[Pagina precedente]... suo bue, già venduto, al macellaio compratore per essere ammazzato, e questo sul punto dell'operazione, da principio dimorò sospeso e incerto di partire o di restare, di guardare o di torcere il viso, e finalmente avendo vinto la curiosità , e veduto stramazzare il bue, si mise a piangere dirottamente. L'ho udito da un testimonio di vista.
Chi mi chiedesse qual sia secondo me il più eloquente pezzo italiano, direi le due canzoni del Petrarca Spirto gentil ec. e Italia mia ec. se concedessi qualche cosa al Tasso ch'era in verità eloquente, e principalmente parlando di se stesso, ed eccetto il Petrarca, è il solo italiano veramente eloquente. La sventura in gran parte lo fece tale, e l'occorrergli spessissimo di difendersi ec. e in qualunque modo parlar di se, perch'io sosterrò sempre che gli uomini grandi quando parlano di se diventano maggiori di se stessi, e i piccoli diventano qualche cosa, essendo questo un campo dove le passioni e l'interesse e la profonda cognizione ec. non lasciano campo all'affettazione e alla sofisticheria cioè alla massima corrompitrice dell'eloquenza e della poesia, non potendosi cercare i luoghi comuni quando si parla di cosa propria, dove necessariamente detta la natura e il cuore, e si parla di vena, e di pienezza di cuore. Onde quello che si dice della utilità derivante agli scrittori dal trattare materie presenti, a miglior dritto si dee dire del parlare di se stesso comunque paia a prima vista che il parlar di se non debba interessar gran fatto gli uditori, [30]cosa falsissima: e si veda nel migliore e più celebre pezzo del Bossuet, quello in fine all'Oraz. di Condé che effetto fa l'introduzione di se stesso, al qual pezzo io paragono quello di Cicerone nella Miloniana (ch'è forse la sua migliore Orazione come questo è forse il più gran pezzo di essa) il quale si combina parimente ch'è nel fine, dove per intenerire i giudici introduce menzione di se stesso, e mi par che faccia un effetto incredibile, come e più di quello che fa il Bossuet, tanto può l'introdurre se stesso nei discorsi eloquenti, al contrario di quello che si crede.
La duttilità della lingua francese si riduce a potersi fare intendere, la facilità di esprimersi nella lingua italiana ha di più il vantaggio di scolpir le cose coll'efficacia dell'espressione, di maniera ch'il francese può dir quello che vuole, e l'italiano può metterlo sotto gli occhi, quegli ha gran facilità di farsi intendere, questi di far vedere. Però quella lingua che purchè faccia intendere non cerca altro nè cura la debolezza dell'espressione, la miseria di certi tours (per li quali la lodano di duttilità ) che esprimono la cosa ma freddissimamente e slavatissimamente e annacquatamente è buona pel matematico e per le scienze; nulla per l'immaginazione la quale è la vera provincia della lingua italiana: dove però è chiaro che l'efficacia non toglie la precisione anzi l'accresce, mettendo quasi sotto i sensi quello che i francesi mettono solo sotto l'intelletto, ond'ella non è men buona per le scienze che per l'eloquenza e la poesia, come si vede nella precisa efficacia e scolpitezza evidente del Redi del Galilei ec.
Nella quistione se [si] debba dire be ce de ec. o bi ec. e però abbiccì o abbeccè della quale v. il Manni Lez. di lingua toscana, io senza cercare l'uso di qual città debba far legge ma quale sia più ragionevole preferisco l'abbeccè ch'è anche nostro marchegiano, per ragioni cavate dalla natura la quale pare che quel riposo vocale per la cui necessità soltanto si dà il nome alle consonanti, lasciando le vocali sole come sono, (quantunque gli antichi greci ebrei ec. nominassero anche le vocali) l'abbia ristretto all'e onde provatevi a pronunziar sola una consonante p.e. l'f o l'n: (metto queste sulle quali non cade la quistione nè l'uso di pronunziare piuttosto in un modo che in un altro) vedrete che la pronunzia non potendo star sospesa e finita nella pura consonante, e dovendo cascare in vocale vi casca nell'e: così vediamo che i fanciulli nel leggere e chiunque strascina la pronunzia delle parole, a quelle lettere che non hanno vocale dopo aggiunge un mezzo e, come in aredenetemenete ine pace ec. Però gli ebrei (e credo che così sia in tutte le lingue orientali) ponendo sempre un riposo dopo ogni consonante o espresso o sottinteso, quando manca la vocale, ci mettono o ci suppongono lo sceva tanto in mezzo che in fine delle parole, il quale talora si pronunzia talora no, e in genere si può molto propriamente rassomigliare all'e muta dei francesi, i quali non hanno altra vocale muta che l'e, nuova prova di quel ch'io dico.
Io1 per esprimere l'effetto indefinibile che fanno in noi le odi di Anacreonte non so trovare similitudine ed esempio più adattato di un [31]alito passeggero di venticello fresco nell'estate odorifero e ricreante, che tutto in un momento vi ristora in certo modo e v'apre come il respiro e il cuore con una certa allegria, ma prima che voi possiate appagarvi pienamente di quel piacere, ovvero analizzarne la qualità , e distinguere perchè vi sentiate così refrigerato già quello spiro è passato, conforme appunto avviene in Anacreonte, che e quella sensazione indefinibile è quasi istantanea, e se volete analizzarla vi sfugge, non la sentite più, tornate a leggere, vi restano in mano le parole sole e secche, quell'arietta per così dire, è fuggita, e appena vi potete ricordare in confuso la sensazione che v'hanno prodotta un momento fa quelle stesse parole che avete sotto gli occhi. Questa sensazione mi è parso di sentirla, leggendo (oltre Anacreonte) il solo Zappi.
Il gusto presente per la filosofia non si dee stimare passeggero nè casuale, come fu varie volte anticamente p.e. appresso i Greci al tempo di Platone dopo Socrate, e appresso i Romani in altri tempi ancora, ma fra i nobili e gli scioli come presentemente al tempo di Luciano, quando mantenevano il filosofo come ingrediente di corte e di famiglia illustre, e si trattenevano benchè scioccamente con lui ec. V. Luciano fra le altre opere nel trattato De mercede conductis. In questi tali tempi era effetto di moda, e non avendo il suo principio radicale nello stato dei popoli poteva passare e passava come ogni altra moda, sicch'era cosa accidentale che sopravvenisse questo gusto piuttosto che un altro. Ma presentemente il commercio scambievole dei popoli, la stampa ec. e tutto quello che ha tanto avanzato l'incivilimento cagiona questo amore dei lumi e per conseguenza della filosofia, e questo gusto filosofico che si manifesta nelle opere più alla moda e quello spirito senza il quale si può dire che nessun'opera moderna incontra: onde questo gusto avendo la sua ferma radice nella condizione presente dei popoli si dee stimare durevole e non casuale nè passeggero e molto differente da una moda.
La prosa per esser veramente bella (conforme era quella degli antichi) e conservare quella morbidezza e pastosità composta anche fra le altre cose di nobiltà e dignità , che comparisce in tutte le prose antiche e in quasi nessuna moderna, bisogna che abbia sempre qualche cosa del poetico, non già qualche cosa particolare, ma una mezza tinta generale, onde ci sono certe espressioni tecniche p.e. che essendo bassissime nella poesia sono basse nella prosa; (giacchè qui non parlo di quelle che son basse e plebee assolutamente le quali anche talvolta sconverranno meno alla buona prosa di quelle ch'io dico qui) come altre che sono basse nella poesia, alla prosa non disconvengono affatto: p.e. quei versi del Voltaire: Je chante le héros qui régna sur la France Et par droit de conquête, et par droit de naissance. Quel tecnicismo pessimo in questi versi, non disdice in prosa. Da questo ch'io ho detto si vede quanto debba diventare come infatti diventa geometrica arida sparuta dura, asciutta ossuta, e dirò così, somigliante a una persona magra che abbia le punte dell'ossa tutte in fuori, quella prosa tutta sparsa d'espressioni metafore frasi locuzioni modi tecnici che usa presentemente massime in Francia, e quanto lontana da quella freschezza e carnosità morbida sana vermiglia vegeta florida, e da quella pieghevolezza e da quella dignità che s'ammira in tutte quelle prose che sanno d'antico.
[32]La tartaruga lunghissima nelle sue operazioni ha lunghissima vita. Così tutto è proporzionato nella natura, e la pigrizia della tartaruga di cui si potrebbe accusar la natura non è veramente pigrizia assoluta cioè considerata nella tartaruga ma rispettiva. Da ciò si possono cavare molte considerazioni.
Che il popolo latino non chiamasse testam il capo, come il nostro lo chiama burlescamente la Coccia, e da questo non sia venuta la voce italiana testa e la francese tête?
Quello che dice il Metastasio negli Estratti della poet. d'Aristot. il Gravina nel Trattato della tragedia dove parla del numero cap.26. e ho detto io nel Discorso sul Breme intorno alla materia dell'imitazione la quale può esser ad arbitrio, come imitare in marmo in bronzo in verso in prosa ec. è vero: e quello che ho detto io specialmente mi par che sia vero senza eccezione: ma quanto al Metastasio poich'egli lo dice per difender l'Opera, bisogna notare che gli elementi della materia non debbon esser discordanti, che allora la imitazione è barbara: come forse si può dir dell'Opera dove da una parte è l'uomo vero e reale per imitar l'uomo, cioè la persona rappresentata, dall'altra è il canto in bocca dell'uomo, per imitare non il canto ma il discorso della stessa persona. Questa osservazione (considerazione) si può estendere a molte altre materie d'imitazione mal composte. Quanto al canto però si osservi che anche gli antichi cantavano le tragedie come dice il loro nome, se ben questo fu forse ne' primi tempi quando la tragedia era veramente in mano di gentaglia sua sciocca inventrice e il costume o non durò, o se durò, fu perchè avea cominciato così e non si ardì o non si volle mutare, e questa forse fu la cagione ancora che fece fare la tragedia e la commedia in verso, di maniera che da questa pratica venuta da vile origine non si dee stimare il giudizio de' greci e degli antichi su questo particolare: i quali forse avrebbero fatto ambedue in prosa se l'una o l'altra fosse stata invenzione del gusto, e non parto stentato di diversissime circostanze e usanze vecchie ec.
È osservabile che [in] Celso nel quale è singolarmente notata (e lodata) la semplicità e facilità dello stile per le quali si sarà discostato meno degli altri dal latino volgare, sono frequentissime e moltissime frasi costruzioni, usi di parole, locuzioni ec. ed anche parole assolutamente o prette italiane o che si accostano alle italiane io dico di quelle che comunemente non s'hanno per derivate dal latino nè per comuni alle due lingue ma proprie della nostra, e che trovandole non presso Celso ma presso qualche scrittore latino moderno, le stimeressimo poco meno che barbarismi, anche presentemente, cioè non ostante che in effetto si trovino appresso Celso eccetto se non ci ricordassimo espressamente, o ci fosse citata l'autorità di lui. Per es. dice nel libro 1. capo 3. dopo il mezzo: interdum valetudinis causa recte fieri, experimentisbcredo; CUM EO TAMEN NE quis qui valere et senescere volet, hoc quotidianum habeat. (Con questo però che ec. cioè, purchè locuzione pretta italiana.) E nel lib.2.c.8. circa il fine: quos lienis male habet, si tormina prehenderunt, deinde versa sunt vel in aquam inter cutem, vel in intestinorum laevitatem, vix ulla medicina periculo subtrahit. Si trova però frase simile cioè prehendo in significato di cogliere, ma presso i Comici latini. E parimente l.2. c.11. nel fine: huc potius confugiendum est, cum eo tamen ut sciamus, hic ut nullum periculum, ita levius auxilium esse. E c.17. alquanto sopra il mezzo: recte medicina ista tentatur, cum eo tamen ne praecordia dura sint, neve etc. e lib.3. c.5. sul fine: scire
licet... satius esse consistente jam incremento febris aliquid offerre, quam increscente... cum eo tamen ut nullo tempore is qui deficit ...
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