[Pagina precedente]...o di quanto sapeva, e di quel che temeva.
Io dunque, dopo una sà penosa giornata, rinfrancato da molte ore di placidissimo sonno, rimedicate alle meglio le mie due ferite, di cui quella della spalla mi dolea piú che mai, e l'altra sempre meno, subito corsi dalla mia donna, e vi passai tutto intero quel giorno. Per via dei servitori si andava sentendo quello che faceva il marito, la di cui casa, come dissi, era assai vicina di quella della cognata, dove abitava per allora la mia donna. E benché io riputassi in me stesso ogni nostro guai terminato col prossimo divorzio; e ancorché il padre di lei (persona a me già notissima da piú anni) fosse venuto in quel giorno del mercoledà a veder la figlia, e nella di lei disgrazia si congratulasse pur seco, che almeno ad uom degno (cosà volle dire) le toccasse di riunirsi in un secondo matrimonio; con tutto ciò io scorgeva una foltissima nube su la bellissima fronte della mia donna, che un qualche sinistro mi vi parea presagire. Ed ella, sempre piangente, e sempre protestandomi che mi amava piú d'ogni cosa; che lo scandalo dell'avvenimento suo e il disonore che glie ne ridondava nella di lei patria, le venivano largamente compensati s'ella potea pur vivere per sempre con me; ma ch'ella era piú che certa che io non l'avrei mai presa per moglie mia. Questa sua perseverante e stranissima asserzione mi disperava veramente; e sapendo io benissimo ch'ella non mi reputava né mentitore né simulato, non poteva assolutamente intendere questa sua diffidenza di me. In queste funeste perplessità , che purtroppo turbavano ed annichilivano ogni mia soddisfazione del vederla liberamente dalla mattina alla sera; ed inoltre fra le angustie d'un processo già intavolato ed assai spiacente per chiunque abbia onore e pudore; cosà si passarono i tre giorni dal mercoledà a tutto il venerdÃ, finché il venerdà sera insistendo io fortemente per estrarre dalla mia donna una qualche piú luce nell'orrido enimma dei di lei discorsi, delle sue malinconie, e diffidenze; finalmente con grave e lungo stento, previo un doloroso proemio interrotto da sospiri e singhiozzi amarissimi, ella mi veniva dicendo che sapea purtroppo non poter essere in conto nessuno omai degna di me; e che io non la dovea né poteva né vorrei sposar mai... perché già prima... di amar me... ella avea amato... "E chi mai?" soggiungeva io interrompendo con impeto. "Un jockey" (cioè un palafreniere) "che stava... in casa... di mio marito." "Ci stava? e quando? Oh Dio, mi sento morire! Ma perché dirmi tal cosa? crudel donna; meglio era uccidermi." Qui mi interrompe ancor essa; e a poco a poco alla per fine esce l'intera confessione sozzissima di quel brutto suo amore; di cui sentendo io le dolorose incredibili particolarità , gelido, immobile, insensato mi rimango qual pietra. Quel mio degnissimo rival precursore stava tuttavia in casa del marito in quel punto in cui si parlava; egli era stato quello che avea primo spiato gli andamenti della amante padrona; egli avea scoperto la mia prima gita in villa, e il cavallo lasciato tutta notte nell'albergo di campagna; ed egli con altri di casa, mi avea poi visto e conosciuto nella seconda gita fatta in villa la domenica sera. Egli finalmente, udito il duello del marito con me, e la disperazione di esso di dover far divorzio con una donna ch'egli mostrava amar tanto, si era indotto nel giorno del giovedà a farsi introdurre presso al padrone, e per disingannar lui, vendicar sé stesso, e punire la infida donna e il nuovo rivale, quell'amante palafreniere avea spiattellatamente confessato e individuato tutta la storia de' suoi triennali amori con la padrona, ed esortato avea caldamente il padrone a non si disperar piú a lungo per aver perduta una tal moglie, il che si dovea anzi recare a ventura. Queste orribili e crudeli particolarità , le seppi dopo; da essa non seppi altro che il fatto, e menomato quanto piú si potea.
Il mio dolore e furore, le diverse mie risoluzioni, e tutte false e tutte funeste e tutte vanissime ch'io andai quella sera facendo e disfacendo, e bestemmiando, e gemendo, e ruggendo, ed in mezzo a tant'ira e dolore amando pur sempre perdutamente un cosà indegno oggetto; non si possono tutti questi affetti ritrarre con parole: ed ancora vent'anni dopo mi sento ribollire il sangue pensandovi.
La lasciai quella sera, dicendole: ch'ella troppo bene mi conosceva nell'avermi detto e replicato sà spesso che io non l'avrei mai fatta mia moglie; e che se io mai fossi venuto in chiaro di tale infamia dopo averla sposata, l'avrei certamente uccisa di mia mano, e me stesso forse sovr'essa, se pure l'avessi ancor tanto amata in quel punto, quanto purtroppo in questo l'amava. Aggiunsi che io pure la dispregiava un po' meno, per l'aver essa avuto la lealtà e il coraggio di confessarmi spontaneamente tal cosa; che non l'abbandonerei mai come amico, e che in qualunque ignorata parte d'Europa o d'America io era pronto ad andare con essa e conviverci, purch'essa non mi fosse né paresse mai d'esser moglie.
Cosà lasciatala il venerdà sera, agitato da mille furie alzatomi all'alba del sabato, e vistomi sul tavolino uno di quei tanti foglioni pubblici che usano in Londra, vi slancio cosà a caso i miei occhi, e la prima cosa che mi vi capita sotto è il mio nome. Gli spalanco, leggo un ben lunghetto articolo, in cui tutto il mio accidente è narrato, individuato minutamente e con verità , e vi imparo di piú le funeste e risibili particolarità del rivale palafreniere, di cui leggo il nome, l'età , la figura, e l'ampissima confessione da lui stesso fatta al padrone. Io ebbi a cader morto ad una tal lettura; ed allora soltanto riacquistando la luce della mente, mi avvidi e toccai con mano, che la perfida donna mi avea spontaneamente confessato ogni cosa dopo che il gazzettiere, in data del venerdà mattina, l'avea confessata egli al pubblico. Perdei allora ogni freno e misura, corsi a casa sua, dove dopo averla invettivata con tutte le piú amare furibonde e spregianti espressioni, miste sempre di amore, di dolor mortalissimo, e di disperati partiti, ebbi pure la vile debolezza di ritornarvi qualche ore dopo averle giurato ch'ella non mi rivedrebbe mai piú. E tornatovi, mi vi trattenni tutto quel giorno; e vi tornai il susseguente, e piú altri, finché risolvendosi essa di uscir d'Inghilterra, dove ell'era divenuta la favola di tutti, e di andare in Francia a porsi per alcun tempo in un monastero, io l'accompagnai, e si errò intanto per varie provincie dell'Inghilterra per prolungare di stare insieme, fremendo io e bestemmiando dell'esservi, e non me ne potendo pure a niun conto separare. Colto finalmente un istante in cui poté piú la vergogna e lo sdegno che l'amore, la lasciai in Rochester, di dove essa con quella di lei cognata si avviò per Douvres in Francia, ed io me ne tornai a Londra.
Giungendovi seppi che il marito avea proseguito il processo divorziale in mio nome, e che in ciò mi avea accordata la preferenza sul nostro triumviro terzo, il proprio palafreniere, che anzi gli stava ancora in servizio, tanto è veramente generosa ed evangelica la gelosia degli inglesi. Ma ed io pure mi debbo non poco lodare del procedere di quell'offeso marito. Non mi volle uccidere, potendolo verisimilmente fare; né mi volle multare in danari, come portano le leggi di quel paese, dove ogni offesa ha la sua tariffa, e le corna ve l'hanno altissima; a segno che s'egli in vece di farmi cacciare la spada mi avesse voluto far cacciar la borsa, mi avrebbe impoverito o dissestato di molto; perché tassandosi l'indennità in proporzione del danno, egli l'avea ricevuto sà grave, atteso l'amore sviscerato ch'egli portava alla moglie, ed atteso anche l'aggiunta del danno recatogli dal palafreniere, che per essere nullatenente non glie l'avrebbe potuto ristorare, ch'io tengo per fermo che a recarla a zecchini io non ne sarei potuto uscir netto a meno di dieci o dodici mila zecchini, e forse anche piú. Quel bennato e moderato giovine si comportò dunque meco in questo sgradevole affare assai meglio ch'io non avea meritato. E proseguitosi in mio nome il processo, la cosa essendo troppo palpabile dai molti testimoni, e dalle confessioni dei diversi personaggi, senza neppure il mio intervento, né il menomo impedimento alla mia partenza dall'Inghilterra, seppi poi dopo ch'era stato ratificato il totale divorzio.
Indiscretamente forse, ma pure a bell'apposta ho voluto sminuzzare in tutti i suoi amminicoli questo straordinario e per me importante accidente, sà perché se ne fece gran rumore in quel tempo, sà perché essendo stata questa una delle principali occasioni in cui mi è venuto fatto di ben conoscere e porre alla prova diversamente me stesso, mi è sembrato che analizzandolo con verità e minutezza verrei anche a dar luogo a chi volesse piú intimamente conoscermi, di ritrovarne in questo fatto un ampissimo mezzo.
CAPITOLO DUODECIMO
Ripreso il viaggio in Olanda, Francia, Spagna, Portogallo, e ritorno in patria.
Dopo aver sopportata una sà feroce borrasca, non potendo io piú trovar pace finché mi cadeano giornalmente sotto gli occhi quei luoghi stessi ed oggetti, mi lasciai facilmente persuadere da quei pochi che sentivano una qualche amichevole pietà del mio violentissimo stato, e mi indussi al partire. Lasciai dunque l'Inghilterra verso il finir di giugno, e cosà infermo di animo come io mi sentiva, ricercando pur qualche appoggio, volli dirigere i miei primi passi verso l'amico D'Acunha in Olanda. Giunto nell'Haia, alcune settimane mi trattenni con lui, e non vedeva assolutamente altri che lui solo; ed egli alcun poco mi consolava; ma era profondissima la mia piaga. Sentendomi dunque di giorno in giorno anzi crescere la malinconia che scemare, e pensando che il moto machinale, e la divagazione inseparabile dal mutar luogo continuamente ed oggetti, mi dovrebbero giovare non poco, mi rimisi in viaggio alla volta di Spagna; gita che fin da prima mi era prefisso di fare, essendo quel paese quasi il solo dell'Europa che mi rimanesse da vedere. Avviatomi verso Brusselles per luoghi che rinacerbivano sempre piú le ferite del mio troppo lacerato cuore, massimamente allorché io metteva a confronto quella mia prima fiamma olandese con questa seconda inglese, sempre fantasticando, delirando, piangendo e tacendo, arrivai finalmente soletto in Parigi. Né quella immensa città mi piacque piú in questa seconda visita che nella prima; né punto né poco mi divagò. Ci stetti pure circa un mese per lasciare sfogare i gran caldi prima d'ingolfarmi nelle Spagne. In questo mio secondo soggiorno in Parigi avrei facilmente potuto vedere ed anche trattare il celebre Gian-Giacomo Rousseau, per mezzo d'un italiano mio conoscente che avea contratto seco una certa familiarità , e dicea di andar egli molto a genio al suddetto Rousseau. Quest'italiano mi ci volea assolutamente introdurre, entrandomi mallevadore che ci saremmo scambievolmente piaciuti l'uno l'altro, Rousseau ed io. Ancorché io avessi infinita stima del Rousseau piú assai per il suo carattere puro ed intero e per la di lui sublime e indipendente condotta, che non pe' suoi libri, di cui que' pochi che avea potuti pur leggere mi aveano piuttosto tediato come figli di affettazione e di stento; con tutto ciò, non essendo io per mia natura molto curioso, né punto sofferente, e con tanto minori ragioni sentendomi in cuore tanto piú orgoglio e inflessibilità di lui; non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad un uomo superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta una mezza scortesia glie n'avrei restituite dieci, perché sempre cosà ho operato per istinto ed impeto di natura di rendere con usura sà il male che il bene. Onde non se ne fece altro.
Ma in vece del Rousseau, intavolai bensà allora una conoscenza per me assai piú importante con sei o otto dei primi uomini dell'Italia e del mondo. Comprai in Parigi una raccolta dei principali poeti e prosatori italiani in trentasei volumi di picciol sesto, e di graziosa stampa, dei quali neppur uno me ne trovava ave...
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