[Pagina precedente]...n una indigestione la musa! Dio gli usi misericordia nel mondo di là . - Per noi G. Belli, morto come uomo, resterà vivo come poeta."
A mostrare l'ingistizia di codeste accuse, basterebbe dire che il Belli aveva ottenuto l'impiego nell'amministrazione del Bollo e Registro, molti anni innanzi al 1831, e l'occupò per tutto il tempo in cui scrisse satire politiche. Soltanto verso il 1840 fu promosso, per diritto d'anzianità , a più alto incarico nell'ufficio del Debito pubblico.
(38) Si veda la poesia La Mediocrità , nel vol. II, pag. 29, dell'edizione del Salviucci.
(39) Tarnassi, Elogio citato, pag. 14.
(40) Vedi i quattro volumi delle Poesie inedite, pubblicate della tipogafia Salviucci in Roma, nell'anno 1865-66. - Tutti codesti componimenti, a mano a mano che li scriveva, erano letti dal poeta nelle tornate della pontificia Accademia tiberina, di cui era socio fondatore.
(41) Inni ecclesiastici secondo l'ordine del Breviario romano, volgarizzati da Giuseppe Gioachino Belli; Roma, tipografia della rev. Cam. Apostolica, 1856. - Questa traduzione fu molto lodata dalla Civiltà Cattolica, nel fascicolo del 22 gennaio 1857.
(42) Ecco com'è adombrata la conversazione del Belli, dall'avvocato Paolo Tarnassi, che è una quintessenza di cattolico, e fu pompa di un odio poco cristiano contro la nostra Italia. - Alla pagina 24 di quella sua pappolata accademica, che intitola Elogio storico di G. G. Belli, scrive: "È a tutti noto come il nostro Belli desse un prodigioso saggio della rarissima facoltà imitativa, onde natura lo arricchì, nei duemila e forse trecento sonetti ch'egli compose in vernacolo romanesco, e dei quali molti corrono per molte mani commisti a moltissimi che a lui arbitrariamente si attribuiscono. L'intendimento ch'egli ebbe in tale suo lavoro fu, come dirò, senza sua colpa, malissimo interpretato, ed a siffatta interpretazione si deve appunto, credo io, la sola celebrità onde si volle illustrare il suo nome dalla dominante fazione del tempo. Non io intendo con ciò d'implicitamente affermare che indegno di fama sia codesto arduo lavoro: esso n'è anzi, a mio credere, degnissimo, sebbene, come pure dirò, non in tutto e per ben altro rispetto, il quale nulla ha certo di attinente alla trista rinomanza che il nostro Belli lungi da sé disdegnosamente respinse, con la stessa nobiltà d'animo, con cui rigettò pure il lautissimo prezzo che per ciascuno di questi sonetti gli si voleva offerire. Ma su tale avvertenza varrà meglio tornare più tardi..."
E infatti ci torna su, alla pagina 27, ma senza punto chiarire il negozio. Giudichi il lettore: "Se non che questa stessa sua rara valentìa gli fu cagione, con candore di storico il dirò, ch'egli cadesse materialmente in una colpa, dalla quale tanto lontano era il generoso suo animo, che non seppe, se non dopo vedutone l'effetto, avvertirla. L'arte ha certi suoi confini, nei quali sta appunto riposta la sua nobiltà , né ad essa conviene il ritrarre in tutto la verità delle cose. Ora, contro questo canone dell'arte peccò per un eccesso di genio il nostro Belli, il quale, volendo dare un immagine fedele del popolo romanesco, lo rappresentò, con una scrupolosità che doveva certo evitare, in tutta quella sua indipendenza che ne forma il carattere, e che lo porta a satireggiare su tutto, non rispettando nelle sue parole né la verecondia dell'onestà , né ogni autorità di cose o di persone. Fu questo, come ho già accennato, un peccato nell'arte piuttosto che una morale sua colpa, pure dovè, ahi, pagare con amarissimo fio. Imperocchè incominciatesi a diffondere molte copie manoscritte di alcuni de' suoi sonetti, il suo scopo non venne che da pochissimi compreso, e se molti degli onesti, confessando pure il valore del poeta, gridarongli addosso la croce, tutto il partito che osteggia oggidì l'altare e il trono, e questo fu ciò che più dolorosamente il trafisse, portollo, quasi uno dei suoi, portarlo fragorosamente in trionfo, dando con implicita calunnia a credere che, presa la maschera del popolano avesse egli voluto o esalare o infiltrare massime di sedizione e di licenza. E così fu pure che venne profusa al nome di lui una celebrità , la quale, in opera non data alla luce, non saprebbe altrimenti spiegarsi. Chè la fama, o Signori, per una rete ben ordinata di segrete e di manifeste fila sta oggi sventuratamente in mano di questo poderoso partito, e chi prende a combatterlo è assai gan ventura se possa con la forza del genio superarne le astutissime mène, e recingere la meritata aureola della gloria. E il nostro Belli fu di cotal successo profondamente amareggiato e preso non da pentimento come calunniosamente o erroneamente si è detto di lui, il quale fu sempre il medesimo uomo, sempre probo, sempre onesto, sempre virtuoso cittadino, ma da uno sdegno che è il più bello dei suoi elogi, e desideroso di terminare la sua vita tanto ignuda di tal gloria, quanto monda d'ogni nota di vituperio, non solo le ricche offerte sprezzò che a lui per questo suo lavoro si fecero, ma moltissimi di tali sonetti diede alle fiamme, e ad altri molti, che forse senza pericolo avrebbe potuto dare in luce, volle negata, lui vivo, la stampa, e, chiusi e sigillati, consegnolli a autorevole persona, il cui nome ci è ignoto, come ignoto ci è pure il fine del pregevol deposito."
Quante involontarie confessioni in codeste parole! - Essendo impossibile negare che il Belli scrivesse de' sonetti satirici, si vorrebbe dare a credere che lo facesse senza la mira diretta di offendere il Papato. La pia menzogna è troppo ingenua perché valga la pena di confutarla con molte parole. Basta leggere uno solo di que' sonetti satirici, che sono indubbiamente del Belli, per giudicare se il poeta , quando li concepiva e li scriveva, fosse un nemico o un puntellatore del trono e dell'altare. Gli è proprio vero l'adagio: Causa patrocinio non bona pejor erit: e il signor Tarnassi, avvocato, se lo ricorderà per un'altra occasione.
(43) Si vedano a questo proposito le Osservazioni del professore Alessandro Roncaglia, intorno all'unità della lingua italiana. Bologna, 1869.
(44) A confermarmi nell'opinione di non aver fatto opera inutile mi soccorre opportuno un recente scritto del De Sanctis (Nuova Antologia: fasc. del marzo 1869, Settembrini e i suoi critici). - L'illustre scrittore dopo essersi domandato quando sarà possibile una storia della letteratura italiana, risponde: "Quando su ciascuna epoca, su ciascuno scrittore importante ci sarà tale monografia o studio o saggio, che dica l'ultima parola e sciolga tutte le questioni. - Il lavoro d'oggi non è la storia, ma è la monografia, ciò che i Francesi chiamano uno studio." E più sotto ripiglia:
"E mi dolgo soprattutto che presso noi sieno così scarse le monografie o gli studi speciali sulle epoche e sugli scrittori. I nostri concetti sono vasti, inadeguati alle nostre forze; e più volentieri mettiamo mano a lavori di gran mole, da cui non possiamo uscir con onore, che a lavori ben circoscritti e ben proporzionati a' nostri studi. Così niente abbiamo d'importante su nessuno de' nostri scrittori, e abbiamo già molte storie della letteratura. Presso gli stranieri non ci è quasi epoca e scrittore che non abbia la sua monografia e questo genere di lavoro vi è tenuto in grandissima stima... Una storia della letteratura è il risultato di tutti questi lavori; essa non è alla base, ma alla cima; non è il principio, ma la corona dell'opera."
Io non posso al certo lusingarmi d'aver detto l'ultima parola intorno al Belli; sto pago d'aver detto la prima e di aver raccolto il materiale necessario a far conoscere questa nuova manifestazione del pensiero italiano.
(45) Sonetti satirici in dialetto romanesco, attibuiti a G. G. Belli, ecc. - San Severino (Marche) Tipografia Sociale editrice, diretta da C. Corradetti, 1869.