[Pagina precedente]...cade a tutti gl'ingegni originali, scrittori od artisti, il Belli creò in Roma una scuola ed ebbe un gran numero d'imitatori più o meno felici; sicchè molte satire che vanno sotto il suo nome, in verità non sono sua creazione diretta. Ad un occhio un po'esperto sarà tuttavia agevole discernere la mano del maestro da quella degli scolari.
Le poche edizioni che io conosco di questi sonetti politici, sono incomplete e scorrettissime, per una vergognosa negligenza de' raccoglitori. Non v'ha dubbio che, mancando gli autografi, e bisognando fidarsi alla tradizione orale, è affatto impossibile ridurli alla vera lezione; ma le piccole diversità di forma (se non si stampano, come s'è fatto sinora, con versi storpiati o difettosi di senso) non alterano punto la sostanza: anzi talvolta possono offrire una lezione che in qualche punto superi di naturalezza l'originale; perchè il popolo, accentando e variando i versi a modo suo, li ha fatti più consonanti al proprio linguaggio e al proprio genio. E valga questo esempio. Uno de' sonetti più popolari del Belli, è quello che va comunemente sotto il titolo Er dovere od anche Er zervitore umbro, il quale, perchè non politico, fu pubblicato colla guida dell'autografo nella raccolta del Salviucci. Ora a me sembra che la variante popolare sia più bella dell'originale. Giudichi il lettore:
L'IMMASCIATA BBUFFA.(1)
(Ediz. Salviucci; vol. 4, pag. 294.)
Cosa me n'ho da intenne(2) io de l'usanze
De stì conti e mmarchesi e ccavajjeri?
Io ar zervizzio sce so'(3) entrato jjeri,
Pe' ttirà ll'acqua e ppe' scopà le stanze.
È vvenut'uno co' ddu' bbaffi neri,
Longhi come du' remi de paranze,(4)
Disce:- So' ir cacciator di monzù(5) Ffranze,
Che mi manna(6) a pportà li su'doveri. -
Dico:- Ebbè, ddate cqua. - Ddisce:- Che ccosa?
Dico:- Che! sti doveri che pportate.
Nun me s'è mmesso a rrìde,(7) in faccia, Rosa?(8)
Guardate llì cche pezzo d'inzolente!
Che ne so de st'usanze sminchionate,(9)
Che sti lôro doveri nun zo' ggnente?(10)
(1) L'ambasciata ridicola. - (2) Da intendere. - (3) Ci sono. - (4) Paranze o paranzelle, barche da pesca. - (5) Monsieur. - (6) Manda. - (7) Ridere. - (8) È il nome della serva, a cui fa il racconto. - (9) Stravaganti. - (10) Non sono niente.
ER DOVERE o ER ZERVITORE UMBRO.
(Variante popolare.)
Come vôi che m'intenna de l'usanze
De sti conti, mmarchesi e ccavajjeri?
Io ar zervizzio sce so' entrato jjeri,
Pe' llavà i piatti e ppe' scopà le stanze.
N'omone arto(1) co' ddu' bbaffi neri,
Longhi come du' remi de paranze,
Disce:- So' ir cacciator di monzù Ffranze,
Che mi manna a pportà lì su doveri.(2) -
Dico:- Ebbè, ddate cqua. - Ddisce:- Che ccosa?
Je dico:- Li doveri che pportate. -
E nun me fa 'na risataccia, eh Rosa?
Ma gguarda sì cche omaccio impertinente!
So un ca..o de st'usanze scojjonate,
Che li doveri lôro nun zo' ggnente!
(1) Alto. - (2) Il servo cerca di contraffarre il parlare affettato del messo: ir, di, mi, a vece di er, de, me, sono goffe ricercatezze di que' popolani, che, studiandosi di scansare il dialetto, non parlano bene né questo né la lingua illustre.
Questi sonetti politici, oltre all'essere al pari degli altri un capolavoro d'arte, sono anche una vigorosa manifestazione del pensiero italiano, e quindi un documento prezioso per la storia de' nostri tempi. Se negli altri si trova dipinta con pennello maestro la vita intima del popolo di Roma, in questi si rivela la lotta da lui durata nella prima metà del nostro secolo centro il Governo papale. Quelli possono giovare all'etografo; questi allo storico. Tutti poi hanno uguale importanza, se si considera che racchiudono gli elementi di un intero dialetto, e di un dialetto che viene secondo a quello che meritò l'onore di diventar lingua comune. A questi sonetti dovrà attingere, come a fonte sincera ed inesauribile, chi voglia compilare un vocabolario dell'uso romanesco: il quale bisognerà pure che entri come terzo elemento nel Dizionario universale della lingua italiana, almeno per quella parte di locuzioni che mancano al fiorentino e agli altri dialetti toscani. Imperocchè così consigliano di fare la situazione e la importanza politica, di Roma, la pronuncia romana per comune consenso migliore della toscana, e quel fare largo dignitoso e magnifico, che si sente nel dialetto romanesco, il quale, secondo il Gioberti, tiene da vantaggio del latino; mentre la semplicità , la discioltura, il brio del toscano risentono del greco; così che, a parere di molti, i due dialetti si completano a vicenda, e sono entrambi elemento indispensabile a far perfetto il linguaggio e lo stile italiano.(43)
Per questi ed altri rispetti, ho fede che la presente raccolta non riesca sgradita agl'Italiani(44). Darò ora ragione del modo tenuto nel compilarla.
VIII.
In questo volume si trovano tutti i sonetti del Belli conservati dalla tradizione popolare, e insieme i migliori di quelli che vanno comunemente sotto il suo nome, ma che sono d'altri.
Io li ho raccolti quasi tutti dalla bocca di persone che li udirono più volte dallo stesso autore, ed ho in pari tempo tenuto conto di quelle varianti; che mi parevano risponder meglio al carattere del dialetto romanesco. Perciò non trascurai di consultare anche molte e molte delle raccoltine manoscritte, che ne corrono per tutta Italia, e che sono più o meno spropositate. Chi ebbe in mano qualcuna di queste raccolte, si meraviglierà forse vedendo che nel nostro volume spesso un intero sonetto è affatto mutato. Ma la sua meraviglia cesserà , se ripensi che questi sonetti, col passare per mille bocche e col venire trascritti da chi poca o nessuna conoscenza aveva del vernacolo romanesco, dovevano di necessità riuscirne storpiati maledettamente. Tale è la sorte di tutti i poeti, che acquistarono, come il nostro, una popolarità straordinaria. La lezione che io presento, se non è sempre la vera, è certo la migliore che se ne conosca.
Quanto al modo di scriverli, mi sono studiato di imitare, colla maggiore esattezza possibile, l'ortografia dell'autore, riscontrando pazientemente ogni parola sugli altri sonetti dell'edizione del Salviucci.
Taluni (non escluso qualche romano) avrebbero voluto che usassi un'ortografia più semplice, che si accostasse maggiormente a quella della lingua comune; massime perchè, dicevano essi, le diversità che sono tra questa e il dialetto romanesco, vanno oggi giorno più scomparendo. Altri mi consigliavano la stessa cosa, perchè, a loro avviso, certe inflessioni, certe consonanti appena accennate nella pronuncia, non si possono far intendere co' segni dell'alfabeto comune il che in altre parole varrebbe che il nostro Poeta sbagliò nel modo di scrittura di quel dialetto.
Io non reputai conveniente di seguire questo consiglio, che pur mi avrebbe risparmiato una fatica lunga e noiosa; ma ringrazio que' cortesi che me lo diedero, per avermi così pòrto occasione di liberarmi da ogni futura molestia, coll'esporre qui le ragioni, che m'indussero a tenermi strettamente all'ortografia dell'autore.
E per rispondere alla prima obiezione, non ricorderò che in regola generale i dialetti si scrivono come sono, o si lasciano dove stanno; ma dirò bene, che se il dialetto romanesco accenna già di voler scomparire fondendosi nella lingua comune, questo fatto pare a me una ragione di più per iscriverlo oggi fedelmente com'è, affine di tramandarlo nella sua genuina immagine a' posteri, i quali altrimenti non potrebbero conoscere quello ch'ei si fosse realmente. In quanto alla seconda, riconosco di buon grado che ha sè molto di vero: e per fermo, chi pronunziasse giusta il valore che hanno nella lingua comune, alcuni modi ortografici usati dal Belli, com'è per un esempio lo sc, farebbe quasi una caricatura della retta pronunzia romana; ma non è meno vero, che non sarebbe più esatto chi mettesse la sola c al posto dello sc. Costui taglierebbe, non iscioglierebbe il nodo. Insomma quando si scrive un dialetto coll'alfabeto della lingua illustre (che val quanto dire scrivere una lingua co' segni di un'altra), i modi ortografici hanno necessariamente un valore relativo alla pronunzia del dialetto; e per evitare, come meglio si può, lo sconcio che altri li pigli nel loro valore comune, non c'è che il mezzo di mettere sull'avviso i lettori con appositi avvertimenti. E questo io l'ho fatto, a quando a quando nelle note, e più particolarmente nelle avvertenze intorno al dialetto, premesse a' sonetti, le quali ho prima sottoposto all'approvazione di due giudici competentissimi, il professore Ferdinando Santini e il deputato Giuseppe Checchetelli, che per questo lavoro mi furono larghi di amichevoli conforti e di aiuto efficace.
A queste considerazioni generali debbono aggiungersene alcune speciali al caso nostro.
E in primo luogo, se per consentimento dell'universale il Belli è sinora (e tutto fa credere che rimarrà sempre) il primo scrittore del dialetto romanesco, e se egli adottò costantemente per lo spazio di cinquant'anni quella ortografia, noi dobbiamo credere ch'ella sia la più adatta a significare il carattere speciale di quel dialetto: lo dobbiamo credere, almeno fino a tanto che non sorga un santo Padre colla barba più lunga, che ci dimostri il contrario.
Dovendo poi entrare nel presente volume anche un centinaio e più di sonetti non politici, scelti nell'edizione romana che fu fatta col riscontro dell'originale; e non potendosi, senza offendere ogni legge di letteraria convenienza, mutarne l'ortografia, era pur necessario di uniformarvi anche quella de' sonetti politici, se non si voleva fare una brutta stonazione.
Nella prima edizioncella ch'io pubblicai di una trentina di questi sonetti (45), c'era qualche doppia consonante soverchia nel principio di alcune parole; ma ora, questo ed altri piccoli difetti li ho emendati, e posso affermare con sicurezza, che se avessimo gli autografi, si vedrebbero scritti con una ortografia identica a quella da me adottata. Cosicchè, per dirla alla buona, l'asino è stato legato proprio dove voleva il padrone: e tale è appunto l'obbligo di un raccoglitore di scritti altrui.
Le note a' sonetti conservati dalla tradizione popolare, son tutte mie. Prevedo che sembreranno troppe a chi ha un po' di pratica del dialetto, e poche a chi non ne conosce punto; ma questo è lo Scilla e Cariddi, in cui si rompono il capo tutti i chiosatori; quindi non saprei che farci.
Le note a' sonetti non politici, scelti nell'edizione del Salviucci, sono in parte dell'autore e in parte di me, che le ho messe dove mancavano affatto, e dove mi parevano insufficienti. In questi sonetti, la Censura romana, spigoiistra ed ipocrita secondo il costume, aveva tolto molte parole innocenti, come buggiarone, perdio, cazzotto, ecc., sostituendovi buzzarone, pebbìo, cacchiotto, ecc., che non sono del popolo, ma di quei santificetur che si scandolezzano molto delle parole e niente delle azioni disoneste. Io ho rimesso le parole popolari nella loro integrità di forma.
Nel fine del volume, quasi in appendice, mi è sembrato opportuno di mettere anche alcuni sonetti italiani del nostro autore, non perchè abbiano in se stessi un gran pregio e possano reggere al confronto di quelli in dialetto, ma perchè sono molto popolari.
Di altre piccole cose spettanti al modo tenuto nel compilare questo volume, il lettore discreto scoprirà da sè la ragione.
SONETTI
CONSERVATI DALLA TRADIZIONE POPOLARE
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AVVERTENZE
INTORNO ALL'ORTOGRAFIA E ALLA PRONUNZIA
DEL DIALETTO ROMANESCO
La consonante raddoppiata in principio di parola, indica che deve pronunziarsi con forza. Quando il senso lo permette, si appoggia la prima delle due consonanti sulla voce finale della parola antecedente: per esempio: a ppietà si pronunzia ap-pie-tà ; tu ssentirai, tus-sen-ti-rai; ma cche ddiavolo, mac-ched-dia-vo-lo; ecc.
Le sillabe scia, sci, scio, sciu, e particolarmente sce che s'incontra spessissimo, quando stanno in vece di cia, ci, cio, ciu, ce, come in camiscia (camicia), calisci (calici), voscione (vocione), sciuco (ciuco, piccolo), disce (dice), filisce (felice), e si...
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