[Pagina precedente]...riaci in qualità di protettori, ed in qualche luogo li chiamavano ed invitavano." (Lo Stato romano dal 1815 al 1850: vol I, cap. V.) - (2) Mo fa lanno: è un anno. - (3) Con licenza: frase di rispetto verso l'antico padrone, come quell'ar zu' commanno che viene sotto, e che i servitori cacciano in qualunque discorso. Ma siccome culiscenza vale anche con rispetto parlando, così qui fa ridere, perchè veramente nomina poi una cosa non pulita, qual era il Reggimento Zamboni. - (4) Marittima e Campagna: provincia al sud-est di Roma. - (5) In permesso. - (6) Così è detta una estremità della piazza Navona.
VI.
LI PUNTI D'ORO.(1)
(27 dicembre 1832)
-
Ccusà vviengheno a ddÃ'(2) li ggiacubbini
Ar gran zommo pontescife Grigorio:
- Che tte fai de li stati papalini
Dove la vita tua pare un mortorio?
Va,(3) e tt'upriremo palazzi e ggiardini,
T'arzeremo una statua d'avorio,
Te daremo un mijjone de zecchini,
Te faremo stà ssempre in rifettorio.(4) -
Ma er Papa, a sta bbellissima protesta
De palazzi, de statua e mmijjone
Je dà st'arispostina lesta lesta:
- Vojantri me pijjate pe' ccojjone.
Io sempr'ho inteso ch'è mmejjo êsse testa
D'aliscetta che coda de sturione.(5) -
(1) Ponti d'oro a chi fugge: proverbio. In Roma però dicono punti, non già perchè in questa maniera si pronunci il vocabolo ponti, ma perchè così dicono. - (2) Così vengono a dire: così press'a poco dicono. - (3) Va via. - (4) Refettorio. Giova qui ricordare che Gregorio XVI era stato frate, ed aveva fama di mangiatore e bevitore straordinario. - (5) Proverbio.
VII.
ER GIUCATOR DE PALLONE.(1)
(31 gennaio 1833)
-
Ar Bervedé cc'è ppoco.(2) Er Papa vola,
Che ppe' vvolate(3) manco Ggentiloni.(4)
Ma in partita è ttareffe,(5) e ffa cciriola,(6)
Ché li falli so' assai piú de li bbôni.(7)
Che sserve che nnoi poveri cojjoni
Je seggnamo le cacce?(8) A cquella scôla
De mannà ssempre a sguincio(9) li palloni,
Si ll'impatti è, pper dio, grasso che ccola.(10)
Ggiuchi a ppassa-e-rripassa, o ccor cordino,(11)
DÃ llui solo l'inviti e le risposte,(12)
E vvô sta' ssempre lui sur trappolino.(13)
Cuann'è all'onore poi,(14) fa ccerte poste,(15)
Scerte finte,(16) c'a ess'io Tuzzuloncino,(17)
Je darebbe er bracciale in de le coste.
Ne le partite toste,(18)
O mossce,(19) lui s'ingeggna, (nun ridete!)
Cor vadi e vvienghi, e cquale la volete.(20)
Tira sempre a la rete(21)
Cuann'è in battuta, e nnun fa mmai un arzo
O rribbatti de primo o dde risbarzo.(22)
Ar chiamà ,(23) cchiama farzo;
E ssi er quinisci(24) penne(25) da la tua,
Procura de tornà ssempre a le dua.(26)
Ha una regola sua
Oggni tanto de dà ' ffôra una messa,(27)
Pe' ffà tte ariddoppià la tu' scommessa:
E cco' sta jjoja(28) fessa,
Qualunque cosa er cacciarolo(29) canti,
Cce dà ne er farzamento(30) a ttutti cuanti.
(1) Sotto il velo allegorico delle astuzie usate nel gioco del pallone, si adombrano in questo sonetto gl'infingimenti e le male arti di Gregorio XVI. - Fu stampato nell'edizione romana, sostituendo nel primo verso il nome di Tosto, giocator di pallone, a quello di Papa, e mutando parecchie altre parole. - Le note son tutte dell'autore. - (2) Manca poco al vedersi gli effetti. Notisi che quel modo proverbiale è tolto dal Belvedere, luogo sotto al Museo Vaticano, dove fino agli ultimi anni si giuocava al pallone. - (3) Volare, volate, cioè iattanze, sfoggio di vane promesse. Al giuoco di pallone si dice volare e far volate il mandare di prima battuta i palloni oltre i termini estremi della palestra. - (4) Rinomato giuocator di battuta, o battitore. - (5) Fallace. - (6) Far ciriola: intendersi segretamente cogli avversarii in fraude di chi è con lui o tiene dalla sua. - (7) Dicesi fallo o buono, secondochè il pallone trapassi o no le linee che limitano o partono l'arena. - (8) Le cacce sono quei punti, sui quali un giuocatore di rimando ha arrestato in qualunque modo un pallone; si che non trascorra più lungi: ciò che egli si sforza di eseguire il meno discosto che può dalla battuta di dove egli stesso è obbligato ad oltrepassare quel segno, onde vincere quel giuoco. Segnar le cacce significa notare gli altrui mancamenti. - (9) A sghembo. - (10) È, cioè, il maggior de' successi. - (11) Il giuoco a passa-e-ripassa è quello in cui si conviene di non dovere che oltrepassare la linea media della palestra. Quello poi col cordino consiste nel superare una corda attaccata in alto e attraversante l'arena in sito e direzione parallela alla detta linea media. - (12) L'invito è una specie di scommessa fra giuocatori, che vinta o perduta da ciascuna delle parti avversarie, le raddoppia il successo favorevole o contrario della partita. - La risposta è l'accettazione o il rifiuto dell'invito, con certe regole che qui sarebbe inopportuno e lungo il riferire. - (13) Tavolato inclinato, dal quale discende il battitore nel battere, onde il colpo prenda più vigore dall'urto del corpo in discesa. - (14) All'onore: così gridasi dal chiamatore o cacciarolo al principiarsi dell'ultima partita. - (15) Poste: palloni colpiti in aria, prima cioè che abbino toccato terra: ciò che sarebbe di balzo. - (16) Finte: astuzie di giuoco. - (17) Tuzzoloncino: giuocatore rinomato per la sua forza, e detto Tuzzoloncino da tuzzare o percuotere. - (18) Partite di dura prova. - (19) Il rovescio della nota 18. - (20) Formule d'invito o accettazione, di che vedi la nota 12. - (21) In fondo all'arena è un palchettone coperto da una rete che difende gli spettatori. Chi percuote in quella, o al disopra indeterminatamente, fa volata. Vedi la nota 3. - (22) Vedi la nota 15. - (23) Il chiamare è dire ad alta voce il numero de' punti de' quali si è in guadagno. - (24) Il quindici, ossia una quarta parte della partita, che si divide in quindici, trenta, quaranta e cinquanta. Ciascuno di questi quattro numeri dicesi un quindici. - (25) Pende: inclina. - (26) Quando entrambi gli avversari, fatti nella partita pari guadagni, sono giunti egualmente a 40, cioè al terzo quindici, si torna alle due, cioè si retrocede al punto anteriore, cioè al trenta, vale a dire si torna a passar due volte per quel grado, onde la partita abbia più probabilità di eventi, e non termini di un sol colpo al 50, che n'è il fine. - (27) Messa: posta pecuniaria delle scommesse. - (28) Joia, cosa lunga e noiosa. - (29) Il chiamatore del giuoco. - (30) Falsamento: canzonatura.
VIII.
ER ZERVITORE DE MONZIGGNOR TESORIERE.
(1833)
-
Ma ssai c'ha riccontato oggi er padrone?
Che avenno inteso er gran ebbreo Roscilli(1)
C'ar monte sce ballaveno li grilli,(2)
Ha ddato ar Papa in prestito un mijjone.
Accusà 'gnuno avrà la su' penzione,
E nun ze(3) sentiranno tanti li strilli;
Chè a sto paese cqui, tutto er busilli
Sta in ner campà a lo scrocco e ffa' orazzione.
È proprio un gran miracolo de Ddio,
Che pe' sspìgne' la Cchiesa a ssarvamento,
Abbi toccato er core d'un giudìo.
Er Papa ha fatto espóne er Zacramento,
Pe' rringrazzià Ggesú bbenigno e ppïo,
Che ccià (4) ssarvato ar zessantun pe' ccento!(5)
(1) Rotschild. - (2) Per intendere la satira mordace di questo verso, bisogna sapere che a Roma v'è un Monte detto de' depositi (annesso a quello di pietà ), che riceve danaro in deposito senza pagarci interessi, anzi esigendo una tenue ricompensa dai depositatori, ad ogni richiesta de' quali si obbliga di restituirlo. Il Governo pontificio, morale com'è, fece più volte tabula rasa nella cassa di codesto sacro istituto, ed è facile immaginare lo scandalo che ne nacque. Sce ballaveno li grilli (ci ballavano i grilli) significa, appunto che era piazza pulita: equivale alla frase italiana ci ballavano i topi. - (3) Si. - (4) Ci ha. - (5) Gl'interventi stranieri, lo arruolamento e l'ordinamento delle truppe svizzere, le commissioni militari, le polizie costarono enormi spese, durante tutto il regno di Gregorio: si fecero prestiti rovinosi, uno de' quali con Rotschild al 65 per cento; e quantunque le tasse crescessero, si ebbe una deficienza annua di cinque in seicentomila scudi almeno; ed il debito pubblico, regnante Gregorio, crebbe di ventisette milioni di scudi. L'amministrazione del Tosti tesoriere fu un vero disastro. Nessuno accusa di inonestà lui rimasto povero, ma tutti lo rendono in colpa di inesperienza e scioperataggine: l'erario impoverì: il disordine crebbe: molti in Roma traricchirono per usure, per appalti pubblici, per lavori fatti dal Tosti, come dicono, economicamente. Di un decennio della sua amministrazione non si è mai potuto fare e dare un vero rendiconto. Un Galli computista della reverenda Camera arruffò cifre, e diede ad intendere di averlo compiuto; ma la fu polvere gettata negli occhi. (Farini: Lo Stato romano dall'anno 1815 al 1850, vol. I, cap. XI.) In tale condizione di cose, s'immagini ognuno quale effetto producesse questo sonetto del Belli.
IX.
ER PRESTITO.(1)
(1833)
-
Ma eh? Gessummaria! che monno tristo!
Si sse(2) vedesse fa' a li ggiacubbini,
Va bbè;(3) ma er Papa ha da pijjà cutrini
Da un omo c'ha ammazzato Ggèsucristo!
Uh! rriarzasse la testa Papa Sisto,
Ch'empà zzeppo Castello(4) de zecchini:
Ve direbbe:- Ah ppretacci malandrini!
C'era bbisogno de sto bbell'acquisto?
Nun ciavete perdìo tanta de zecca,
Da cugnà mmille piastre 'ggni minuto,
Senza fà lli(5) venà fin da la Mecca?(6)
E cco' ttutto sto scannalo futtuto,
Maneggiate a ssan Pietro la bbattecca,(7)
Pe' bbuggiarà la ggente senza sputo! -
(1) Questo sonetto allude, come l'antecedente, al prestito rovinoso contratto dal Governo pontificio con Rotschild; ma ci mancano testimonianze che sia del Belli. (2) Se si. (3) Va bene: sarebbe men male. (4) Castel sant'Angelo. (5) Farli. Il li si riferisce a cutrini, non a piastre. Per questa ragionevole sgrammaticatura, si veda la nota 5 al Sonetto Er deposito de papa Leone. (6) Qui Mecca sta per qualunque paese lontano e d'infedeli. (7) La bacchetta con cui dallo sportello del confessionale i penitenzieri maggiori di San Pietro, e d'altre chiese privilegiate, toccano leggermente la testa ai baciapile che s'inginocchiano davanti a loro, per essere assolti così a buon mercato dai peccati veniali.
X.
DON MICCHELE DE PORTOGALLO.(1)
(1833)
-
Ce mancava pe' nnoi st'antro accidente! -
Doppo fatto ar Brasile er pappagallo,
Riècchete(2) don Pietro a ffa' er reggente,
Pe' rróppe' li cojjoni ar Portogallo
In fónno, a nnoi nun ce n'importa ggnente;
Chè, grazziaddio, noi stamo a culo callo:(3)
L'Ebbreo cce dà cutrini alegramente,
E ssi cce maggna sopra,(4) buggiarà llo!
Io me sento schiattà pe' ddon Micchele.
Je volevo dì':- Ssei troppo bbono!...
Quanno vedi ch'er popolo è infedele,
Nu' sta' a ssentì nè angeli nè ssanti:
Stà mpeje un bell'editto de perdono,
E 'r giorno appresso impicca tutti cuanti.(5) -
(1) Questo famoso sonetto, comunemente attribuito al Belli, è del commediografo Giovanni Giraud romano. - Per agevolarne l'intelligenza, delineeremo a brevi tratti il quadro storico, di cui don Michele di Braganza fu protagonista.
Giovanni VI, re di Portogallo, dopo la rivoluzione scoppiata a Porto nel 1820, e divampata poi in tutto il regno, dovette mal suo grado giurare la costituzione che i rappresentanti del popolo gli proponevano, e tornato nel 1821 a Lisbona fra le solite acclamazioni, lasciava in qualità di reggente nei possedimenti brasiliani il primogenito suo don Pietro. Passò appena un anno, che mentre il Re studiava il modo di levarsi d'attorno l'incomodo delle Cortes, i democratici del Brasile, insofferenti della soggezione al Portogallo, gridarono la loro indipendenza, e sapendo il Principe reggente di spiriti liberali, lo incoronarono imperatore. Re Giovanni protestò e dichiarò guerra al figlio e a' ribelli. Intanto il secondogenito suo don Michele, d'indole e di principii affatto opposti a quelli del fratello, s'affaccendava d'accordo coll'alto clero, colle corti di giustizia e cogli ordini privilegiati, a buttar esca sul fuoco; affinché i liberali portoghesi pagassero il fio de' ribelli brasiliani. In conseguenza di tali maneggi, che non potevano essere ignoti al Re, scoppiò nel febbraio del 1823 una rivoluzione ...
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