[Pagina precedente]...mili, devono pronunziarsi con uno strisciamento piano ed uguale in tutta la sillaba, non con quel colpo aspro che si suol dar loro nella lingua comune, com'è, per esempio, quando leggiamo: floscio, fascio; nè tampoco così dolce che somigli al g francese. Si avverta che la c si muta in sc, quando è in luogo dove non si richiede che venga raddoppiata. Così dirai: È ttroppo sciuco, ma dovrai dire altresì: È cciuco.
Dopo una consonante, al posto dell's si trova sempre una z, che si pronuncia forte; ma quando la z non istà per s, ritiene la regolare pronuncia italiana. Vi si dice un zero dolcemente, ma si dirà conzonante, un zole, er zole colla z ben aspra.
Si o ssi vale se congiunzione condizionale; se o sse, e dopo una consonante ze, vale si affisso.
Al posto del gl c'è sempre la doppia j, che a prima giunta può parere soverchia (fijji, figli); ma non lo è perchè scrivendosi a mo' d'esempio con una sola j la parola fiji, i non Romani sarebbero indotti a leggerla con un suono dolce e rapido, quasi fosse una sola sillaba, come nell'italiano guajo, e non col suono forte de' Romaneschi, che la pronunziano in due tempi distinti : fij-ji. S'oda un verso del Belli:
"Desiderà li fijji, eh, sora Ghita?"
È d'avvertire, che il popolo romano per figlio, oltre che fijjo, usa anche fîo, massime quando parla con ischerno come quando dice: Eh! bbér fîo, come dicesse: Eh! Signorino!
Nun e il suo troncamento nu' valgono non.
Pe' o ppe' è sempre troncamento di per; co' o cco', di con.
Al posto degli articoli i e gli, i Romaneschi mettono costantemente li.
In ner, che talvolta, secondo i capricci dell'eufonia, muta in in der, vale nel, e fa al plurale in de li (nelli). In ne lo e in de lo tengono il posto di nello, e fanno al plurale in ne li, in de li (negli).
In ne la e in de la valgono nella, e fanno al plurale, in de le (nelle).
Ched'è o chedè (che il Belli scrive quasi sempre ch'edè) vale che cos'è. È forse una corruzione del quid est latino; oppure è fatto per ragion d'armonia, come quando noi per o congiunzione, seguendovi una parola che cominci per vocale, facciamo od.
Si sono contrassegnati coll'accento grave o acuto (a seconda che la voce è larga o stretta) que' troncamenti d'infiniti, che i Romaneschi pronunziano accentati sull'ultima vocale, come parlà (parlare), avé (avere), sentì (sentire), ecc.; e coll'apostrofo quelli che sogliono pronunziare coll'accento sulla penultima, come êsse' (essere), véde' (vedere), vìve' (vivere), ecc. - Si noti pure che i Romani per l'infinito vedere talora fanno véde', e tal altra vedé, a capriccio: Sémo annati a vvedé la festa, e vvoi nu' lla volete véde'?
Abbiamo contrassegnato coll'accento acuto, o col grave, le vocali e ed o, soltanto nel caso che la loro pronunzia debba essere l'opposto della comune, o se ne discosti sensibilmente.
L'accento circonflesso, come ogn'altro segno ortografico, compie nel dialetto romanesco gli stessi uffici che nella lingua comune, e le vocali da esso contrassegnate devono pronunziarsi larghe, ma non mai allungate o doppie, come talvolta usano i Francesi.
Gioverà anche di avvertire che davanti a' verbi che cominciando colla sillaba ri, significano ripetizione di azione, i Romaneschi aggiungono quasi sempre un'a: aritorno (ritorno), aripete (ripete), arisponne (risponde).
SONETTI
CONSERVATI DALLA TRADIZIONE POPOLARE
I.
LI GIUDII.(1)
(1825?)
-
In cuesto io penzo come penzi tu:
Io l'odio li giudii peggio de te; (2)
Perché nun zo'(3) cattolichi, e pperchè
Mésseno(4) in crosce er Redentor Gesù.
Ma ripescanno poi dar tetto in giù(5)
Drento la legge vecchia de Mosè,
Disce er Giudio che cquarche ccosa sc'è
Pe' scusà le su' dodici tribbù.
Infatti, (disce lui) Cristo partì
Da casa sua e sse ne venne cqua,
Co' l'idea de quer zanto venardì.(6)
Duncue, (seguita a ddì' Bbaruccabbà (7))
Subbito che(8) llui venne pe' morì,(9)
Quarchiduno l'aveva d'ammazzà !
(1) Con questo sonetto il Poeta vuole vendicare le persecuzioni crudeli e le umiliazioni fatte patire dai cattolici di Roma agl'Israeliti. La satira è terribile, perché va armata da un sillogismo stringente, e perché tocca un punto capitale della dottrina cattolica. - Nell'edizione Salviucci (vol. II, pag. 396), v'ha un altro sonetto del Belli, intitolato L'omaccio (l'omaggio) de l'Ebbrei. Eccone l'argomento. Il primo giorno di carnovale, er Cacamme, specie di giudice della Sinagoga, va al Campidoglio a fare omaggio di sudditanza e a giurare ubbidienza alle leggi del Senato e del popolo romano, davanti ai tre Conservatori o magistrati municipali di Roma. Il più anziano di questi, quando l'Ebreo ha recitato la solita formola, - Arza una scianca (gamba) e jj'arisponne: Andate. - Anticamente non faceva soltanto l'atto, ma gli posava un piede sul collo, o gli affibbiava proprio un calcio ner chitarrino. E tanta umiliazione era pure un fiore di grazia per que' poveri Ebrei; dacchè col sottoporsi ad essa e collo sborso d'una grossa somma, avevano ottenuto che il Municipio vietasse al popolaccio di andare in carnevale di saccheggiare il ghetto e a perpetrarvi impunemente ogni nefandezza, barbara usanza che fu tollerata per tutto il medio evo. In altro sonetto (vol. III, 310), il nostro Poeta accennava pure all'obbligo imposto un tempo agli Israeliti, di portare sul cappello un cenciolino, affinchè si potessero subito e dovunque riconoscerli fra la turba degl'incirconcisi. Egli insomma prediligeva questo tema doloroso, massimamente perché (crediamo noi) nell'anno trentesimoterzo dell'età sua vide ricominciarsi da Leone XII una bestiale persecuzione contro gli Ebrei. Codesto papa, che fu una brutta caricatura di Sisto V, ritolse a que' disgraziati ogni diritto di proprietà , obbligandoli a vendere entro un determinato tempo quello che già possedevano; ordinò che venissero chiusi nei ghetti con muraglie e portoni; li affidò alle paterne cure del Santo Ufficio; e non pago di tutto questo, volle anche richiamare in vigore a carico loro molte barbare usanze medioevali, tra cui quella iniquissima del calcio. - (2) Più che non li odi tu. - (3) Sono. - (4) Méssero. - (5) Ripescare dal tetto in giù, vale guardar la cosa più addentro, più profondamente. - (6) Intendi: col proposito di morire per la redenzione del genere umano. - (7) Nome volgare dato agli Ebrei, ma particolamente a' rabbini. Credo sia una corruzione di certe parole ebraiche che il rabbino canta nella Sinagoga. - (8) Dacchè. - (9) Variante: Subbito che cce venne pe' morì.
II.
ER DEPOSITO DE PAPA LEONE.
(1829)
-
In ner vedè(1) cquer zasso bbuggiarone
Lì avanti(2) a la Madonna de l'Archetto,(3)
Che lo pòrteno a un studio d'architetto,(4)
Pe' ffa' er deposito a ppapa Leone
Un villano che stava sur cantone
A ccavallo ar zomaro:- Eppuro, (ha detto)
Ce scommetto sta bbestia, ce scommetto,
Si nun vale ppiù llui(5) che sto pietrone. -
No (jj'ha risposto allora un omo grasso);(6)
Frater caro, scommetti quanto vôi,(7)
Ma pper adesso, no, vvale ppiù er zasso
Lassa che ssia finito, frater caro;
Lassa che ssia finito, e allora poi
Valerà d'avantaggio er tu' somaro. -
(1) Nel vedere. - (2) Variante: Accanto. - (3) Chiesa di Roma. - (4) Architetto e scultore sono una stessa cosa pel popolano di Roma, che non la guarda tanto nel sottile, e sa che chi fece la Cupola fece anche il Mosè. - (5) Il somaro: sarebbe stato innaturale il dir lei, riferendolo a bestia. Su questa preziosa sgrammaticatura così mi scriveva l'egregio amico prof. Santini: "Per rispetto alla grammatica, dovrebbe dir lei, perchè questo relativo riferisce a bestia. Ma quel lei, più grammaticale, sarebbe meno estetico e men logico. Perocchè il lettore tiene già piantata in capo l'idea mascolina di somaro; nè gli si è tolta via per la parola bestia, sotto la quale è pur sempre chiusa l'idea del prode animale; e però pensando tuttavia al somaro, quel lei verrebbe come una stonatura in orchestra, e forse il lettore non saprebbe a chi riferirlo, almeno a prima giunta. Questa è la ragione del bellissimo fatale monstrum, quæ di Orazio, riferito a Cleopatra. E il popolo ch'è più logico dei puri gramatici sempre, dice sempre così in simili casi." - (6) Variante: No, (jj'ha risposto un omo grasso grasso.) - (7) Vuoi.
III.
LA RRIVULUZZIONE DER 31.
-
Più cce se penza e mmeno se pô ignótte',(1)
Ch'er zanto Padre ha dd'abbozzà ,(2) perdio!,
Co' sti porcacci fijji de miggnotte,
Che lo trà tteno(3) peggio d'un giudìo.
Stasse a mme a commannà , bbrutte marmotte!,
Ve vorrebbe fa' vvéde' chi sso' io:
'Na scommunica, e annateve a fa' fótte'!
Ma ste cose, si, pproprio a ttempo mio!
Sémo o nun zémo?(4) Fa pparà dde nero
La cchiesa de San Pietro, indeggnamente;
Metti le torce ggialle, chiama er crêro,(5)
Furmina,(6) come usava anticamente:
E allora vederemo si ddavero
Mòreno(7) tutti cuanti d'accidente.(8)
(1) Inghiottire, mandar giù: detto metaforicamente per tollerare. - (2) Abbozzare è voce viva anche in Toscana, e vale: Astenersi dal prendere vendetta di offese ricevute, dissimulare. - (3) Trattano. - (4) Siamo o non siamo? - (5) Clero. - (6) Fulmina, scomunica. - (7) Muoiono. - (8) Dicono che questo sonetto sia del Pistrucci.
IV.
'NA PAVURA DE PAPA GRIGORIO.(1)
(1831)
-
L'antra sera ar quartiere a la Reale,(2)
A ssan Pietro, le scento sentinelle
Strillôrno(3) all'arme!, e a lo strillà dde cuelle
Er tammùrro(4) batté la ggenerale.
Pènzete er Papa!...(5) Bbutta l'orinale,(6)
In camiscia, e ssi e nno co' le ciafrelle,(7)
Va a li vetri...(8) e cche vede, Raffaelle?(9)
Passà fra cquattro torcie er Principale.(10)
Cor naso mezzo drento e mmezzo fôra,(11)
(Chè ttanto inzino a llì lu' sce s'arrischia(12))
- Oh! (disce) bbuggiarà ; pproprio a cquest'ora! -(13)
Povero Papa! è ttanto scacarcione,
Chè ssi 'na rondinella passa e ffischia,(14)
La pijja pe' 'na palla de cannone!
(1) Questo sonetto fu scritto quando i moti liberali del '31 non essendo ancora del tutto repressi, Gregorio XVI temeva ad ogn'istante una rivoluzione dentro Roma, e faceva rafforzare il posto di guardia al Vaticano. - (2) Così si chiama il quartiere di piazza Rusticucci, presso San Pietro. - (3) Strillarono. - (4) Tamburo. - (5) Pènsati il Papa: Figurati lo spavento del Papa! La variante popolare è non meno rapida ed efficace: Hai visto er Papa?... - (6) Perchè allora andava al letto. - (7) Ciabatte. - (8) Alla fenestra. - (9) Nome della persona a cui si fa il racconto. - (10) Il Sacramento: metafora tolta dai padroni di bottega, che in Roma si chiamano principali. - (11) Gregorio XVI aveva un naso di grandezza straordinaria, e i Romani lo chiamavano: er zor Grigorio der peparone. - (12) Lui ci si arrischia. - (13) Variante: Fa: - Bbuggiarallo! mo, ppropio a cquestora! - (14) Stupenda la variante popolare: Er Papa poveromo! è un po' cacone, E ssi ppassa 'na rondine che ffisschia, ecc.
V.
L'INCONTRO COR PADRONE VECCHIO.(1)
(1° ottobre 1831.)
-
Sor Conte... - In grazia, chi?... - Vostr'accellenza
Che! nun m'ariffigura?... - Non m'inganno... -
- Taccagna. - Ah, sì: e di dove? - Da Fiorenza. -
Che siete stato a farvi? - Er contrabbanno. -
Buono! Ed or? - Servo er Papa. - In quale essenza? -
- De sordato. - E da quanto? - Eh, mmuffalanno.(2) -
In qual'armi servite? - Culiscenza,(3)
Reggimento Zamboni, ar zu' commanno. -
Cioè? - Guardia-d'onor-de-pulizzia. -
- Corpo di Bacco a fè. - Ma cce se maggna. -
Dunque, siete contento. - Eh, ttiro via. -
Dove state? - A Marittimo-e-Ccampagna.(4) -
Ma ora? - Sto in promesso(5) a casa mia. -
Ed abitate sempre... - A la Cuccagna.(6) -
Addio, dunque, Taccagna. -
Vorrìa bascià la mano... - Oh! un militare!
Nol permetterò mai. - Come ve pare. -
(1) Questo sonetto, stampato già nell'edizione romana, è una satira contro le truppe raccogliticce, di cui il Governo pontificio si valse a reprimere nel '31 i moti liberali delle Romagne. I Cacciatori a piedi ed a cavallo che lo Zamboni raccolse a Ferrara, dall'ultima feccia delle plebi, "operarono (scrive il Farini) assassinii e tumulti a Bologna, a Lugo, a Ravenna, dovunque andarono; ed i cittadini sgomentati accoglievano gli Aust...
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