[Pagina precedente]...in senso reazionario a Villa Real, capitanata da un Conte di Amarante. Minacciò estendersi anche nelle provincie, ma i costituzionali riuscirono a soffocarla. Allora la reazione volse i suoi sforzi a corrompere e tirar dalla sua una parte dell'esercito, il che agevolmente le venne fatto. La notte del 29 maggio, dello stesso anno, il principe don Michele, tacitamente consenziente il padre, usci da Lisbona per Villafranca alla testa del 23° reggimento di fanteria, dando così il segnale della rivolta, che in brev'ora fu seguita da tutto l'esercito. A' 2 di giugno, le Cortes costrette a separarsi, protestarono solennemente contro il Re spergiuro. Quasi tutte le corti d'Europa, e prima d'ogni altra, quella pontificia, mandarono congratulazioni e ringraziamenti a don Michele, e il padre lo nominò generalissimo dell'esercito. Ma se in Portogallo il vento spirava così propizio a' retrivi, la guerra contro il Brasile non procedeva loro seconda: e nell'agosto del 1825, re Giovanni doveva finirla, riconoscendo l'indipendenza di quell'impero.
Morto il Re ai 10 marzo 1826, nel successivo mese il figlio, don Pietro, istigato dai liberali portoghesi, aggiunse al titolo d'imperatore del Brasile quello di Re di Portogallo ed Algarvia; e pubblicata una nuova costituzione, sulle norme di quella spergiurata dal padre, a' 2 maggio abdicava il regno in favore della figlia Maria II da Gloria, ch'era ancora bambina. La reazione dal canto suo non si stette inoperosa, e nel luglio e ottobre 1827 acclamò re don Michele. Parecchie corti d'Europa fecero rimostranze a quella di Rio-Janeiro. Allora don Pietro, per provare col fatto ch'egli aborriva quant'altri mai dalla guerra civile, nominò il fratello luogotenente de' regni portoghesi. Don Michele accettò, e da Vienna recossi immediatamente a Lisbona, dove prestava giuramento solenne di fedeltà al fratello Pietro IV e alla nipote Maria II, obbligandosi a rimetter questa nel governo, appena fosse giunta all'età maggiore. L'ebbe anche promessa in isposa e firmò il contratto nuziale. Ma tutto ciò non lo appagava, e nel prestar giuramento aveva forse, come il padre suo, avvisato al modo di spergiurare. Infatti, quando tribunali, clero, e nobiltà che incarnavano la reazione, e che in ogni modo la volevano finita co' liberali, lo acclamarono re legittimo di tutto il reame, egli, simulando come tutti i suoi pari, convocò a Lisbona i tre Stati del regno, acciocchè provvedessero alla successione della Corona. Poi, per recitar bene la sua parte nella vieta commedia, presentòssi alle Cortes senza le insegne reali. Gli Stati (è inutile il dirlo) lo confermarono re legittimo, sciogliendolo dal giuramento. Allora il nuovo re, di agnello fatto lupo, ricominciò una feroce persecuzione contro i liberali, fautori di don Pietro. Il Papa e le Corti d'Europa plaudivano, meno Inghilterra e Francia, che protestarono contro l'usurpazione, richiamando i loro ambasciadori. In questo mezzo moriva a Roma Leone XII, e don Michele ordinava pubblico lutto e solenni funerali.
Don Pietro, dopo aver abdicato l'Impero brasiliano in favore del figlio, a' 17 aprile 1831 venne alla volta d'Europa contro don Michele, e nel luglio del 1832 sbarcato a Porto con 7000 uomini, dopo varia vicenda di piccola guerra, aiutato efficacemente dai liberali, a' 24 luglio dell'anno successivo, riuscì ad impadronirsi di Lisbona e a mettere la figlia sul trono, sotto la sua reggenza. Aveva già dichiarato che tratterebbe come ribelli i vescovi eletti da don Michele e riconosciuti dal Papa. Tenne la parola, e quindi ne nacque un battibecco colla Corte di Roma, la quale favoriva sottomano i Michelisti. Ma sconfitti costoro alla battaglia di Asseiceira (16 maggio), dieci giorni dopo don Michele capitolava a questi patti: che gli si lasciassero i beni privati, e gli venisse pagata un'annua pensione di 75 mila ducati; egli dal canto suo si obbligava a partir subito e a non più tornare nella Penisola iberica. Arrivato a Genova, si pentì, e protestò per salvare i suoi pretesi diritti. Così perdeva pensione e beni privati. Ma Gregorio XVI gli apriva a Roma le paterne braccia, accogliendolo con que' riguardi dovuti a un caporale della reazione europea, e assegnandogli la bagattella di 1800 scudi al mese, da levarsi dal pubblico erario, il quale dopo i casi del 1831 era venuto in tali angustie, che poco prima si era dovuto contrarre un prestito con Rotschild al 65 per cento (Vedi il sonetto: Er zervitore de Monziggnor tesoriere). Di tal modo, i sudditi del Papa facevano la penitenza non solo de' propri, ma anche dei peccati de' liberali portoghesi: ed ecco perchè il romanesco di questo sonetto, a prima giunta esclama: Ce mancava pe' nnoi st'antro accidente. - (2) Rieccoti. - (3) Comodamente: come chi sta sopra sedia soffice. - (4) Vedi la nota 1a, sul fine. - (5) Questo consiglio dato a don Michele, che in parecchie occasioni lo aveva già posto ad effetto, colpiva di rimbalzo la Corte romana, la quale aveva di fresco violata la capitolazione d'Ancona, e permesso che il prode generale Zucchi ed altri patrioti modanesi e romagnoli (che giusta i patti conchiusi col cardinal Benvenuti, dovevano essere amnistiati), venissero presi, mentre emigravano, dagli Austriaci, e poi condotti a Venezia, e là tenuti prigioni, e lo Zucchi condannato a morte da un tribunale militare: compiendosi di tal modo i voti del paterno core di Gregorio XVI, il quale disconobbe l'atto solenne del suo cardinal legato, e volle svellere fin dalle radici la zizzania, affinchè non fosse soffocato il grano eletto. (Si veda il Manifesto indirizzato da papa Gregorio a suoi dilettissimi sudditi, il 5 aprile 1831.)
XI.
ER PORTOGALLO.
(27 novembre 1832)
-
- Cuanno ho pportato er cuccomo ar caffè,
Mamma, llà un omo stava a ddí' accusí:
"Er Re der portogallo vô mmorì,
P'un bottaccio c'ha ddato in grabbiolè(1)".
Che vvô ddì', mmamma? dite, eh? cche vvô ddì'?
Li portogalli(2) puro ciànno er Re?
Ma allora cuelli che mmaggnamo cqui,
Indóve l'hanno? dite, eh, mamma? eh? -
- Scema, ppiù ccreschi, e ppiù sei scema ppiù:
Er portogallo è un regno che sta llà,
Dove sce regna er Re che ddichi tu.
Ebbè, sto regno tiè sto nome cqua,
Perché in cuelli terreni de llaggiù
De portogalli sce ne so' a ccrepà.(3) -
(1) Veramente don Michele di Braganza si offese molto per una caduta di cocchio. - (2) Cedri, aranci. - (3) A crepapelle.
XII.
L'UFFIZZIO DER BOLLO.(1)
(17 febbraio 1833)
-
Presa a Ppiazza de Ssciarra(2) la scipolla
Dall'ortolano, e, llì accanto, er presciutto,
Le paggnottelle e 'r pavolo de strutto,
Annavo(3) a ffa' bbollà la fede a Ttolla;(4)
Quanto m'accosto a un omettino assciutto,
Che stava a ppijjà er Cràcas(5) tra la folla:
- Faccia de grazzia, indov'è cche sse bbolla?(6) -
- Eh, a Rroma, nu' lo sai?, (disce): pe ttutto -.
Doppo, ridenno,(7) m'inzeggnò ll'uffizzio.
Ma ttratanto capischi che ffaccenna?
Che stoccatella a nnostro preggiudizzio?
Ma ssai cche jje diss'io? - Sor coso, intenna,(8)
Ch'è vvero che li preti hanno sto vizzio,
Ma cquer tutti lo lassi in de la penna. -
(1) Il bollo straordinario della carta. - (2) Piazza sulla via del Corso, dove si crede che fosse eretto anticamente l'arco trionfale di Claudio per le vittorie sopra la Britannia e le isole Orcadi. - (3) Andavo. - (4) Anatolia. - (5) Il Diario di Roma, chiamato volgarmente Cracas o Cracasse dal nome dell'editore (Si veda la nota 5a al sonetto Pe' la morte de Papa Grigorio.) - (6) Bollare significa in Roma anche il fraudare altrui del danaro. - (7) Ridendo. - (8) Intenda.
XIII.
ER RICRAMO.(1)
(1833)
-
Ma a cquer cazzaccio der padron de Rosa
Sabbito a ssera nun je prese er ramo(2)
De portà ar Papa un fojjo(3) de ricramo
Su li guai de la ggente bisoggnosa?
Bê? che arispose er Papa?(4) - "Ma cche ccosa!...
Che mmiseria!... li zoccoli d'Abbramo?!
Lei puro(5) ha sst'ideaccia stommicosa?(6)
Noi però, ggrazziaddio, sce ne fregamo.(7)
E un'antra vôrta che Llei viè a ppalazzo(8)
Co' ssti sturbi(9) in zaccoccia, signor tale,(10)
Io je so a ddi'(11) che Llei nnun entra un ca..o.(12)
Fino ch'er tesoriere nun ze sstracca
De fa' ddebbiti e vénne'(13) er capitale,
Staremo sempre in d'un ventre di vacca."
(1) Reclamo, ricorso. - (2) Non gli prese l'estro. - (3) Foglio. - (4) È una dimanda fatta dallo stesso narratore, per accrescere efficacia al discorso. Variante: Che jj'arispose er Papa? - (5) Pure. - (6) Stomacosa. - (7) Il popolo ha trasposto i versi delle due quartine: ma il sonetto ci guadagna in forza e naturalezza. Variante: Noi, pe' ggrazzia de Ddio, sce ne fregamo. - (8) Variante: E ssi Llei 'n' antra vôrta viè a ppalazzo. - (9) Disturbi in zaccoccia chiama il foglio di reclamo; nota la vivacità del traslato, che fa di questo verso un vero capolavoro. - (10) Il Papa non conoscendo il padrone della Rosa, lo chiama per dispregio signor tale. - (11) Gli so dire. - (12) Variante: Io je so a ddi' che cqui nun z'entra un ca..o. - (13) Vendere.
XIV.
ER PARLÀ CCHIARO.
(1834)
-
Oh, vvolete sentìlla(1) a la bbadiale,(2)
E cche vv'uprimo(3) er core schietto schietto?
Che vvoi fussivo un brutto capitale(4)
Ggià l'avémio maggnato(5) da un pezzetto.
Quer che ppo' adesso masticamo male,(6)
È cch'una scerta mmaschera(7) scià(8) ddetto
Che vv'ingeggnate puro cor zoffietto,(9)
Pe' ffa' un giorno la fine de le scecale.(10)
O sii caluggna(11) o nno, cquesto(12) io nun c'entro.
Er cert'è cch'un brigante com'e vvoi,
Quanno che vva a soffià sta in ner zu' scentro.(13)
O ssii caluggna o nno, vvisscere mie,
Questo ve pôzzo assicurà, cche a nnoi
Nun ce va a ssangue er zangue de le spie.
(1) Sentirla. - (2) Alla badiale, qui per chiara. - (3) Apriamo. - (4) Brutto capitale: brutto suggetto. - (5) Avevamo mangiato; l'avevamo compreso. - (6) Masticar male: patire a malincuore. - (7) Persona occulta. - (8) Ci ha. - (9) Ingegnarsi col soffietto: fare la spia. Ricorda i versi del Gingillino di Giusti: "E di più ci è stato detto che lavori di soffietto." - (10) La fin delle cicale, che cantano cantano e poi crepano. Modo proverbiale. - (11) Calunnia. - (12) Intendi: in questo. - (13) Centro.
XV.
ER GOVERNO DE LI GGIACUBBINI
(5 aprile 1834)
-
Iddio ne guardi, Iddio ne guardi, Checca,
Toccassi(1) a ccommannà a li ggiacubbini:
Vederessi(2) una razza d'assassini
Peggio assai de li Turchi de la Mecca.
Pe' aringrassasse(3) la panzaccia secca,
Assetata e affamata de quadrini,
Vederessi mannà cco' li facchini
Li càlisci de Ddio tutti a la zecca.
Vederessi sta manica de ladri
Raschià ddrent'a le Chiese der Ziggnore
L'oro da le cornisce de li quadri.
Vederessi strappà senza rosore(4)
Li fijji da le bbraccia de li padri,
Che ssaria mejjo de strappàjje er core.(5)
(1) Toccasse. - (2) Vedresti. - (3) Ringrassarsi. - (4) Rossore. - (5) Tutto il sonetto ritrae fedelmente l'opinione, che aveva de' liberali il popolino imboccato e sobillato dai Sanfedisti.
XVI.
ER LEGGNO PRIVILEGGIATO.(1)
(9 aprile 1834)
-
Largo, sor militare cacarella:(2)
Uprimo(3) er passo, aló,(4) ssor tajja-calli:
Chè sti nostri colori ner'e ggialli
Nun conoscheno un ca..o sentinella.
Sò Ccasa-d'Austria,(5) so', ddio serenella!(6)
Dich'e abbadat'a vvoi,(7) bbrutti vassalli,
Perch'io co' sta carrozza e sti cavalli
Pôzzo entrà, ccasomai, puro in Cappella.(8)
E ddoman'a mmatina, sor dottore,
Ciariparlamo(9) poi co' ssu' Eccellenza
Davant'a Monziggnor Governatore.
Guardate llí ssi(10) cche cquajja-lommarda(11)
Da soverchià er cucchier(12) d'una Potenza,
E nun portà rispetto a la cuccarda!(13)
(1) I cocchi degli ambasciatori, ed alcuni altri, godono a Roma il privilegio di passare in ogni momento e per ogni verso dove tutti gli altri debbono osservare delle regole. (2) Nome di sprezzo, per dare ad alcuno del fanciullo. (3) Apriamo. (4) Voce storpiata dal francese allons. (5) Sono Casa-d'Austria. I cocchieri e i servitori de' grandi si attribuiscono senza complimenti i nomi de' loro padroni. Siccome poi a Roma è costume d'indicare i diversi diplomatici col nome della potenza che rappresentano, dicendosi: sono stato da Francia; c'era Russia; è ve...
[Pagina successiva]