[Pagina precedente]...nella società , può servir di prova a questo sistema, e il veder che le bestie non hanno tra loro altra società che per certi bisogni, del resto vivono insieme senza pensar l'una all'altra, e che l'istinto si vien perdendo a proporzione che la natura è alterata dall'arte onde è grande nelle bestie e nei fanciulli, piccolo negli uomini fatti, ma ciò non prova che l'uomo sia fatto per l'arte ec. giacchè la natura gli aveva dato quegl'istinti ch'egli perde poi ec. Sì che si potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e l'uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del corpo umano più atta alla società ec.
[57]S'è osservato che è proprietà degli antichi poeti ed artisti il lasciar molto alla fantasia ed al cuore del lettore o spettatore. Questo però non si deve prendere per una proprietà isolata ma per un effetto semplicissimo e naturale e necessario della naturalezza con cui nel descrivere imitare ec. lasciano le minuzie e l'enumerazione delle parti tanto familiare ai moderni descrivendo solo il tutto con disinvoltura, e come chi narra non come chi vuole manifestamente dipingere muovere ec. Nella stessa maniera Ovidio il cui modo di dipingere è l'enumerare (come i moderni descrittivi sentimentali ec.) non lascia quasi niente a fare al lettore, laddove Dante che con due parole desta un'immagine lascia molto a fare alla fantasia, ma dico fare non già faticare, giacchè ella spontaneamente concepisce quell'immagine e aggiunge quello che manca ai tratti del poeta che son tali da richiamar quasi necessariamente l'idea del tutto. E così presso gli antichi in ogni genere d'imitazione della natura.
I nostri veri idilli teocritei non sono nè le egloghe del Sanazzaro nè ec. ec. ma le poesie rusticali come la Nencia, Cecco da Varlungo ec. bellissimi e similissimi a quelli di Teocrito nella bella rozzezza e mirabile verità , se non in quanto sono più burleschi di quelli che pur di burlesco hanno molto spesso una tinta.
Circa le immaginazioni de' fanciulli comparate alla poesia degli antichi vedi la verissima osservazione di Verter sul fine della lettera 50. Una terza sorgente degli stessi diletti e delle stesse romanzesche idee sono i sogni.
Il principio universale dei vizi umani è l'amor proprio in quanto si rivolge sopra lo stesso essere, delle virtù, lo stesso amore in quanto si ripiega sopra altrui, sia sopra gli altrui, sia sopra la virtù, sia sopra Dio. ec.
Di alcuni principi che si sieno uccisi per evitare qualche grande sventura o per non saperne sopportare qualcuna già sopraggiunta loro, si legge, come di Cleopatra Mitridate ec. e più, anzi forse solamente fra gli antichi. Ma di quelli che si sieno uccisi per le altre cagioni che producono ora il suicidio, come la malinconia l'amore ec. non si legge ch'io sappia in nessuna storia. Eppure lo scontento della vita e la noia e la disperazione dovrebb'essere tanto maggiore in loro [58]che negli altri, in quanto questi possono supporre se non colla ragione (la quale è ben persuasa del contrario) almeno coll'immaginazione (che non si persuade mai) che ci sia uno stato miglior del loro, ma quelli già nell'apice dell'umana felicità , trovandola vana anzi miserabilissima, non possono più ricorrere neppur col pensiero in nessun luogo, arrivati per così dire al confine e al muro, e quindi dovrebbono guardar questa vita come abitazione veramente orribile per ogni parte e disperata, se già i loro desideri non si volgono ai gradi e condizioni inferiori, ovvero a quei miserabili accrescimenti di felicità che un principe si può sognare, come conquiste ec.
Disse la Dama: Voi mi avete rappacificata colla poesia: Godo assai, rispose quegli, d'avere riconciliate insieme due belle cose.
Non ci sarebbe tanto bisogno della viva voce del maestro nelle scienze se i trattatisti avessero la mente più poetica. Pare ridicolo il desiderare il poetico p.e. in un matematico; ma tant'è: senza una viva e forte immaginazione non è possibile di mettersi nei piedi dello studente e preveder tutte le difficoltà ch'egli avrà e i dubbi e le ignoranze ec. che pure è necessarissimo e da nessuno si fa nè anche da' più chiari, che però non s'impara mai pienamente una scienza difficile p.e. le matematiche dai soli libri.
Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia.
Per un'Ode lamentevole sull'Italia può servire quel pensiero di Foscolo nell'Ortis lett.19 e 20 Febbraio 1799. p.200. ediz. di Napoli 1821.
Una facezia del genere ch'io ho detto in un altro pensiero essere stato proprio degli antichi è quella degli Antiocheni che dicevano dell'imperatore Giuliano che aveva una barba da farne corde, (Iulian. in Misopogone) la qual facezia allora applaudita e sparsa per tutta la città e capace di muover Giuliano a scrivere un libro ironico e giocoso (certo elegante e negli scherzi si può dir Attico e Lucianesco e infinite volte superiore ai suoi Caesares, senza sofistumi nello stile nè in altro, e senza affettazioni nè pur nella lingua per altro elegante e ricca e ciò perchè questo è un libro scritto per circostanza e non ?????????????come i Caesares) contro gli Antiocheni, ora ai nostri delicati, francesi ec. parrebbe grossolana, e di pessimo gusto. V. p.312.
E tanto è miser l'uom quant'ei si reputa, disse eccellentemente il Sanazzaro egloga ottava. Ora in quello stato ch'io diceva in un pensiero poco sopra, egli non riputandosi misero nè anche sarebbe stato, come ora tanti in condizione alquanto [59]simile a quella che i'ho detto, poco riputandosi miseri, lo sono meno degli altri, e così tutti secondo che si stimano infelici.
Quando l'uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi, non si vede più se non l'oggetto amato, si sta in mezzo alla moltitudine alle conversazioni ec. come si stasse in solitudine, astratti e facendo quei gesti che v'ispira il vostro pensiero sempre immobile e potentissimo senza curarsi della maraviglia nè del disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce noioso ec. fuorchè quel solo pensiero e quella vista. Non ho mai provato pensiero che astragga l'animo così potentemente da tutte le cose circostanti, come l'amore, e dico in assenza dell'oggetto amato, nella cui presenza non accade dire che cosa avvenga, fuor solamente alcuna volta il gran timore che forse forse gli potrà essere paragonato.
Io soglio sempre stomacare delle sciocchezze degli uomini e di tante piccolezze e viltà e ridicolezze ch'io vedo fare e sento dire massime a questi coi quali vivo che ne abbondano. Ma io non ho mai provato un tal senso di schifo orribile e propriamente tormentoso (come chi è mosso al vomito) per queste cose, quanto allora ch'io mi sentiva o amore o qualche aura di amore, dove mi bisognava rannicchiarmi ogni momento in me stesso, fatto sensibilissimo oltre ogni mio costume, a qualunque piccolezza e bassezza e rozzezza sia di fatti sia di parole, sia morale sia fisica, sia anche solamente filologica, come motti insulsi, ciarle insipide, scherzi grossolani, maniere ruvide e cento cose tali.
Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando, benchè tutto il resto del mondo fosse per me come morto. L'amore è la vita e il principio vivificante della natura, come l'odio il principio distruggente e mortale. Le cose son fatte per amarsi scambievolmente, e la vita nasce da questo. Odiandosi, benchè molti odi sono anche naturali, ne nasce l'effetto contrario, cioè distruzioni scambievoli, e anche rodimento e consumazione interna dell'odiatore.
Quella miserabile lussuria di epiteti, sinonimi, riempiture, chevilles, ec. che forma il comunissimo orpello de' nostri classici cinquecentisti (e credo anche del Poliziano) però non paragonabili ai latini ma più ai greci quanto allo stile, non si trova o più rara assai in Dante e nel Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di parole e castigatezza di ornati e significazione conveniente e opportunità di tutte le voci ec. come [60]in quello del Petrarca messo dall'Alfieri avanti alla sua Virginia: Virginia appresso al fero padre armato Di disdegno di ferro e di pietate. Trionfo Castità . Così anche le rime del Petrarca sono molto più spontanee, e con ciò tutto quello che dipende nel verso dalla necessità della rima che alle volte fa aggiungere intieri versi che si potrebbono torre di netto ec. come nei cinquecentisti.
Una bella e notabile similitudine è quella dell'Alamanni nel Girone Canto 17. di un mastino e un lupo che si scontrino a caso (così dice) per una selva, o ec. e la loro sorpresa scambievole e timore e rabbia subita e azzuffamento: come pur quella del Martelli (non mi ricordo quale) di una villanella cercante funghi e corrente dove vede biancheggiare una foglia secca ec. prendendola per un fungo.
È pure un bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accadde il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato ec. e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre nè possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l'idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui pur ci piace di ricordarci con qualche speciale circostanza, come [chi] va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vederne qualche cosa di più che altrove non ostante che il luogo sia p.e. mutato affatto da quel ch'era allora ec. Così negli anniversari. Ed io mi ricordo di aver con indicibile affetto aspettato e notato e scorso come sacro il giorno della settimana e poi del mese e poi dell'anno rispondente a quello dov'io provai per la prima volta un tocco di una carissima passione. Ragionevolezza benchè illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec. civili ed ecclesiastiche in questo riguardo.
A ciò che ho detto in altro pensiero intorno all'eloquenza di chi parla di se stesso si può aggiungere e l'esempio continuo di Cicerone che piglia nuove forze ogni volta che parla di se come fa tuttora, e quello di Lorenzino de' Medici nella sua Apologia che Giordani crede il più gran pezzo d'eloquenza italiana e non vinto da nessuno [61]straniero. Ora questo è un'Apologia di se stesso. Ed è mirabile com'egli che scriveva per se e non poteva andar dietro alle sofisticherie, abbia trasportata come un Atlante l'eloquenza greca e latina tutta nel suo scritto dove la vedete viva e tal quale, e tuttavia vi par nativa e non punto traslatizia con una disinvoltura negli artifizi più fini dell'eloquenza insegnati e praticati ugualmente dagli antichi, una padronanza negligenza ec. così nello stile e condotta ordine ec. interno, come nell'esterno, cioè la lingua ec. inaffettatissima e tutta italiana nella costruzione ec. quando lo stile e la composizione e i modi anche particolari e tutto è latino e greco. E ciò mentre gli altri miserabili cinquecentisti volendo seguire la stessa eloquenza e maestri ec. come il Casa, facevano quelle miserie di composizione di stile di lingua affettatissima e più latina che italiana. Onde i due soli eloquenti del cinquecento sono Lorenzino qui e il Tasso qua e là per tutte le sue opere che ambedue parlano sempre di se e il Tasso più dov'è più eloquente e bello e nobile ec. cioè nelle lettere che sono il suo meglio. La migliore orazione di Demostene è quella per la corona.
Gli ardiri rispetto a certi modi epiteti frasi metafore, tanto commendati in poesia e anche nel resto della letteratura e tanto usati da Orazio non sono bene spesso altro che un bell'uso di quel vago e in certo modo quanto alla costruzione, irragionevole, che tanto è necessario al poeta. Come in Orazio dove chiama mano di bronzo quella della necessità (ode alla fortuna) ch'è un'idea chiara, ma espressa vagamente (errantemente) così tirando l'epi...
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