[Pagina precedente]...o che anche nella riproduzione del reale v'è creazione fantastica, dovendo il poeta ricreare coll'immaginazione le cose udite o vedute.
Quasi tutti i sonetti del Belli rappresentano una piccola scena, di cui è sempre protagonista un popolano; e però le osservazioni fatte sul sonetto della poverella, valgono per tutti gli altri, che sono ugualmente pregevoli. Ma meglio che isolati, giova riguardarli come parti di un tutto armonico, come altrettante scene di uno stesso dramma, il quale - potrebbe intitolarsi Carattere e vita della plebe romana. E perciò mi astengo dal recare in mezzo altri esempî, tanto più che il lettore, voltando poche pagine, può veder da sè il fatto suo.
VI.
Ma nella sua giovinezza il Belli mirò anche a più alto scopo, che non fosse quello di ritrarre la vita e il carattere del popolo romano. Egli era conoscitore profondo di quel complicato organismo, che si chiama Governo de' papi; e con una serie di sonetti satirici ne mise a nudo e ne flagellò senza pietà le vergogne e le infamie. Dal papa all'abatucolo, dall'inquisitore al birro, dalla Curia alla sacristia, dalla scomunica all'indulgenza, il Belli versò a piene mani il ridicolo su tutti e su tutto. Parecchi de' suoi sonetti politici hanno perduto il pregio fatto loro dalla opportunità ; e per gustarli oggi, bisogna riportarsi coll'immaginazione al tempo e alle occasioni in cui furono scritti; ma la maggior parte sono opportuni adesso, come lo erano cinquant'anni fa; perocchè il Papato è al presente quello che era allora, che fu e sarà sempre, la cancrena d'Italia.
I poeti satirici sono dimenticati dal popolo, quando il nemico da essi combattuto è stato interamente sconfitto. In altre parole: la satira è un'arma, che si spezza nella ferita. Quindi è che, essendo caduti tutti i Tiberî in diciottesimo flagellati dal Giusti, il culto popolare di questo poeta va scemandosi a poco a poco, nella stessa misura con cui s'impallidisce nella mente dell'universale la ricordanza degli uomini e de' fatti che furono argomento alle sue satire. E quando siffatta ricordanza, non vivrà più che nelle storie, il Giusti sarà del tutto confinato nelle biblioteche e nelle scuole. Il Belli, al contrario, è poeta vivo e militante oggi, come mezzo secolo addietro; e lo sarà finchè duri la Roma de' Papi. Le sue satire sono avidamente cercate e corrono per mille e mille bocche, perchè servono ancora a combattere il grande inimico d'Italia. Insomma, il Poeta toscano ha raggiunto il vertice, e adesso discende; il romano, all'opposto, cammina tuttora sopra una linea ascendente Per questo lato, il Belli merita, non meno del Giusti, un posto onorevole tra quegli scrittori, che da Dante a Mazzini precorsero al nostro risorgimento nazionale. Anzi, i nomi de' due satirici andranno alla posterità accoppiati, come quelli che nel fecondo agitarsi del pensiero italiano contro i tirannelli di casa e l'oppressione straniera, a cominciare dal 1815 fino al '48, rappresentano la parte più acre della lotta, e fanno presentire allo storico che se gli spiriti sono tanto esacerbati da inalzare il sarcasmo al sublime, la rivoluzione di popolo non tarderà molto a scoppiare.
Gli è ben vero che il Belli, qualche tempo dopo il 1831, mutò d'opinione, e dicono facesse ogni suo potere per ritirare tutte le copie manoscritte delle sue satire che circolavano per Roma; ma ciò non iscema di un ette il suo merito davanti alla critica, la quale ha l'obbligo di dividere lo scrittore dall'uomo. Il caso del Belli non è come quello di Orazio e di Sallustio, e di quasi tutti gli scrittori del secolo d'Augusto, che parlavano bene e ruspavano male nel medesimo tempo. Il nostro Poeta fu sempre onesto e sempre logico con sè stesso: finchè credette il Papato una piaga sociale, gli scrisse contro; quando lo credette un bene, se ne fece paladino. È il caso di una conversione bella e buona, e la critica non può entrare nel santuario della coscienza. Tutt'al più, ella può tentare di spiegarsi il fatto: ed io lo tenterò, perchè c'è chi nega persino che il Belli sia stato mai liberale, e chi attribuisce la conversione di lui a secondi fini di privato interesse, indegni d'un'anima onesta(37).
Il nostro Poeta appartiene alla schiera di quei liberali, che trascinati dalla fiumana della Rivoluzione francese, si diedero a combattere il Papato, in cui vedevano il più potente ostacolo al civile progresso. Essi probabilmente non credevano al Papa e agli attributi sovrannaturali di lui; ma avevano la fortuna invidiabile di credere fermamente in Dio. Lo scetticismo della nuova letteratura, causa ed effetto ad un tempo della grande Rivoluzione, aveva appena appena sfiorato le loro coscienze. Odiavano i preti, ma andavano a confessarsi: condizione equivoca, fatta loro dai tempi poco maturi alle nuove idee, e che li portò poi ad aver paura dell'ombra propria. Pertanto, finchè videro attraverso la lente delle loro convinzioni religiose, che la Provvidenza favoriva il primo Napoleone e le riforme liberali con danno manifesto del Papato, se ne stettero fermi nella loro opinione; ma quando ad un tratto la scena si mutò, vennero, cioè, le restaurazioni del 1815, e poi la discordia tra' liberali, e i moti italiani del '21 e del '31 miseramente soffocati nel sangue; e le recriminazioni codarde, le accuse reciproche, l'onta e il danno di tutti; allora si persuasero d'essere stati in errore sino a quel giorno: credettero che la Provvidenza fosse davvero col Papato, il quale era uscito salvo e trionfante da quella paurosa burrasca; si pentirono e rinnegarono, ma nobilmente, a viso aperto, la loro antica fede. Prima il papa e poi Dio; prima il papa e poi l'Italia, la cui indipendenza volevano sì, ma di buon accordo col papa, perocchè tutti i tentativi per ottenerla, fatti senza di lui e contro di lui, erano andati falliti. A codesta scuola di neoguelfi, che oggi è ridotta a pochi avanzi fossili, appartennero allora, come ognun sa, molti illustri del tempo, non pochi de' quali, disingannati da dura sperienza, si rimutarono poi d'opinione, convenendo nell'idea del Machiavello propugnata da' Mazziniani, che coi papi non si faceva l'Italia, e sono adesso altolocati e venerati fra noi. Il Belli non si rimutò; ma noi non dobbiamo adoperare due pesi e due misure, biasimando chi volle onestamente convertirsi ad una seconda fede politica e morire in quella, solo perchè codesta fede non è la nostra. Egli s'era legato in amicizia coi gesuiti Bresciani, Taparelli d'Azeglio, Pellico, Curci, Rossi, e Giganti, che era anche suo confessore: cattivi arnesi quanto si vuole, se si considerano come membri della Compagnia; ma tutti, più o meno, egregi uomini, se si pigliano individualmente. Costoro lo comprendevano, lo stimavano, lo amavano: è quindi facile immaginare quanto potessero sull'anima sua, che si trovò così rinchiusa in una cerchia di ferro, senza neppure avvedersene.
Nel 1846, parve per un momento che si risvegliasse in lui l'antico uomo. Gli eruppero dal cuore, riboccante di sdegno per le turpitudini del polititicato di Gregorio, quei due famosi sonetti: "Papa Grigorio è stato un po'scontento" e "Fr:...a! a cche ttempi semo, sor Cremente;" ma poi si quietò subito, anzi furono quelli gli ultimi strali lanciati da lui contro il Papato. Per noi sono preziosissimi: essi ci provano che la conversione del Poeta era stata sincera, dacchè egli conservava ancora tutta l'indipendenza del suo nobile carattere, non temendo di sfidare l'ira dei Sanfedisti (o Gregoriani, come li chiamavano allora), i quali erano tanto potenti, da spaventarne lo stesso Pio IX, l'idolo d'Italia. e del mondo, e da imporglisi poi nel modo che tutti sanno.
Il mutamento del Belli deve dunque attribuirsi ai tempi e al luogo in cui nacque e operò, agli uomini che lo circuirono, e non già a basse mire di vile interesse, ch'ei mai non ebbe; perocchè possedeva del proprio tanto da campare agiatamente la vita, e teneva per norma il "Vivitur exiguo melius" di Claudiano.(38)
Del resto, ei non riuscì a rimangiarsi come Saturno le proprie creature. Le sue satire erano troppo note e troppo care a' Romani, perchè si potesse d'un tratto farle dimenticare. La freccia era uscita dall'arco, nè valeva il richiamarla; però che essa aveva ferito nel cuore del Papato. Il poeta se ne avvide, e nella sua timorata coscienza di cattolico n'ebbe grave e angoscioso rimorso. Dai fatti del 1848 e '49, non solo si tenne in disparte, ma se ne afflisse moltissimo, e temendo che suo figlio Ciro venisse per legge ascritto al corpo mobile della guardia civica, lo fece precipitosamente ammogliare.
Dal nuovo trionfo del Governo pontificio il Belli ebbe cagione di riconfermarsi anche meglio nella sua fede, e si ascrisse alla Società di san Vincenzo de' Paoli;(39) nè pago di questo, per far quasi ammenda de' giovanili trascorsi, dettò poesie di argomento religioso, e in difesa de' gesuiti, sermoni ed epistole contro le idee moderne;(40) tradusse gl'Inni del Breviario romano, e, pubblicandoli, li dedicava a Pio IX;(41) finchè logorato dalle fatiche e dagli anni e da domestiche sciagure, moriva improvvisamente il giorno 21 dicembre del 1863.
Moriva il poeta, quasi ripudiando le sue migliori creature, quelle finissime satire politiche, le quali, opprimendo col ridicolo il Governo papale, avevano posto il loro autore nel novero di que' pochi eletti, che fecero dell'arte non vano trastullo, ma terribile arme per combattere i nemici della civiltà e della patria.
Negli ultimi anni s'era fatto increscioso a sè e ad altrui: egli sosteneva una lotta terribile con l'antico sè stesso, il quale si ridestava in lui prepotente, poichè l'Italia risorgeva a nuova libertà , a nuova vita, a nuove e non fallaci speranze, e il Papato accennava oramai a certa e non tarda rovina. Dicono che vicino a morire raccomandasse come sua ultima volontà , quasi a pena di maledizione, che il figlio nè altri de' suoi osassero pubblicare i sonetti politici; ma che nello stesso tempo li lasciasse aggiustati magnificamente di note e preparatissimi per la stampa, proibendo pur di bruciarli. Poveretto! Nella tempesta che gl'infuriava nell'anima, tentava di salvare almeno, come il naufrago Camoens, il parto prediletto della sua mente. E noi, davanti alle angoscie di questa nobile vittima, dobbiamo inchinarci e commiserare.
Il popolo romano prese la tutela di queste satire reiette dal padre loro; le fece cosa propria, poi che in esse udiva un'eco della sua coscienza, uno sfogo e una protesta contro la tirannia che l'opprime. E noi possiamo rispettare l'ultima volontà del poeta, considerando queste satire come creazione diretta del popolo romano, dal quale, alla fin fine, egli aveva attinto inspirazione e pensieri.(42)
VII.
Ciò che abbiamo detto de' sonetti che dipingono il carattere e la vita della plebe romana, vale anche per i satirici, che hanno la stessa forma e gli stessi pregî di quelli. È sempre un popolano che figura sulla scena, giudicando secondo le sue vedute la natura e gli atti del governo temporale e spirituale dei papi. Dobbiamo solo avvertire che ne' sonetti satirici l'autore non ha badato, come negli altri, a schivare le molte scurrilità del vernacolo romanesco. Questi sonetti sono proprio un frutto proibito ai ragazzi (pei quali d'altronde non furono scritti); ma vincono di naturalezza tutti gli altri, perchè appunto ritraggono più al vivo il linguaggio e l'indole del popoletto di Roma, che non si cura molto di misurar le parole. L'oscenità della forma non porta però seco l'oscenità di concetto, e s'ingannerebbe assai chi mettesse in fascio queste satire colle sozzure del Casti. Anche in que' sonetti (e sono più di un centinaio), che ritraggono con vivaci colori i turpi scaltrimenti delle male femmine, le coperte lascivie de' chierici e le immondizie dei postriboli, si sente che il Poeta vuol far ridere, ma per castigare i costumi, non mai per adescare al vizio. Questa parte della poesia del Belli, della quale diamo qui pochi saggi, meriterebbe per più rispetti di venir pubblicata separatamente.
Come ac...
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