AUTOBIOGRAFIA, di Vittorio Alfieri - pagina 1
Vittorio Alfieri
Pianta effimera noi, cos'è il vivente?
Cos'è l'estinto? - Un sogno d'ombra è l'uomo.
PINDARO, Pizia VII, V.
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Parte prima
INTRODUZIONE
Plerique suam ipsi vitam narrare, fiduciam
potius morum, quam arrogantiam, arbitrati sunt.
Tacito, Vita di Agricola
Io perciò ingenuamente confesso, che allo stendere la mia propria vita inducevami, misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie piú gagliardo d'ogni altra, l'amore di me medesimo: quel dono cioè, che la natura in maggiore o minor dose concede agli uomini tutti, ed in soverchia dose agli scrittori, principalissimamente poi ai poeti, od a quelli che tali si tengono.
Ed è questo dono una preziosissima cosa; poiché da esso ogni alto operare dell'uomo proviene, allor quando all'amor di sé stesso congiunge una ragionata cognizione dei propri suoi mezzi, ed un illuminato trasporto pel vero ed bello, che non son se non uno.
Senza proemizzare dunque piú a lungo sui generali, io passo ad assegnare le ragioni per cui questo mio amor di me stesso mi trasse a ciò fare: e accennerò quindi il modo con cui mi propongo di eseguir questo assunto.
Avendo io oramai scritto molto, e troppo piú forse che non avrei dovuto, è cosa assai naturale che alcuni di quei pochi a chi non saranno dispiaciute le mie opere (se non tra' miei contemporanei tra quelli almeno che vivran dopo) avranno qualche curiosità di sapere qual io mi fossi.
Io ben posso ciò credere, senza neppur troppo lusingarmi, poichè, di ogni altro autore anche minimo quanto al valore, ma voluminoso quanto all'opere, si vede ogni giorno e scrivere e leggere, o vendere almeno la vita.
Onde quand'anche nessun'altra ragione vi fosse, è certo pur sempre che, morto io, un qualche libraio per cavare alcuni piú soldi da una nuova edizione delle mie opere, ci farà premettere una qualunque mia vita.
E quella, verrà verisimilmente scritta da uno che non mi aveva o niente o mal conosciuto, e che avrà radunato le materie di essa da fonti o dubbi o parziali; onde codesta vita per certo verrà ad essere, se non altro, alquanto meno verace di quella che posso dar io stesso.
E ciò tanto piú, perché lo scrittore a soldo dell'editore suol sempre fare uno stolto panegirico dell'autore che si ristampa, stimando amendue di dare cosí piú ampio smercio alla loro comune mercanzia.
Affinchè questa mia vita venga dunque tenuta per meno cattiva e alquanto piú vera, e non meno imparziale di qualunque altra, verrebbe scritta da altri dopo di me; io, che assai piú largo mantenitore che non promettitore fui sempre, m'impegno qui con me stesso, e con chi vorrà leggermi, di disappassionarmi per quanto all'uomo sia dato; e mi vi impegno, perché esaminatomi e conosciutomi bene, ho ritrovato, o mi pare, essere in me di alcun poco maggiore la somma del bene a quella del male.
Onde, se io non avrò forse il coraggio o l'indiscrezione di dir di me tutto il vero, non avrò certamente la viltà di dir cosa che vera non sia.
Quanto poi al metodo, affine di tediar meno il lettore, e dargli qualche riposo e anche i mezzi di abbreviarsela col tralasciare quegli anni di essa che gli parranno meno curiosi; io mi propongo di ripartirla in cinque Epoche, corrispondenti alle cinque età dell'uomo e da esse intitolarne le divisioni: puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità e vecchiaia.
Ma già dal modo con cui le tre prime parti e piú che mezza la quarta mi son venute scritte, non mi lusingo piú oramai di venire a capo di tutta l'opera con quella brevità, che piú d'ogni altra cosa ho sempre nelle altre mie opere adottata o tentata; e che tanto piú lodevole e necessaria forse sarebbe stata nell'atto, di parlar di me stesso.
Onde tanto piú, temo che nella quinta parte (ove pure il mio destino mi voglia lasciar invecchiare) io non abbia di soverchio a cader nelle chiacchiere, che sono l'ultimo patrimonio di quella debole età.
Se dunque, pagando io in ciò, come tutti, il suo diritto a natura, venissi nel fine a dilungarmi indiscretamente, prego anticipatamente il lettore di perdonarmelo, sí; ma, di castigarmene a un tempo stesso, col non leggere quell'ultima parte.
Aggiungerò, nondimeno, che nel dire io che non mi lusingo di essere breve anche nelle quattro prime parti, quanto il dovrei e vorrei, non intendo perciò di permettermi delle risibili lungaggini accennando ogni minuzia; ma intendo di estendermi su molte di quelle particolarità, che, sapute, contribuir potranno allo studio dell'uomo in genere; della qual pianta non possiamo mai individuare meglio i segreti che osservando ciascuno sé stesso.
Non ho intenzione di dar luogo a nessuna di quelle altre particolarità che potranno risguandare altre persone, le di cui peripezie si ritrovassero, per cosí dire, intarsiate con le mie: stante che i fatti miei bensí, ma non già gli altrui, mi propongo di scrivere.
Non nominerò dunque quasi mai nessuno individuandone il nome, se non se nelle cose indifferenti o lodevoli.
Allo studio dunque dell'uomo in genere è principalmente diretto lo scopo di quest'opera.
E di qual uomo si può egli meglio e piú dottamente parlare, che di sé stesso? quale altro ci vien egli venuto fatto di maggiormente studiare? di piú addentro conoscere? di piú esattamente pesare? essendo, per cosí dire, nelle piú intime di lui viscere vissuto tanti anni?
Epoca Prima
PUERIZIA
ABBRACCIA i primi nove anni nella casa materna
CAPITOLO PRIMO
Nascita e parenti.
Nella città d'Asti in Piemonte, il dí 17 di gennaio dell'anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti.
Il nascere della classe dei nobili, mi giovò appunto moltissimo per poter poi, senza la taccia di invidioso e di vile, dispregiare la nobiltà di per sé sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi ed i vizi; ma nel tempo stesso mi giovò non poco la utile e sana influenza di essa, per non contaminare mai in nulla la nobiltà dell'arte ch'io professava.
Il nascere agiato, mi fece libero e puro; né mi lasciò servire ad altri che al vero.
L'onestà, dei parenti fece sí, che non ho dovuto mai arrossire dell'esser io nobile.
Onde, qualunque di queste tre cose fosse mancata ai miei natali, ne sarebbe di necessità venuto assai minoramento alle diverse mie opere; a sarei quindi stato per avventura o peggior filosofo, o peggior uomo, di quello che forse non sarò stato.
Il mio padre chiamavasi Antonio Alfieri; la madre, Monica Maillard di Tournon.
Era questa di origine savoiarda, come i barbari di lei cognomi dimostrano: ma i suoi erano già da gran tempo stabiliti in Torino.
Il mio padre era un uomo purissimo di costumi, vissuto sempre senza impiego nessuno, e non contaminato da alcuna ambizione; secondo che ho inteso dir sempre da chi l'avea conosciuto.
Provveduto di beni di fortuna sufficienti al suo grado, e di una giusta moderazione nei desideri, egli visse bastantemente felice.
In età di oltre cinquantacinque anni invaghitosi di mia madre, la quale, benchè giovanissima, era allora già vedova del marchese di Cacherano, gentiluomo astigiano, la sposò.
Una figlia femmina che avea di quasi due anni preceduto il mio nascimento, avea piú che mai invogliato e insperanzito il mio buon genitore di aver prole maschia: onde fu oltre modo festeggiato il mio arrivo.
Non so se egli si rallegrasse di questo come padre attempato, o come cavaliere assai tenero del nome suo e della perpetuità di sua stirpe: crederei che di questi due affetti si componesse in parte eguale la di lui gioia.
Fatto si è, che datomi ad allattare in un borghetto distante circa due miglia da Asti, chiamato Rovigliasco, egli quasi ogni giorno ci veniva a piedi e vedermivi, essendo uomo alla buona e di semplicissime maniere.
Ma ritrovandosi già oltre l'anno sessagesimo di sua età, ancorchè fosse vegeto e robusto, tuttavia quello strapazzo continuo, non badando egli né a rigor di stagione né ad altro, fe' sí che riscaldatosi un giorno oltre modo in quella sua periodica visita che mi faceva, si prese una puntura di cui in pochi giorni morí.
Io non compiva allora per anco il primo anno della mia vita.
Rimase mia madre incinta di un altro figlio maschio, il quale morí poi nella sua prima età.
Le restavano dunque un maschio e una femmina di mio padre, e due femmine ed un maschio del di lei primo marito, marchese di Cacherano.
Ma essa, benchè vedova due volte, trovandosi pure assai giovine ancora, passò alle terze nozze col cavaliere Giacinto Alfieri di Magliano, cadetto di una casa dello stesso nome della mia, ma di altro ramo.
Questo cavaliere Giacinto, per la morte poi del di lui primogenito che non lasciò figli, divenne col tempo erede di tutto il suo, e si ritrovò agiatissimo.
La mia ottima madre trovò una perfetta felicità con questo cavalier Giacinto, che era di età all'incirca alla sua, di bellissimo aspetto, di signorili ed illibati costumi: onde ella visse in una beatissima ed esemplare unione con lui; e ancora dura, mentre io sto scrivendo questa mia vita in età di anni quarantuno.
Onde da piú di 37 anni vivono questi due coniugi vivo esempio di ogni virtú domestica, amati, rispettati, e ammirati da tutti i loro concittadini; e massimamente mia madre, per la sua ardentissima eroica pietà con cui si è assolutamente consecrata al sollievo e servizio dei poveri.
Ella ha successivamente in questo decorso di tempo perduti e il primo maschio del primo marito e la seconda femmina; cosí pure i due soli maschi del terzo, onde nella sua ultima età io solo di maschi le rimango; e per le fatali mie circostanze non posso star presso di lei; cosa di cui mi rammarico spessissimo: ma assai piú mi dorrebbe, ed a nessun conto ne vorrei stare continuamente lontano, se non fossi ben certo ch'ella e nel suo forte e sublime carattere, e nella sua vera pietà ha ritrovato un amplissimo compenso a questa sua privazione dei figli.
Mi si perdoni questa forse inutile digressione, in favor di una madre stimabilissima.
CAPITOLO SECONDO
Reminiscenze dell'infanzia.
Ripigliando adunque a parlare della mia primissima età, dico che di quella stupida vegetazione infantile, non mi è rimasta altra memoria se non se quella d'uno zio paterno, il quale avendo io tre anni in quattr'anni, mi facea por ritto su un antico cassettone, e quivi molto accarezzandomi mi dava degli ottimi confetti.
Io non mi ricordava quasi punto di lui, né altro me n'era rimasto fuorch'egli portava certi scarponi riquadrati in punta.
Molti anni dopo, la prima volta che mi vennero agli occhi certi stivali a tromba, che portano pure la scarpa quadrata a quel modo stesso dello zio morto già da gran tempo, né mai piú veduto da me da che io aveva uso di ragione, la subitanea vista di quella forma di scarpe del tutto oramai disusata, mi richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitive ch'io aveva provate già nel ricevere le carezze e i confetti dello zio, di cui i moti ed i modi, ed il sapore perfino dei confetti mi si riaffacciavano vivissimamente ed in un subito nella fantasia.
Mi sono lasciata uscir di penna questa puerilità, come non inutile affatto a chi specula sul meccanismo delle nostre idee, e sull'affinità dei pensieri colle sensazioni.
Nell'età di cinque anni circa, dal mal de' pondi fui ridotto in fine; e mi pare di aver nella mente tuttavia un certo barlume de' miei patimenti; e che senza aver idea nessuna di quello che fosse la morte, pure la desiderava, come fine di dolore; perché quando era morto quel mio fratello minore avea sentito dire ch'egli era diventato un angioletto.
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