[Pagina precedente]... e di più fino discernimento rispetto a questi irritamenti corporali, così nella grazia riguardo allo spirito. V. se vuoi Montesquieu l. più volte cit. De la délicatesse. Che se l'effetto rispettivo della grazia de' due sessi è molto maggiore di un irritamento, la cagione non è la sola grazia, come non la sola bellezza negli stessi casi. Ma la grazia irrita allora una parte sensibilissima dell'uomo, che è l'inclinazione scambievole all'uno de' due sessi, la quale svegliata e infiammata produce effetti che la grazia per se, ed in qualunque altro caso non produrrebbe, quando anche fosse in molto maggior grado. Così nella pittura farà molto più effetto la grazia di una donna ec. che di un uomo, la grazia anche di un uomo, che quella di un bel cavallo, perchè sempre la inclinazione che abbiamo ai nostri simili viene ad essere stuzzicata naturalmente più da quello che da questo oggetto. Lo stesso dite di una pianta rispetto a un cavallo dipinto o scolpito, o di un edifizio dipinto, sebbene in questo caso agisce molto la considerazione in cui noi prendiamo quell'oggetto, cioè di opera umana, e perciò forse più efficace in noi. Del resto tutto il medesimo accade in materia del bello.
(17. Agosto 1820.)
Le illusioni per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle, ancorchè sapute vane. E perdute una volta, nè si perdono in modo che non ne resti [214]una radice vigorosissima, e continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta l'esperienza, e certezza acquistata. Io ho veduto persone savissime, espertissime, piene di cognizioni di sapere e di filosofia, infelicissime, perdere tutte le illusioni, e desiderar la morte come unico bene, e augurarla ancora come tale, agli amici loro: poco dopo, bensì svogliatamente, ma tuttavia riconciliarsi colla vita, formare progetti sul futuro, impegnarsi per alcuni vantaggi temporali di quegli stessi loro amici ec. Nè poteva più essere per ignoranza o non persuasione certa e sperimentale della nullità delle cose. Ed a me pure è avvenuto lo stesso cento volte, di disperarmi propriamente per non poter morire, e poi riprendere i soliti disegni e castelli in aria intorno alla vita futura, e anche un poco di allegria passeggera. E quella disperazione e quel ritorno, non avevano cagion sufficiente di alternarsi, giacchè la disperazione era prodotta da cause che duravano quasi intieramente nel tempo ch'io riprendeva le mie illusioni. Tuttavia qualche piccolo motivo di consolarmi, bastava all'effetto, ed è cosa indubitata che le illusioni svaniscono nel tempo della sventura, (e perciò è verissimo, e l'ho provato anch'io, che chi non è stato mai sventurato, non sa nulla. Io sapeva, perchè oggidì non si può non sapere, ma quasi come non sapessi, e così mi sarei regolato nella vita.) e ritornano dopo che questa è passata, o mitigata dal tempo e dall'assuefazione. Ritornano con più o meno forza secondo le circostanze, il carattere, il temperamento corporale, e le qualità spirituali tanto ingenite come acquisite. Quasi tutti gli scrittori di vero e squisito sentimentale, dipingendo la disperazione e lo scoraggiamento totale della vita, hanno cavato i colori dal proprio cuore, e dipinto uno stato nel quale [215]essi stessi appresso a poco si sono trovati. Ebbene? con tutta la loro disperazione passata, con tutto che scrivendo sentissero vivamente la natura e la forza di quelle acerbe verità e passioni che esprimevano, anzi dovessero proccurarsene attualmente una intiera persuasione ec. per potere rappresentare efficacemente quello stato dell'uomo, e per conseguenza sentissero ed avessero quasi per le mani il nulla delle cose, tuttavia si prevalevano del sentimento stesso di questo nulla per mendicar gloria, e quanto più era vivo in loro il sentimento della vanità delle illusioni, tanto più si prefiggevano e speravano di conseguire un fine illusorio, e col desiderio della morte vivamente sentito, e vivamente espresso, non cercavano altro che di proccurarsi alcuni piaceri della vita. E così tutti i filosofi che scrivono e trattano le miserabili verità della nostra natura e ch'essendo privi d'illusioni in fondo, non cercano poi altro veramente col loro libro che di crearsi, e godersi alcuni illusorii vantaggi della vita (v. Cic. pro Archia c.11.) Tant'è: la natura è così smisuratamente più forte della ragione, che ancorchè depressa e indebolita oltre a ogni credere, pure gli resta abbastanza per vincere quella sua nemica, e questo negli stessi seguaci suoi, e in quello stesso momento in cui la predicano e la divulgano; anzi con questo stesso predicare e divulgar la ragione contro la natura, la danno vinta alla natura sopra la ragione. [216]L'uomo non vive d'altro che di religione o d'illusioni. Questa è proposizione esatta e incontrastabile: Tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni uomo, anzi ogni fanciullo alla prima facoltà di ragionare (giacchè i fanciulli massimamente non vivono d'altro che d'illusioni) si ucciderebbe infallibilmente di propria mano, e la razza nostra sarebbe rimasta spenta nel suo nascere per necessità ingenita, e sostanziale. Ma le illusioni, come ho detto, durano ancora a dispetto della ragione e del sapere. È da sperare che durino anche in progresso: ma certo non c'è più dritta strada a quello che ho detto, di questa presente condizione degli uomini, dell'incremento e divulgamento della filosofia da una parte, la quale ci va assottigliando e disperdendo tutto quel poco che ci rimane; e dall'altra parte della mancanza positiva di quasi tutti gli oggetti d'illusione, e della mortificazione reale, uniformità , inattività , nullità ec. di tutta la vita. Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perder tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere avanti gli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità , di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come di altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l'uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni [217]e visioni. A riparlarci di qui a cent'anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate età , dei progressi di un incivilimento smisurato, e di un snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri.
(18-20. Agosto 1820.)
Ripetono tutto giorno i francesi che Bossuet ha soggiogato la sua lingua al suo genio. Io dico che il suo genio è stato soggiogato dalla lingua costumi gusti del suo paese. I francesi che scrivono sempre come conversano, timidissimi per conseguenza, o piuttosto codardi, come dev'esser quella nazione presso cui un tratto di ridicolo scancella qualunque più grave e seria impressione, e fa più romore degli affari e pericoli di Stato, si maravigliano d'ogni minimo ardire, e stimano sforzi da Ercole quelli che in Italia e nel resto d'Europa sono soltanto deboli argomenti d'ingegno robusto, libero, inventore e originale. E per una parte hanno ragione, perchè l'osar poco in Francia, dove la regola è di vivre et faire comme tout monde, costa assai più che l'osar molto altrove. Ma in fatti poi cercando in Bossuet questo grande ardire, e questa robustissima eloquenza, trovate piuttosto impotenza che forza, e vedrete che appena alzato si abbassa. Questo senza fallo è il [218]sentimento ch'io provo sempre leggendolo; appena mi ha dato indizio di un movimento forte, sublime, e straordinario, ed io son tutto sulle mosse per seguitarlo, trovo che non c'è da far altro, e ch'egli è già tornato a parler comme tout le monde. Cosa che produce una grande pena e disgusto e secchezza nella lettura. Questo non ha che fare colle inuguaglianze proprie dei grandi geni. Nessun genio si ferma così presto come Bossuet. Si vede propriamente ch'egli è come incatenato, e fa sforzi più penosi che grandiosi per liberarsi. E il lettore prova appunto questo medesimo stato. E perciò volendo convenire che Bossuet sia stato veramente un genio, bisogna confessare che tentando di domar la sua lingua e la sua nazione, n'è stato domato. Me ne appello a tutti gli stranieri e italiani. Se non che la voce di tutta la Francia ha tanta forza, che forma il giudizio d'Europa. E il ridirsi è quasi impossibile. Sicchè queste parole intorno a Bossuet sieno dette inutilmente.
(20. Agosto 1820.)
Non è cosa così dispiacevole come il vedere uno scrittore dopo intrapreso un gran movimento, immagine, sublimità ec. mancar come di fiato. È cosa che in certo modo rassomiglia agli sforzi impotenti di chi si vede che vorrebbe esser grande, bello ec. nello scrivere, e non può. Ma questa è più ridicola, quella più penosa. In Bossuet l'incontri a ogni momento. Una grande spinta; credi che seguiterà l'impulso, ma è già finito. Quando anche [219]il seguito del suo parlare sia forte magnifico ec. non è più fuoco naturale, ma artifiziale, e preso dai soliti luoghi. Lascio quando Bossuet non ha niente di vita neppur momentanea, e queste lagune sono immense e frequentissime. Perchè se la morale ch'egli sempre predica è sublime, sono sublimità ordinarie, e appartengono al consueto stile degli oratori, non hanno che fare coll'entusiasmo proprio e presente. Ma tu vorresti ch'egli esaurisse l'affetto ec. Non mi state a insegnare quello che tutti sanno. Dall'eccesso al difetto ci corre un gran divario. Ed è contro natura che un uomo quando si è abbandonato all'entusiasmo, ritorni in calma, appena incominciata l'agitazione. E non c'è cosa più dispettosa che l'essere arrestato in un movimento vivo e intrapreso con tutte le forze dell'animo o del corpo. Leggendo i passi più vivi di Bossuet il passaggio istantaneo e l'alternativa continua e brusca del moto brevissimo, e della quiete perfetta, vi fa sudare, e travagliare. Si accerti lo scrittore o l'oratore, che finattanto che non si stancano le sue forze naturali (non dico artifiziali ma naturali) nemmeno il lettore o uditore si stanca. E fino a quel punto non tema di peccare in eccesso. Il quale anzi è forse meno penoso del difetto, in quanto il lettore sentendosi stanco, lascia di seguir lo scrittore, e anche leggendo, riposa. Ma obbligato [220]a fermarsi prima del tempo, non può, come nell'altro caso, disubbidire allo scrittore, il quale per forza gli taglia le ali. In somma se l'eloquenza è composta di movimenti ed affetti della specie descritta, e di freddezze e trivialità mortali nel resto, allora Bossuet sarà veramente eloquente in mezzo agli eleganti del suo secolo, come dice Voltaire.
(21. Agosto 1820.)
Si dice con ragione che al mondo si rappresenta una Commedia dove tutti gli uomini fanno la loro parte. Ma non era così dell'uomo in natura, perchè le sue operazioni non avevano in vista gli spettatori e i circostanti, ma erano reali e vere.
Della natura abbiamo tutto perduto fuorchè i vizi. Veramente molti di questi non sono naturali, molti sono peggiorati e accresciuti, ma molti saranno ancora primitivi, e in ogni modo non c'è vizio primitivo che non ci rimanga. E tanto più malvagi quanto non sono contemperati colle virtù e con altre qualità che la natura avea poste in noi.
La compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade sopra oggetti amabili o per se stessi, o in modo che aggiunta la compassione lo possano divenire. E questa è la compassione che interessa e dura e si riaffaccia più volte all'anima. Maggiori calamità in un oggetto anche innocentissimo ma non amabile, come in persona vecchia e brutta, non destano che una compassione passeggera, la quale [221]finisce ordinariamente colla presenza dell'oggetto, o dell'immagine che ce ne fanno i racconti ec. (E l'anima non se ne compiace, e non la richiama.) I quali ancora bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per commuoverci momentaneamente, laddove poche parole bastano per...
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