre, mi fu di bel nuovo sentenziata la reticella; e di piú, che in vece della deserta Chiesa del Carmine, verrei condotto cosí a quella di S. Martino, distante da casa, posta nel bel centro della città e frequentatissima su l'ora del mezzo giorno da tutti gli oziosi del bel mondo. Oimè, qual dolore fu il mio! pregai, piansi, mi disperai, tutto invano. Quella notte ch'io mi credei dover essere l'ultima della mia vita, non che chiudessi mai occhio, non mi ricordo mai poi di averne in nessun altro mio dolore passata una peggio. Venne alfin l'ora; inreticellato, piangente, ed urlante mi avviai stiracchiato dal maestro pel braccio, e spinto innanzi dal servitore per di dietro, e in tal modo traversai due o tre strade, dove non era gente nessuna; ma tosto che si entrò nelle vie abitate, che s'avvicinavano alla piazza e chiesa di San Martino, io immediatamente cessai dal piangere e dal gridare, cessai dal farmi strascinare; e camminando anzi tacito, e di buon passo, e ben rasente al prete Ivaldi, sperai di passare inosservato, nascondendomi quasi sotto il gomito del talare maestro, al di cui fianco appena la mia statura giungeva. Arrivai nella piena chiesa, gu...
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