[Pagina precedente]...inconico, essendo il patetico, com'egli dice, quella profondità di sentimento che si prova dai cuori sensitivi, col mezzo dell'impressione che fa sui sensi qualche cosa della natura, p.e. la campana del luogo natìo, (così dic'egli) e io aggiungo la vista di una campagna, di una torre diroccata ec. ec. Questa è insomma la differenza che egli vuol che sia tra la poesia moderna e l'antica, chè gli antichi non provavano questi sentimenti, o molto meno di noi; onde noi secondo lui siamo in questo superiori agli antichi, e siccome in questo, secondo lui consiste veramente la poesia, però noi siamo più poeti infinitamente che gli antichi. (E questa è la poesia dello Chateaubriand del Delille del Saint-Pierre ec. ec. per non parlare dei romantici, che forse anche in qualche cosa differiscono ec. E questo patetico è quello che i francesi chiamano sensibilité e noi potremmo chiamare sensitività ). Or dunque bisogna eccitare questo patetico, questa profondità di sentimento nei cuori: e qui, com'è naturale, consisterà la somma arte del poeta. E qui è dove il Breme e tutti quanti i romantici e i Chateaubriandisti ec. ec. scappano di strada. Che cosa è che eccita questi sentimenti negli uomini? La natura, purissima, tal qual'è, tal quale la vedevano gli antichi: le circostanze, naturali, non proccurate mica a bella posta, ma venute spontaneamente: quell'albero, quell'uccello, quel canto, quell'edifizio, quella selva, quel monte, [16]tutto da per se, senz'artifizio, e senza che questo monte sappia in nessunissimo modo di dover eccitare questi sentimenti, nè ch'altri ci aggiunga perchè li possa eccitare, nessun'arte ec. ec. In somma questi oggetti, insomma la natura da per se e per propria forza insita in lei, e non tolta in prestito da nessuna cosa, sveglia questi sentimenti. Ora che faceano gli antichi? dipingevano così semplicissimamente la natura, e quegli oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza questi sentimenti, e li sapevano dipingere e imitare in maniera che noi li vediamo questi stessi oggetti nei versi loro, cioè ci pare di vederli, per quanto è possibile, quali sono in natura, e perchè in natura ci destano quei sentimenti, anche dipinti e imitati con tanta perfezione ce li destano egualmente, tanto più che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro vero lume, e coll'arte sua ci ha preparati a riceverne quell'impressione, dovechè in natura, e gli oggetti di qualunque specie sono confusi insieme, e in vederli spessissimo non ci si bada, (qui cade la gran facoltà delle arti imitative di fare per lo straordinario modo in cui presentano gli oggetti comuni, vale a dire così imitati, che si considerino nella poesia, dovechè nella realtà non si consideravano, e se ne traggano quelle riflessioni ec. ec. che nella realtà per esser comuni non somministravano ec. ec. come il Gravina nella Ragion poet.) e bisogna poi perchè producano quei tali sentimenti andarli a prendere pel loro verso: ed ecco ottenuto dagli antichi il grand'effetto, che domandano i romantici, ed ottenuto in modo che ci rapiscono e ci sublimano e c'immergono in un mare di dolcezza, e tutte le età e tutti i secoli, e tutti i grandi uomini e poeti che son venuti dopo di loro, ne sono testimoni. Ma che? quando questi poeti, imitavano così la natura, e preparavano questa piena di sentimenti ai lettori, essi stessi o non la provavano, o non dicevano di provarla; semplicissimamente, come pastorelli, descrivevano quel che vedevano, e non ci aggiugnevano niente del loro; ecco il gran peccato della poesia antica, per cui, non è più poesia, e i moderni vincono a cento doppi gli antichi ec. ec. E non si avvedono i romantici, che se questi sentimenti son prodotti dalla nuda natura, per destarli bisogna imitare la nuda natura, e quei semplici e innocenti oggetti, che per loro propria forza, inconsapevoli producono nel nostro animo quegli effetti, bisogna trasportarli come sono nè più nè meno nella poesia, e che così bene e divinamente imitati, aggiuntaci la maraviglia e l'attenzione alle minute parti loro che nella realtà non si notavano, e nella imitazione si notano, è forza che destino in noi questi stessissimi sentimenti che costoro vanno cercando, questi sentimenti che costoro non ci sanno di grandissima lunga destare; e che il poeta quanto più parla in persona propria e quanto più aggiunge di suo, tanto meno imita, (cosa già notata da Aristotele, al quale volendo o non volendo senz'avvedersene si ritorna) e che il sentimentale non è prodotto dal sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura qual ella è bisogna imitare, ed hanno imitata gli antichi, onde una similitudine d'Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti, e un'ode d'Anacreonte, vi destano una folla di fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza paragone più che cento mila versi sentimentali; perchè quivi parla la natura, e qui parla il poeta: e non si [17]avvedono che appunto questo grand'ideale dei tempi nostri, questo conoscere così intimamente il cuor nostro, questo analizzarne, prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti affetti, quest'arte insomma psicologica, distrugge l'illusione senza cui non ci sarà poesia in sempiterno, distrugge la grandezza dell'animo e delle azioni; (v. quel che ho detto in altro pensiero) e che mentre l'uomo (preso in grande) si allontana da quella puerizia, in cui tutto è singolare e maraviglioso, in cui l'immaginazione par che non abbia confini, da quella puerizia che così era propria del mondo a tempo degli antichi, come è propria di ciascun uomo al suo tempo, perde la capacità di esser sedotto, diventa artificioso e malizioso, non sa più palpitare per una cosa che conosce vana, cade tra le branche della ragione, e se anche palpita (perchè il cuor nostro non è cangiato ma la mente sola), questa benedetta mente gli va a ricercare tutti i secreti di questo palpito, e svanisce ogn'ispirazione, svanisce ogni poesia; e non si avvedono che s'è perduto il linguaggio della natura, e che questo sentimentale non è altro che l'invecchiamento dell'animo nostro, e non ci permette più di parlare se non con arte, e che quella santa semplicità , che dalla natura non può sparire perchè la natura coll'uomo non invecchia, e la qual sola ci può destare quei veri e dolci sentimenti che andiamo cercando, non è più propria di noi come era propria degli antichi, e che però per parlare come questa semplicità parla, e come insegna la natura, e destare quei sentimenti che la sola natura può destare, è forza in questo tristissimo secolo di ragione e di lume, che fuggiamo da noi stessi, e vediamo come parlavano gli antichi che erano ancora fanciulli, e con occhi non maliziosi nè curiosacci ma ingenui e purissimi vedevano la santa natura e la dipingevano: e insomma non si avvedono che essi amici della natura sola, vengono in effetto a predicar l'arte, e noi amici dell'arte veniamo verissimamente a predicar la natura. Qui cadrebbe in acconcio il discorrere dell'affettazione che è il vizio generale nelle arti belle e abbraccia quasi tutti i vizi, e come il sentimentale sia facilissimamente pura affettazione, e come spessissimo invece di destare quei sentimenti che vorrebbe, gli spenga, quando forse quel tale oggetto naturale o veduto o descritto li veniva destando, e come questi sentimenti sieno d'infinita verecondia ec. ec. Ma quel ridurre che fa il Breme la poesia moderna al solo patetico (distinguetelo pur quanto volete dal malinconico come di sopra ho detto), quasi che il sublime, l'impetuoso, l'esultante, il giubilante (so bene che anche la gioja può esser patetica, ma non nei casi ch'io dico) il grazioso disinvolto e insomma quasi tutta la poesia degli antichi, l'epopea, la lirica quando non è sentimentale, i cantici di trionfo, le descrizioni delle battaglie, i salmi di Davidde le odi di Anacreonte ec. ec. ec. non fosse poesia, o almeno ai moderni non paresse più tale, o almeno (non si sa poi perchè, quando non si ammettano le due cose precedenti) dai moderni non dovesse più esser coltivata; come non deve parere una pazzia difficile a credere che sia caduta in testa d'un uomo savio? Dunque Virgilio non è poeta altro che nel quarto dell'Eneide, e nell'episodio di Niso ed Eurialo, e che so io? dunque [18]non ci sarà più altro che un solo genere di poesia? e in uno stesso componimento non si dovrà più tenere altro che un tuono solo? (E dopo tutto questo ci rinfacciano la monotonia delle favole antiche.) Ma che? abbiamo mutato natura affatto? non c'è più gioia se non mezzo malinconica, non c'è più ira, non c'è più grandezza e altezza di pensieri, senza quel condimento di patetico ec. ec.? (E se la poesia è arte imitativa e il suo fine è il dilettare, nè deve imitare una cosa sola, nè una sola cosa diletta ec. E in genere non pare che il Breme faccia gran caso della natura e del fine della poesia che consiste in dilettare col mezzo della maraviglia prodotta dall'imitazione ec.) Ma queste son follie, di cui è soverchio parlare. A tener dietro con diligenza ai ragionamenti del Breme ci si scopre una contraddizione nascosta, ma realissima e fondamentale così del suo sistema come del romantico. Da principio dice che gli antichi credevano tutto e si persuadevano di mille pazzie, che l'ignoranza il timore i pregiudizi e somministravano allora gran materia alla loro poesia, e non possono più somministrarne ai tempi nostri; insomma evidentemente par che venga a conchiudere, che la poesia nostra bisogna che sia ragionevole, e in proporzione coi lumi dell'età nostra, e in fatti dice che ce la debbono somministrare la religione, la filosofia, le leggi di società ec. ec. E così dicono i romantici. Ma se così è, ecco l'illusione sparita, e se il poeta non può illudere non è più poeta, e una poesia ragionevole, è lo stesso che dire una bestia ragionevole ec. ec. E i romantici, non che facciano la poesia ragionevole, vanno in cerca di mille superstizioni e delle più pazze cose che si possano mai pensare: il Breme poi dice che l'immaginazione anche al presente ha la sua piena forza, e desidera di essere invasa rapita ec. e ANCHE sedotta (qui vi voleva) purchè non da cose AL TUTTO arbitrarie nè lontane da quel Vero ec. In queste parole e specialmente in quell'anche e in quell'al tutto, mi par di scorgere chiarissimamente l'angustia del metafisico, che vedendo la linea del suo ragionamento torcersi e piegare, cerca di rimediarci colle parole. Ma poichè finalmente affermate che la nostra immaginazione ha bisogno d'esser sedotta, (e in seguito poi lo conferma il Breme senza nessuna dubitazione in parecchi altri luoghi) il vostro ragionamento va tutto a terra: chè quando uno di noi si mette a leggere una poesia sapendo di dover esser sedotto e desiderando di esserlo, tanto crede al più falso quanto al meno falso, tanto crede al Milton quanto a Omero, tanto agli spettri del Bürger quanto all'inferno dell'Odissea e dell'Eneide; e quel dire che le finzioni non debbono essere al tutto arbitrarie è una miseria, quasi che la immaginativa dei moderni potesse essere ingannata di tanto solo, e non più, e l'intelletto nostro nel mezzo della lettura e dell'inganno della fantasia non comprendesse egualmente la falsità delle invenzioni del Klopstock e di quelle di Omero e di Virgilio. Il tutto sta se l'immaginazione nostra possa e debba esser sedotta dalla poesia o no, se sì tutti i vostri ragionamenti seguenti sono attaccati collo sputo, e il poeta deve pensare a sedurre come crede meglio, e s'egli non sa sedurre, la colpa è sua, e non del genere che ha scelto. Un'altra svista del Breme (e probabilmente di tutti i suoi settari) è dove parlando della mitologia greca, dice che la natura è vita, che la fantasia umana e la poesia si compiace in immaginare che tutto viva, cioè conosca di essere, e qui si diffonde in magnificare [19]questa sorgente della poesia moderna che consiste in non guardare nessuna cosa con noncuranza, in attribuir senso a ogni cosa e riconoscer vita sotto tutte le possibili forme, in avvivare insomma la na...
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