DUECENTO SONETTI, di Giuseppe Gioachino Belli - pagina 1
DUECENTO SONETTI
in dialetto romanesco
di
GIUSEPPE GIOACHINO BELLI
con prefazione e note di
LUIGI MORANDI
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PRIMA EDIZIONE FIORENTINA
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FIRENZE
G.
BARBÈRA EDITORE
-
1870
AI ROMANI CHE VENDICHERANNO
L'ONTE NUOVE DEL VECCHIO SERVAGGIO
QUESTE SATIRE
DEL LORO POETA
DEDICA
IL RACCOGLITORE
I.
Dalla distruzione di esseri viventi rinascono altri esseri; dalla morte, la vita: è questo il fenomeno per cui si perpetua e quasi s'indìa la materia.
Codesto fenomeno si ripete anche nel mondo morale.
"Le lettere (disse Cesare Balbo) si nutrono di fatti gravi, importanti, da discutere, o narrare, o ritrarre in qualunque modo di prosa o poesia; ondechè, cessando ovvero i fatti, ovvero la libertà del discuterli o narrarli o ritrarli, ovvero peggio ed insieme i fatti grandi e la libertà, cessa il cibo, il sangue, la vita delle lettere; elle languono, si spossano, infermano talora fino a morte."(1) A confermare queste parole del Balbo sta il fatto, oramai incontrastato, della decadenza delle lettere latine dalla fondazione dell'Impero in poi, e delle italiane, dopo la caduta delle repubbliche medioevali.
Ma nel mentre l'eloquenza, la poesia epica, tragica o lirica, vivono, può dirsi assolutamente, della libertà, la satira de' costumi e quella politica nascono e prosperano quando la libertà sta perdendosi o si è in tutto perduta; hanno vita insomma dalla morte d'ogni altro genere di letteratura.
La satira de' costumi precede sempre quella politica: Orazio viene prima di Persio e di Giovenale; Parini prima di Giusti.
Nè potrebbe essere altrimenti, perocchè il declinare della privata e pubblica moralità è certo indizio di vicina tirannide.
Fortuna simul cum moribus immutatur lo ha detto un giudice competente: il vizioso Sallustio, che assisteva al suicidio di Roma.
I popoli grandi, virtuosi, incorrotti, non si domano, non si comprano.
Innanzi che Roma si vendesse a Giulio Cesare, sulle porte di lei aveva letto Giugurta l'Est locanda.
Giovanni Villani, Dante, Savonarola, quando inveivano contro il lusso, l'immodestia, le libidini dei Fiorentini, rimpiangendo i buoni tempi di quel de' Nerli e quel del Vecchio, le cui donne stavano contente al fuso e al pennecchio, erano altrettanti profeti che prevedevano la rovina della patria nella morte de' modesti costumi.
Laonde, ben a ragione si disse, che il tiranno è sempre lo specchio fedele de' milioni di sudditi che gli stan sotto, e che son degni di lui.
La satira de' costumi è il canto funebre, la nenia della libertà morente; la satira politica ne è l'epicedio, l'elegia vendicatrice.
Talvolta, la seconda va accompagnata alla prima, come in Persio e in Giovenale; poi che il poeta si avvede che la tirannide viene dal basso più che dall'alto, che gli uomini, se non fossero evirati dal vizio, scuoterebbero il giogo.
Allora egli flagella a sangue i viziosi colla sferza tremenda del ridicolo, e la sua beffa morde e strazia, e dal riso è capace di farti rompere in uno scoppio di pianto rabbioso...
Potenza dell'arte, che ha virtù di rifarci bambini!
Pertanto, la satira politica, - sia che coprasi del velo dell'allegoria, come ci dicono gl'indianisti, nelle favole del Pancha tantra,(2) od in alcune di Esopo(3) e di altri; sia che faccia capolino frammezzo alle scene; sia che vesta panni tutti propri, - è sempre figlia della tirannide; ma insieme è il serpe che questa s'alleva nel seno; è il tarlo che rode lentamente il trono del despota; è la voce tremenda della virtù oltraggiata e concussa, che invoca ed affretta il giorno, dell'ira!(4)
Veramente, se le lettere debbono pur servire a qualche cosa, io non so quale altro ramo di esse possa reggere per l'utilità e per l'importanza al confronto della satira.
Le dolci inspirazioni dei nostri cento poeti potranno allietarci e render più belli i giorni felici della libertà; ma il sarcasmo di Giusti era cote che ci affilava l'anima nello sdegno, e ci veniva compagno e conforto nella sventura.
Alle prime aure di libertà, mentre ogn'altro genere di poesia e di prosa risorge, la satira politica va lentamente mancando; intisichisce, come pianta posta in terreno non suo; diventa rettorica, e che Dio ce ne liberi!
II.
Ciò posto, ognun vede quanto propizio terreno sia Roma per la satira.
Laggiù, essa può ferire a doppio taglio: sul dispotismo politico e su quello religioso.
Il lusso smodato della corte, i privilegi, gli abusi, l'ignoranza di quell'immoralissimo governo, i birri, le spie, la censura, il servidorame, l'intolleranza politica e religiosa, il concubinato dell'alto clero, la feroce persecuzione contro ogni libera idea, l'aborrimento d'ogni cosa nuova, tuttochè utile e ragionevole, sono altrettanti argomenti che si presentano di per sè al poeta satirico.
Ed infatti a Roma si nasce, per dir così, coll'epigramma sulle labbra.
Il trasteverino non sa leggere, ma sa farvi una satira.
E solo chi conosce il basso popolo di Roma, può avere un giusto concetto di quel garbo tutto romanesco, che è passato in proverbio.
Forse anche gli avanzi dell'antica grandezza contribuiscono a rendere atte le menti a scovrire il lato piccolo e risibile delle persone e delle cose, e codesta attitudine si fa maggiore coll'esempio e coll'educazione di famiglia; forse anche il clima ci ha la sua parte; ma insomma, ogni romano è stoffa adatta per tagliarci un poeta satirico.
E non mancano esempi per dimostrarlo.
Un giorno, presso all'ora in cui stanno per esser tolte dalla cassetta postale le lettere, molta gente si accalcava dintorno alla buca, e gli urtoni volontari e le scuse ipocrite e gli accidenti secreti si succedevano, come suole accadere in siffatti casi.
Un vecchio aveva imbucata la sua lettera, e abbassando la testa, s'era per un tratto soffermato a guardare se ella fosse discesa, tardando un poco ad andarsene, per quella lentezza di movimenti che è retaggio della vecchiaia.
Allora, un ragazzino di dieci o dodici anni, che gli stava dietro, avendo anche lui da impostare una lettera, impazientito del ritardo del vecchio, alzò il capo e gli disse seriamente: "A sor boccio! aspettate finente la risposta?" Uno scoppio generale di risa fece eco a codesta domanda, che in verità potrebbe darsi per modello di sublime ridicolo.
Difficilmente un ragazzo di un'altra città avrebbe detto altrettanto.
Pasquino è una creazione del popolo.
Su di un angolo del palazzo Braschi, presso Piazza Navona, si vede appoggiato il torso di una statua, che il noto Bernini reputava uno de' tipi più belli d'antiche figure.
Si credette per molto tempo che quel torso fosse avanzo d'una statua rappresentante un gladiatore, o un guerriero di Alessandro Magno; ma più tardi, gli studiosi delle cose antiche parvero d'accordo nel giudicarlo frammento d'un gruppo figurante Menelao che solleva da terra il cadavere di Patroclo.
Il lettore può scegliere a suo piacimento quella che più gli quadra di queste dotte opinioni; o lasciarle tutte, chè fa lo stesso; perocchè senza di esse può star l'istoria.
Nella seconda metà del secolo XV, poco lunge da codesto avanzo di statua teneva la sua botteguccia un sartore nominato Pasquino, che era uomo molto allegro, d'ingegno pronto e arguto, e motteggiatore e satirico per eccellenza, noto e caro per queste sue doti a tutto il popolo di Roma, il quale, non entrando nelle sottili disquisizioni degli archeologi, e non sapendo come chiamar quella statua, è molto probabile che fin d'allora la chiamasse statua di Pasquino.
E Lodovico di Castelvetro, nel suo libro Ragioni di alcune cose, ci dice che "Antonio Tibaldeo da Ferrara, il quale fu uomo di reverenda et grande autorità per le sue singolari virtù et per la sua rara dottrina; a' suoi dì, essendo già pieno d'anni, soleva raccontare...
che maestro Pasquino...
et i suoi garzoni, chè molti ne avea, facendo vestimenti a buona parte d'artegiani, parlavano liberamente et sicuramente in biasimo de' fatti del Papa et de' cardinali, et degli altri prelati della Chiesa, et dei signori della corte: delle villane parole de' quali, siccome di persone basse et materiali, non era tenuto conto niuno, nè a loro data pena niuna, o malavoglienza portata di ciò dalla gente.
Anzi, se avveniva che alcuno, per notabilità o per dottrina o per altro riguardevole, raccontasse cosa non ben fatta d'alcun maggiorente, per ischiffare l'odio di colui che si potesse riputare offeso dalle parole sue et potesse nuocergli, si faceva scudo della persona di maestro Pasquino et de' suoi garzoni, nominandogli per autori di simile novella."
Quando il dabben uomo fu morto, il popolo battezzò addirittura col nome di Pasquino quel torso di statua; e quasi fingendosi che l'anima del sartore fosse passata lì dentro, attribuì a quello - come aveva attribuito a Pasquino vivo - tutti i lazzi, le celie, i motteggiamenti e le satire che correvano per la città.(5) Di tal guisa, quel torso informe, per effetto d'una strana metempsicosi, divenne un essere animato.
Ei non si muove, ma è vivo; non ha occhi nè orecchi, ma vede ed ascolta tutto; gli avanza appena un ultimo vestigio del naso, ma per finezza di odorato non la cede a Galateri e a Nardoni.
Dio vi guardi da lui! Mille faccie rubiconde ha fatto impallidire, e mille pallide ne ha fatte diventare di fiamma.
È capace di ferirvi anche in greco e in latino, lingue ch'ei sa a meraviglia, dacchè per la sua bocca hanno parlato e il Sannazaro e il Poliziano e l'Ariosto ed altri cosiffatti.
La sua anima non è già quella del povero sartore, che pur troppo starà ora umbra levis sotto il caduceo di Mercurio; ma è l'anima del popolo romano, del vero popolo, s'intende, non dei sagrestani, e (con riverenza parlando) de' bastardi de' preti.
E Pasquino è rispettato e temuto dal Governo papale, che non rispetta e non teme questo nostro Regno d'Italia! Pasquino sta fermo come torre inespugnabile fra dense schiere d'impotenti nemici.
Che varrebbe il dannarlo a morte? Egli risorgerebbe sotto forme mutate, ma più acre, più mordace, più terribile per la patita violenza: perciò lo si lascia in pace.
Papa Pio V fece appiccare per la gola il latinista Niccolò Franco, che in un distico s'era beffato di lui;(6) Sisto V fece mozzare la mano destra all'autore di una pasquinata contro sua sorella, allettato a scovrirsi colla promessa di un premio;(7) ma Pasquino non fu molestato.
Soltanto nel 1592, pontificando Clemente VIII, ei corse rischio di andare, fatto in pezzi, a prendere un bagno freddo nel Tevere, per sentenza di molti prelati e de' cardinali Pietro e Cinzio Aldobrandini, nipoti del papa; ma a perorar la sua causa si levò l'uomo più illustre di quel tempo (chi 'l crederebbe?), Torquato Tasso! Egli stesso, il grande ed infelice poeta, sconsigliò il cardinal Pietro dal permettere che la condanna fosse eseguita; "perciocchè (gli disse) dalle polveri di Pasquino nella ripa del fiume nasceranno infinite rane, che gracchieranno la notte e 'l dì." E avendo il Pontefice risaputo dal nipote le parole del Tasso, e mandato a chiamarlo, perchè gliene desse ragione, "Verissimo, padre santo (rispose il poeta); ma se la vostra Beatitudine vuol che le statue non favellino male, faccia che gli uomini ch'ella pone ne'governi operino bene." Questo fatto è narrato da Giambattista Manso, amico sincero e confidente del cantore della Gerusalemme.(8) Così Pasquino scampò da quella burrasca, e pochi giorni dopo egli stesso potè dire a' Romani che la Poesia aveva salvato la Satira.(9)
Del resto, è da notarsi che Pasquino troverebbe caldi difensori fra i personaggi più eminenti di Roma, e perfino tra' membri del Sacro Collegio, i quali più volte si sono giovati dell'opera sua, massime nell'occasione del Conclave.
Per dirne una, fra le innumerevoli pasquinate di cui fu soggetto Alessandro VI, ve n'ha di quelle in cui potrebbe riconoscersi la mano o l'ispirazione di quel suo implacabile nemico, che apertamente lo chiamava papa marrano e simoniaco e traditore, il cardinale Giuliano della Rovere, che fù poi Giulio II, sovrano funesto all'Italia più assai dello stesso Borgia, e al pari di lui violatore di fede.
Pasquino ha un compare, un complice, come il nostro san Maurizio.
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