ZIBALDONE, di Giacomo Leopardi - pagina 11
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L'uccidersi dell'uomo è una gran prova della sua immortalità.
Verri Notte Romana 5.
colloquio 6.
[41]La prima donna (del teatro, attempata) non vuol recedere dagli antichi suoi diritti.
Quello che ho detto qui sopra della difficoltà d'astenersi dall'imitare è confermato e dall'esempio del Metastasio che se è vero quello che dice il Calsabigi nella lettera all'Alfieri non volle mai leggere tragedie francesi, e da quello che scrive l'Alfieri di se nella sua Vita, e tra l'altro del Caluso che gli negò una tragedia del Voltaire ch'egli volea leggere mentre stava per comporne un'altra sullo stesso argomento.
C'è una differenza grandissima tra il ridicolo degli antichi comici greci e latini di Luciano ec.
e quello de' moderni massimamente francesi.
La differenza si conosce benissimo e dà negli occhi immediatamente.
Ma quanto all'analizzarla e diffinire in che consista, a me pare che sia questo, che quello degli antichi consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole (e quando dico moderno intendo principalmente le più moderne commedie satire e altri scritti ridicoli giacchè il Goldoni p.e.
ne aveva di quel ridicolo antico e attico e così le più antiche nostre commedie e il Berni ec.
a differenza credo dei francesi anche antichi come il Boileau ec.).
Quello degli antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un vento un soffio un fumo.
Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace, quello durevole materia di riso inestinguibile, questo al contrario.
Quello consisteva in immagini, similitudini paragoni, racconti insomma cose ridicole, questo in parole, generalmente e sommariamente parlando, e nasce da quella tal composizione di voci da quell'equivoco, da quella tale allusione di parole, da quel giucolino di parole, da quella tal parola appunto, di maniera che togliete quella allusione, scomponete e ordinate diversamente quelle parole, levate quell'equivoco, sostituite una parola in cambio d'un'altra, svanisce il ridicolo.
Ma quel de' greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nel ??????????????????paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore.
Ed erano i greci e latini inventori acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è incredibile come in quel frammento di Filemone Comico appo il Vettori Var.
Lect.
l.18.
c.17.
E la novità era cosa ordinarissima nel ridicolo degli antichi comici secondo la forza comica di ciascheduno.
E quando anche non ci fossero immagini similitudini ec.
sempre quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che non il moderno.
Ma forse e senza forse presentemente, e massime ai francesi par grossolano quel che una volta si chiamava sale attico, e piacque ai greci, popolo il più civile dell'antichità, e a' latini.
E può essere che anche Orazio avesse una simile opinione quando disse male de' sali di Plauto (esemplare di quel ridicolo ch'io dico tra' latini) e [42]infatti le Satire e l'Epistole d'Orazio non sono di così solido ridicolo come l'antico comico greco e latino, ma nè anche di gran lunga, così sottile come il moderno.
Ora a forza di motti s'è renduto spirituale anche il ridicolo, assottigliato tanto che omai non è più nè pur liquore ma un etere un vapore, e questo solo si stima ridicolo degno delle persone di buon gusto e di spirito e di vero buon tuono, e degno del bel mondo e della civile conversazione.
Il ridicolo nelle antiche commedie nasceva anche molto dalle operazioni stesse ch'erano introdotti a fare i personaggi sulla scena, e quivi ancora era non piccola sorgente di sale, nella pura azione, come nelle Cerimonie del Maffei commedia piena di vero e antico ridicolo, quel salire di Orazio per la finestra a fine d'evitare i complimenti alle porte.
Un'altra gran differenza tra il ridicolo antico e il moderno è che quello era preso da cose popolari o domestiche o almeno non della più fina conversazione, la quale poi non esisteva allora per lo meno così raffinata; ma il moderno massime il francese versa principalmente intorno al più squisito mondo, alle cose dei nobili più raffinati alle vicende domestiche delle famiglie più mondane ec.
ec.
(come anche proporzionatamente era il ridicolo d'Orazio) sicchè quello era un ridicolo che avea corpo, e come il filo d'un'arma che non sia troppo aguzzo, dura lungo tempo, dove quello come ha una punta sottilissima, (più o meno, secondo i tempi e le nazioni) così anche in un batter d'occhio si logora e si consuma, e dal volgo poi non si sente, come il taglio del rasoio a prima giunta.
Un'altra prova dell'esser la nostra lingua italiana derivata dal volgare di Roma del buon tempo si trae dalle parole antichissime Latine poi andate in disuso presso gli scrittori, che ora si trovano nell'italiano, le quali è manifesto che con una successione continuata sono passate da quegli antichissimi tempi sino a noi, perchè nessuno certo l'è andato a pescare negli scrittori antichissimi latini perduti poi ancora prima del nascere della nostra lingua, come Lucilio Ennio Nevio ec.
Di maniera che tra questi antichi che le usavano e noi che le usiamo non bisogna lasciare nessun intervallo voto, perchè non sarebbero più rinate, se non vogliamo dire che sia un caso, il che non si lascerà credere appena agli Epicurei.
Dunque non essendoci altra catena tra quegli scrittori e noi che il volgare Latino, giacchè gli scrittori le aveano dismesse, resta che questo si riconosca per conservatore e propagatore all'italiano di quelle voci.
Come pausa usata dagli antichi scrittori latini, poi disusata, poi tornata in uso a' tempi bassi e quindi nell'italiano, (v.
il Du Cange) certo non saltò da quei secoli antichi ai bassi così per miracolo, (giacchè certo quei miserabili scrittori Latino barbari non la trassero dagli antichissimi autori forse già perduti e certo a loro o ignoti, o tutt'altro che letti e studiati) ma discese per una via continuata la quale non può esser altro che il popolare latino.
E questo credo che si possa parimente dire di moltissime altre voci.
[43]Diceva un marito geloso alla moglie: Non t'accorgi, Diavolo che sei, che tu sei bella come un Angelo?
Quanto più del tempo si tiene a conto, tanto più si dispera d'averne che basti, quanto più se ne gitta, tanto par che n'avanzi.
Non vorrei parer di detrarre al valore delle lodi colle quali V.S.
s'è compiaciuta d'ornarmi pubblicamente, se dirò che più dell'onore che me ne viene, mi rallegra la benevolenza di V.S.
che mi dimostrano, e questa tanto maggiore quanto essendo più scarso il merito mio, conviene che abbondi quello che ha supplito al suo difetto.
Proprietà, efficacia, ricchezza, varietà, disinvoltura, eleganza ancora e morbidezza e facilità, e soavità e mollezza e fluidità ec.
sono cose diverse e possono stare senza la ?????????????, lepos atticum, quella grazia che non si potrà mai trarre se non da un dialetto popolare (capace di somministrarla) che gli antichi greci traevano dall'Attico i latini massimamente antichi come Plauto Terenzio ec.
dal puro e volgare e nativo Romano, e noi possiamo e dobbiamo derivare dal Toscano usato giudiziosamente.
Non si trova in verun Dizionario italiano ch'io abbia potuto consultare ma è comune fra noi la parola blitri o blittri o blitteri che significa, un niente, cosa da nulla ec.
Questa casa è un blitri; questa città è un blitri a misurarla con Roma ec.
ec.
Ora questa parola è totalmente e interamente greca: ??????, che anche si diceva ????????????????????????????(come anche noi) e forse anche ???????, e non significava nulla.
V.
Laerz.
l.7.
segm.57.
e quivi le note del Casaub.
e del Menag.
e il Du Fresne Glossar.
Graec.
in ???????, e nell'appendice 1.
in ????????parimente.
Tutti gli altri libri immaginabili che poteano fare al caso sono stati da me consultati scrupolosamente, senza trovarci ombra di questa voce, e nominatamente i Dizionari Greci tutti quanti n'ho, dove manca affatto, in tutte le sue maniere.
Il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per farci compagnia da noi stessi come comunemente si dice, nè per distrarci puramente, ma (come trovo incidentemente e finissimamente notato anche nella seconda lettera del Magalotti contro gli Atei) per mostrare e dare ad intendere a noi stessi di non temere.
La quale osservazione potrebbe forse applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi pensieri.
E già è manifesto che all'aspetto del male noi cerchiamo d'ingannarci e di credere che non sia tale, o minore che non è, e però cerchiamo chi se ne mostri o ne sia persuaso, e per ultimo grado, per persuaderlo a noi stessi, fingiamo d'esserne già persuasi, operando e discorrendo tra noi come tali.
E questo è quello che accade nel caso detto di sopra.
E già è costume di moltissimi il detrarre quanto più possono colle parole e colla fantasia a' mali che loro sovrastanno, e con ciò si consolano e fortificano, mendicando il coraggio non dal disprezzo del male, ma dalla sua immaginata falsità o piccolezza, onde son molti che non si sgomentano se non di rarissimo perchè quando vien loro annunziato o prevedono qualche male, prima non lo credono affatto, (cioè si nascondono o impiccoliscono tutti i motivi di credere) e così se il male non ha luogo effettivamente essi non han temuto, e gli altri sì, e con ragione; poi lo scemano immaginando quanto possono, e così non temono se non in quei rari casi nei quali sopraggiunge un male così evidente e reale e che li tocchi in modo che non possano ingannarsi, giacchè anche sopraggiunto che sia, molte volte non lo credono affatto male, cioè non lo voglion credere.
E questi che [44]forse spesso passano per coraggiosi, sono i più vigliacchi che mai, giacchè non sanno sostenere non solo la realtà ma neppur l'idea dell'avversità, e quando hanno sentore di qualche disgrazia che loro sovrasti o sia accaduta, subito corrono col pensiero, ad arroccarsi e trincerarsi e chiudersi e incatenacciarsi poltronescamente in dire fra se che non sarà nulla.
Onde si vede alla prova delle evidenti disgrazie, come sieno codardi e si disperino, e dieno in frenesie e smanie da femminucce con urli pianti preghiere, tutte cose vedute e notate effettivamente da me in uno di cui ho e naturalmente doveva avere una gran pratica, del quale per l'altra parte è un perfettissimo e appropriatissimo ritratto quello che ho detto di sopra.
Del resto è cosa pur troppo evidente che l'uomo inclina a dissimularsi il male, e a nasconderlo a se stesso come può meglio, onde è nota l'??????? degli antichi greci che nominavano le cose dispiacevoli ?? ????? con nomi atti a nascondere o dissimulare questo dispiacevole, (del che v.
Elladio appo il Meursio) la qual cosa certo non faceano solamente per cagione del mal augurio.
E anche in italiano si dice, se Dio facesse altro di me, per dire, s'io morissi, (v.
la Crusca in Altro) e in latino in questo istesso caso, si quid humanum paterer, mihi accideret etc.
e così in cento altri casi.
Un argomento chiaro di quanto poco i greci studiassero il latino così assolutamente, come in particolare rispetto a quello che i latini studiavano il greco, è quello che dicono Plutarco nel principio del Demostene, e Longino dove parla di Cicerone quando i latini scrittori senza nessunissima esitazione nata dall'esser di diversa lingua, parlavano e giudicavano degli scrittori greci.
Anche in nostra lingua le mutazioni della pronunzia latina ec.
hanno guasto parecchie parole, come da raucus espressivissima del suono che significa, roco che perde quasi tutta l'espressione.
L'infelicità nostra è una prova della nostra immortalità, considerandola per questo verso che i bruti e in certo modo tutti gli esseri della natura possono esser felici e sono, noi soli non siamo nè possiamo.
Ora è cosa evidente che in tutto il nostro globo la cosa più nobile, e che è padrona del resto, anzi quello a cui servizio pare a mille segni incontrastabili che sia fatto non dico il mondo ma certo la terra è l'uomo.
E quindi è contro le leggi costanti che possiamo notare osservate dalla natura che l'essere principale non possa godere la perfezione del suo essere ch'è la felicità, senza la quale anzi è grave l'istesso essere cioè esistere, mentre i subalterni e senza paragone di minor pregio possono tutto ciò, e lo conseguono, il che è chiaro a mille segni e per le ragioni ancora indicate in un altro pensiero.
La costanza dei 300.
alle Termopile e in particolare di quei due che Leonida voleva salvare, e non consentirono ma vollero evidentemente morire, come anche la solita gioia delle madri o padri Spartani (ma è più notabile delle madri) in sentire i loro figliuoli morti per la patria, è similissima anzi egualissima a quella dei martiri e in particolare di quelli che potendo fuggire il martirio non vollero assolutamente desiderandolo come gli spartani desideravan di cuore di morire per la patria.
E un esempio recente di un martire che potendo fuggir la morte, non volle, si può vedere nel Bartoli, Missione al gran Mogol.
E la stessa applicazione [45]fo pure di quelle madri e padri cristiani che godevano sentendo de' loro figli martiri, e ancora esortandoli vedendoli portandoli accompagnandoli offrendoli al martirio e nel supplizio confortandoli a non cedere, come le spartane che esortavano ec.
e quella che disse presentando lo scudo al figlio, o con questo o su questo, e quelle che abbominavano i figli macchiati di qualche viltà come parimente le cristiane ec.
Da questo confronto risulta una conformità non solita a considerarsi fra questi due generi di eroismi, ed apparisce quello che ho detto altrove in questi pensieri che la religione è la sola che abbia riunito l'eroismo e la grandezza delle azioni e il valore e il coraggio e la forza d'animo ec.
colla ragione ec.
e che abbia anzi risuscitato l'eroismo già quasi svanito allo scemare delle illusioni: e quanto sia simile alle cose nostre quello che non si crede che abbia esempio fuor delle circostanze della libertà, amor patrio ec.
de' greci de' Romani, in somma degli antichi e principalmente degli antichissimi, quando come ho detto noi ne abbiamo anche esempi recenti ne' nostri ultimi martiri, non solo ne' primi e antichi.
Soleva considerar come una pazzia quello che dicono i Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran soddisfazione, e con intimo sentimento di piacere, cioè che anch'essi sono stati trattati così.
Ora l'esperienza mi ha mostrato che questo è un sentimento naturale, giacch'io giunto appena per l'età a svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e tuttavia convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di parecchi anni, ma non tanti ch'egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec.
siccome non per altro (giacchè non era punto per predilezione de' genitori) se non perch'era mutato il genere della vita nostra che convivevamo con lui, anch'egli partecipava non poco alla nostra larghezza, ed avea molto più comodi e piaceruzzi che non avevamo noi in quella età, e molto meno incomodi e noie e lacci e strettezze e gastighi, ed era perciò molto più petulante ed ardito di noi in quell'età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima invidia, cioè non di quei beni giacch'io gli avea allora, e pel tempo passato non li potea più avere, ma mero e solo dispiacere ch'ei gli avesse, e desiderio che fosse incomodato e tormentato come noi, ch'è la pura e legittima invidia del pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e senza volerla sentire, ma in somma compresi allora (e allora appunto scrissi queste parole) che tale è la natura umana, onde mi erano men cari quei beni ch'io aveva qualunque fossero, perch'io li comunicava con lui, forse parendomi che non fossero più degno termine di tanti stenti dopo che non costavano niente a un altro che si trovava nelle mie circostanze, e con meno merito di me, ec.
Quindi applico ai Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli minori che sono i novizzi dipendente da loro, seguono gl'impulsi di questa inclinazione che ho detto, e non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel bene a cui son giunti poichè altri gli acquista con assai meno travaglio di loro, nè che abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano quegl'incomodi ch'essi in quelle circostanze hanno sofferti.
[46]Quando colla lettura col tratto col discorso coi trattenimenti o letterari o di qualunque genere (ma massime coi libri in quanto al gusto dello scrivere, e colla conversazione degli uomini in quanto al costume) ci siamo formati un abito cattivo, crediamo che quello sia natura, giacchè non c'è cosa tanto simile e facile ad esser confuso colla natura anche da' più oculati e da' filosofi, quanto l'abito; e pretendiamo di dover seguire quell'abito p.e.
nello scrivere, (giacchè di questo io voglio qui parlare specialmente come quelli a cui pare che lo scrivere in un italiano francese sia natura, e così la corruzione del gusto in ogni genere e parte di scrittura e di stile) dicendo ch'è natura, e che così vi viene spontaneamente e che la poesia deve fluire dalla natura e cose tali.
Ma non è natura, è abito, e abitaccio pessimo, e volete vederlo? se siete veramente di buona indole per le Belle Arti leggete i veri poeti e scrittori, particolarmente i greci, e vedrete subito che quella è natura, e vi maraviglierete (come infatti succede, che quasi paiano due naturalezze e non si sappia capir come, e dall'altra parte questa duplicità ci faccia stupire) come sia tanto differente da quella che voi credete che sia natura, eppur non potete negare che questa non sia perch'è troppo evidente.
Ed ecco se volete esser poeta e servirvi di quello che vi somministra la natura, naturalmente, e rettamente, cominciate, se siete uomo di giudizio, a conoscer la necessità assolutissima dello studio, (oh bestemmia! necessario lo studio per iscrivere e poetar bene) e della lezione dei classici e delle arti poetiche e dei trattati ec.
ec.
e vedete appoco appoco la somma difficoltà d'imitare e seguir quella natura che prima confondendola coll'abito giudicavate così facile a esprimere, perchè infatti non c'è cosa più facile a seguire che l'abito, nè più difficile a contrariare, il che appunto fa la somma difficoltà del seguir la natura vera, e ciò non si ottiene senza un contrabito tanto più difficile del primo quanto bisogna erigerlo dai fondamenti, (del che in quell'altro essendo venuto su appoco appoco, nell'età fresca, e da se, senza nostra fatica, non ci eravamo accorti) erigerlo sbarbando prima l'altro, e questa è la gran fatica che in quell'altro non ci fu punto, e finalmente erigerlo continuarlo e finito conservarlo in mezzo a infinite cose (come letture necessarie, discorsi, commercio usuale per negozi ec.
trattenimenti conversazioni corrotte secondo il solito, corrispondenze ascoltazione di discorsi altrui ec.
ec.) che lo contrastano, tanto più pericolose quanto vi richiamano a quell'altro abito prima già fatto, onde il luogo resta sempre lubrico, ed è facile lo scivolare nel cattivo.
E così è necessarissimo lo studio per ben servirsi di quella natura, senza la quale bensì non si fa niente, ma colla quale sola avreste ben forse potuto quasi tutto, ma non potete più nulla, anzi meno del nulla, giacchè non potete non far male, a cagione dell'abito inevitabile fatto contro di lei.
La grazia non può venire altro che dalla natura, e la natura non istà mai secondo il compasso della gramatica della geometria dell'analisi della matematica ec.
Quindi la scarsezza di grazia nella lingua francese tutta analitica e tecnica e regolare, e diremo angolare, massima scarsezza nell'esteriore dello stile, e poi anche nell'interiore ec.
se bene se ne compensano col nominar la grazia 20.
Volte per pagina, e [47]non c'è un libro francese dove non troviate a ogni occhiata grace, grace massime parlando dei libri della loro nazione, encomiandoli ec.
Grace grace, mi viene allora in bocca, et non erat grace (pax pax et non erat pax, ma non so se così veramente dica S.
Paolo, o qual altro Scrittor sacro).
V.
questi pensieri p.92-94.
Stridore notturno delle banderuole traendo il vento.
Si suol dire che la resistenza stimola e dà forze di compire, e condurre a fine quello che si è tentato.
Ora io soggiungo che spessissimo se io senza resistenza avrei fatto dieci, sopraggiunta la resistenza farò quindici e venti.
E questo spesso di assoluta e determinata volontà, non già per soprabbondanza meccanica degli effetti della forza impiegata maggiore del bisognevole per la resistenza incontrata, e non contrappesata diligentemente alla resistenza, come se io voglio spingere una cosa da un luogo all'altro, provo che non cede alla prima spinta, accresco la forza, e questa me la caccia più lontano ch'io non voleva.
Ma dico per deliberata volontà: p.e.
do una spinta e non giova, un'altra e non fa, la terza parimente, alla fine mi piglia la rabbia, acchiappo la cosa colle mani, e la strascino molto più in là ch'io non voleva prima ch'ella andasse, e volendo ch'ella stia dove dee, bisogna che la riporti indietro al luogo conveniente, e così fo.
E la distanza alla quale l'ho portata è spesso più che doppia ed anche tripla di quella a cui la voleva spingere.
Questo accade perch'io allora non considero più e non ho per fine della mia azione, di farla andare in quel tal luogo, ma propriamente di vincere e vendicare quella resistenza, e mostrare la superiorità del mio volere e della mia forza sopra il suo volere e la sua forza, la quale tanto più si dimostra, e la vendetta e la vittoria è tanto maggiore quanto io la porto più lontano, e insomma volti allora a quel fine miriamo alla perfezione di esso che così si conseguisce, e perciò non c'importa che veniamo a nuocere a quel primo fine del quale effettivamente in quel punto siamo dimenticati.
Applico ora questo caso fisico ai morali.
Perciò si vuole che le parole che si hanno da aggiungere alla nostra lingua o per arricchirla, o per necessità ec.
si prendano dal latino e non dal francese nè dal tedesco ec.
chiamando quelle buone e approvandole, e queste barbare, perchè quelle ordinariamente o almeno assai più spesso e facilmente consentono coll'indole della lingua nostra, e le lasciano la sua forma e sembianza nativa e la sua grazia ec.
ma queste dissuonano manifestissimamente e sconvengono, e sconvenendo fanno la barbarie, e se son molte guastano le forme native, e la venustà e grazia propria e primitiva della lingua.
E questa sconvenienza si scorge anche nelle semplici parole, com'è chiaro, vedendosi subito che vengono da un'altra fonte, laddove le latine non possono venire da un'altra fonte, essendo da quella stessa fonte venuta si può dir tutta intera la lingua italiana, e benchè da essa sia venuta anche la francese, non però la italiana è venuta dalla francese, e quindi per quanto la sorgente sia la stessa, nel corso si può bene il rivo essere, anzi s'è mutato, e alterato, ed ha acquistato proprietà tali, che non ha più nessun diritto di dare ad un altro rivo nato dalla stessa sorgente, le sue acque, come [48]a lui convenienti.
Laddove la fonte non essendo alterata, restiamo sempre in diritto d'attingerne, e anche quivi con giudizio, e quanto è permesso dalle alterazioni che ha sofferte il nostro proprio rivo, per cagione delle quali alcune acque della stessa sorgente non ci si potrebbero mescolare senza sconvenienza.
Ed ecco la cagione del diverso diritto, e delle diverse conseguenze che si devono dedurre dalla fratellanza delle lingue e dalla figliolanza.
Quello poi che ho detto delle parole va inteso e molto più intensamente delle frasi che corrompono più e sconvengono più, avendo faccia più manifestamente straniera e dissimile.
E che questa non sia pedanteria e cieca venerazione dell'antichità si vede chiaro da questo che non solo non amiamo ma detestiamo le parole greche, quantunque la lingua latina ne prendesse in tanta copia, e appunto per uso d'arricchirsi, e per le diverse necessità d'esprimer questa o quella cosa mancante di parola latina dove senza crearla di nuovo la levavano di peso dal greco ed è costume usitatissimo dei latini come di Cicerone di Celso ec.
quantunque principalmente di chi scriveva di scienze come Plinio ec.
ma anche Orazio com'è notissimo ec.
Ora perchè queste hanno viso per noi straniero le fuggiamo di cuore, ed anche gran parte delle frasi strettamente prese, giacchè dei modi più largamente, infiniti ne convengono a maraviglia alla nostra lingua.
Al contrario però di noi la lingua francese non fa una difficoltà al mondo di spogliare la lingua greca secondo i suoi bisogni e in questi ultimi tempi se n'è empiuta e satollata strabocchevolmente, onde già fanno dizionari delle parole francesi derivate dal greco cosa per altro scellerata che guasta quella lingua orrendamente (come guasta indegnamente la nostra la barbarie comunissima di usar queste stesse parole greche massime le moderne pigliandole non dal greco ma dal francese colla stessa barbarie però, quantunque i più neppur sappiano che siano interamente greche ma le abbiano per pure francesi, come despota, demagogo, anarchia, aristocrazia, democrazia, colle terminazioni greche sole p.e.
civismo, filosofismo ec.
ec.
che in gran parte son politiche messe fuori dalla repubblica francese ma ce ne ha di tutti i generi) e in principal modo perch'essendo adottata da tutti gli scrittori di scienze la nomenclatura tratta dal greco onde non c'è scienza, anzi neppure arte, mestiere, rettorica gramatica ec.
che non sia piena di greco, e perfino nel suo nome e in quello delle sue parti non sia intieramente greca, le parole greche essendo necessariamente di quel sembiante che tutti siamo soliti di vedere nelle usate dagli scienziati, danno alla lingua francese (e darebbero a qualunque lingua e daranno all'italiana se dalla francese saranno trasportate stabilmente nella nostra) un'aria indegna di tecnicismo (per usare una di queste belle parole) e di geometrico e di matematico e di scientifico che ischeletrisce la lingua, riducendola in certo modo ad angoli e perchè non c'è cosa più nemica della natura che l'arida geometria, le toglie tutta la naturalezza e la naïveté, e la popolarità (onde nasce la bellezza) e la grazia e la venustà, e proprietà, ed anche la forza e robustezza ed efficacia mancando anche questa assolutamente al linguaggio tecnico che non fa forza col linguaggio, ma con quello che risulta dalle parole cioè col significato loro e coll'argomento e ragione, o col concetto spiegato freddamente con esse.
[49]La favola del pavone vergognoso delle sue zampe pecca d'inverisimile anzi d'impossibile, giacchè non ci può esser parte naturale e comune in verun genere d'animale, che a quello stesso genere non paia conveniente, e quando sia nel suo genere ben conformata non paia bella: giacchè la bellezza è convenienza, e questa è idea ingenita nella natura; quali cose però si convengano, questo è quello che varia nelle idee non solo dei diversi generi di animali, ma eziandio degl'individui di uno stesso genere, come negli uomini, agli Etiopi (per non uscire dalla bellezza del corpo) par bello il color nero, il naso camoscio, le labbra tumide, e brutti i contrari che a noi paion belli, e tra i bianchi questa e quella nazione si diversifica assaissimo nel valutar come bella questa o quella forma che all'altra nazione dispiacerà.
Ma che la natura abbia fatto parte stabile ed essenziale di verun genere animalesco che a quello stesso genere paia brutta è impossibile, giacchè non è possibile che un genere non abbia nessuno cui stimi bello, e questo vediamo parimente nella specie, e le stesse differenze ch'io ho notate nei giudizi degli uomini provengono dalla differente forma loro come negli Etiopi, Lapponi, Selvaggi, isolani di cento figure ec.
E le altre differenze, come nello stimar più l'occhio ceruleo che il nero, ec.
versano non intorno a cose stabili e immutabili, ma, com'è chiaro da questo esempio, mutabili, e differenti in una stessa specie secondo gl'individui, giacchè altrimenti la natura avrebbe fatto una specie di bruttezza assoluta, se parendo bruttezza a noi, paresse anche a quel tal genere o specie.
Ma la bruttezza assoluta ben noi ce la figuriamo che vedendo le zampacce del pavone, e parendoci sconvenienti al resto del suo corpo, non crediamo che possano parer belle a nessuno animale, ma il fatto non istà così, anzi al pavone parebbono brutte nel proprio genere quelle zampe più grosse carnose morbide ornate vestite ec.
che a noi parrebbono più belle, e giudica brutto quello del suo genere (o specie che la vogliamo dire) che non ha le zampe perfettamente secche asciutte ec.
Quello che ho detto nel principio di questo pensiero me ne porge un altro, cioè che infatti quella favola non pecca d'inverisimile non essendo scritta per li pavoni ma per noi, i quali naturalmente siamo portati a credere che quelle zampe bruttissime agli occhi nostri sieno tali anche agli occhi dei pavoni.
E quantunque il filosofo facilmente conosca il contrario, tuttavia scrive il poeta pel volgo, al quale non è inverisimile il dir p.e.
che le stelle cadano, anzi lo dice Virgilio e si dice da' villani e da' poeti tuttogiorno, benchè a qualunque non ignorante sia cosa impossibile.
[50]A quello che ho detto nel 3.
pensiero avanti al presente si aggiunga che le parole nuove si devono anche cavare dalle radici che sono nella propria lingua, e questa è una fonte principalissima e dalla quale Dante che passa pel creatore della lingua derivò una grandissima, e forse la massima parte delle voci ch'egli introdusse.
E i derivati da questa fonte serbando com'è naturale il colore nativo della lingua più che qualunque altro, se son fatti con giudizio, vengono a formare il miglior genere di voci nuove che si possano creare ec.
ec.
Ma questa fonte è tanto più scarsa quanto meno sono le radici cioè quanto la lingua è meno ricca, onde la lingua francese cedendo in questo senza paragone all'italiana non è dubbio che di voci nuove secondo il bisogno, che non alterino la fisonomia della lingua ma consuonino ec.
dev'essere molto più atta a produrne la lingua italiana che la francese.
E infatti questa che passa per ricchissima in vocaboli delle arti e scienze ec.
è infatti poverissima, giacchè questi vocaboli non li piglia dal suo fondo, ma di peso dalle altre lingue come dalla greca onde disdicono e stuonano manifestamente col resto della lingua e l'alterano e imbastardiscono, e ciò perchè non sono lingue di uno stesso genere ma diversissime, il cui genio anche nelle pure voci non ha che fare con quello della francese, all'opposto della latina rispetto all'italiana principalmente.
Ora questa ricchezza tanto è loro quanto nostra, perchè è chiaro che non trattandosi di ricchezza ???????? ma di roba presa altrove, tutti possono prenderla egualmente e colla stessa spesa, massime noi italiani, ai quali non è niente più difficile da ??????????? di fare stereotipia, di quello che ai francesi stéréotypie ec.
ec.
e di formar nuovi composti greci com'è questo ec.
sì che è ricchezza fittizia, non propria, ascita, misera, comune a tutti, e dannosa.
Oltracciò i derivati dalle proprie radici sono subito di noto significato, e intesi da tutti, così in massima parte dalla lingua latina (dalla quale già non si dee prendere quello che non sarebbe comunemente inteso) ma questi altri non si capiscono da nessuno se non ci mettete la spiegazione etimologica ec.
ovvero se non li mettete nel vocabolario col loro significato, quando non sieno appoco appoco passati in uso, ma ciò non può esser successo senza il detto massimo inconveniente nel principio.
Anche la stessa negligenza e noncuranza e sprezzatura e la stessa inaffettazione può essere affettata, risaltare ec.
Anche la semplicità la naturalezza la spontaneità.
V.
p.160.
Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de' villani passeggeri.
Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch'io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a [51]farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.
Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni.
Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch'elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell'uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec.
Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose.
La varietà è tanto nemica della noia che anche la stessa varietà della noia è un rimedio o un alleviamento di essa, come vediamo tutto giorno nelle persone di mondo.
All'opposto la continuità è così amica della noia che anche la continuità della stessa varietà annoia sommamente, come nelle dette persone, e in chicchessia, e, per portare un esempio, ne' viaggiatori avvezzi a mutar sempre luogo e oggetti e compagni e alla continua novità, i quali non è dubbio che dopo un certo non lungo tempo, non desiderino una vita uniforme, appunto per variare, colla uniformità dopo la continua varietà.
V.
Montesquieu Essai sur le Goût.
De la variété.
Amsterd.
1781.
p.378.
lin.
ult.
et des Contrastes.
p.384-385.
Intendo per innocente non uno incapace di peccare, ma di peccare senza rimorso.
V.
p.276.
Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere che l'esistere? Ora così accadrebbe appunto all'uomo senza una vita futura.
Non mi maraviglio nè che gli antichi Ebrei e, credo, gran parte o tutti gli orientali (v.
le lettere premesse aux principes discutés de la société Hébreo-Capucine etc.) e così i greci mancassero p.e.
del v.
nè che avessero alcune lettere che noi non abbiamo, come gli Ebrei p.e.
il u i greci il ? il ? ec.
Le lettere che noi crediamo comunemente essere proprio tante e non più quanto le nostre, o almeno in genere, sono in effetto moltissime giacchè non vengono dalla natura ma dall'assuefazione io dico in particolare, cioè la facoltà del parlare e articolare e formare diversi suoni viene dalla natura, ma la qualità e differenza di questi suoni ossia delle lettere viene dall'assuefazione.
E infatti sono infiniti i modi [52]di collocare ec.
la lingua i denti le labbra ec.
quelle parti che formano i detti suoni, e noi vediamo come piccole differenze di collocazione formino suoni diversissimi come il p.
e il b.
per esempio.
Ora perchè noi da fanciulli non abbiamo sentito altro che i suoni del nostro alfabeto abbiamo solo imparato quelle tali collocazioni, e a quelle assuefatti e incapaci d'ogni altra crediamo 1.
che altre non ve ne siano in natura, 2.
che tutte sieno appresso a poco comuni per natura a tutti.
Ma la prima cosa è mostrata falsa dalle tante lettere degli alfabeti antichi o stranieri che noi non sappiamo pronunziare o ignorandone il suono, come spesso negli antichi (quantunque più spesso crediamo di saperlo), o il mezzo, come negli stranieri; e da molte altre prove.
L'altra cosa da quello che ho detto di sopra e dall'esperienza continua di tanti che per minime circostanze piuttosto accidentali ed estrinseche che organiche restan privi di certe lettere.
Ora non è dunque maraviglia che gli alfabeti dei popoli siano differenti secondo la differente assuefazione tradizionale, da cui si dee rimontare alla origine d'essi alfabeti.
E se ne deduce che in natura o non c'è alfabeto, o molto più ricco che non si crede volgarmente.
Un esempio di quanto fosse naturale e piena di amabili e naturali illusioni la mitologia greca, è la personificazione dell'eco.
Non ogni proposito deve nascondere il poeta, come p.e.
non dee nascondere il proposito d'istruire nel poema didascalico ec.
in somma i propositi manifesti e che si espongono p.e.
nello stesso principio del poema.
Canto l'armi pietose ec.
Ma sì bene quelli che non vanno naturalmente col proposito manifesto, come col narrare il dipingere, coll'istruire il dilettare, cose che il poeta si propone, ma non dee mostrare di proporselo quantunque debba mostrare quegli altri propositi manifesti, i quali servono più che altro di pretesto e manto ai propositi occulti.
E questo perchè questi ultimi non sono naturali come è naturale che uno narri ec.
ma deve parer che quel diletto, quella viva rappresentazione ec.
venga spontanea e senza ch'il poeta l'abbia cercata, il che mostrerebbe l'arte e lo studio e la diligenza, e in somma non sarebbe naturale, giacchè figurandoci il poeta nello stato naturale è un uomo che preso il suo tema, e questo è il proposito manifesto, venga giù dicendo quello che gli si somministra spontaneamente come fanno tutti quelli che parlano, e quantunque egli qui metta un'immagine, qui un affetto, qui un suono espressivo, qui ec.
e tutto a bella posta e pensatamente, non deve parer ch'egli lo faccia così, ma solo naturalmente, e così portando il filo del suo discorso, e l'accaloramento [53]della sua fantasia e il suo cuore ec.
Altrimenti la natura non è imitata naturalmente e questi sono i propositi diremo così secondari, quantunque spessissimo in realtà sieno primari, (come ne' poemi didascalici dove il fine primario par l'istruire, e deve parere, quando in verità è solo un mezzo essendo il vero fine il dilettare) i quali bisogna nascondere.
E oltre il poeta s'intenda l'oratore lo storico, ed ogni qualunque scrittore.
Affettazione in latino viene a dir lo stesso che proposito, e presso noi lo stesso che proposito manifesto, anzi questa può esserne la definizione
Spesso ho notato negli scritti de' moderni psicologi che in molti effetti e fenomeni del cuore ec.
umano, nell'analizzarli che fanno e mostrarne le cagioni, si fermano molto più presto del fine a cui potrebbero arrivare, assegnandone certe ragioni particolari solamente, e questo perchè vogliono farli parere maravigliosi, come il Saint-Pierre negli studi della natura lo Chateaubriand ec., e non vanno alla prima o quasi prima cagione che troverebbero semplice e in piena corrispondenza col resto del sistema di nostra natura.
Questo ridurre i diversi fenomeni dell'animo umano a principii semplici scema la maraviglia, e anche la varietà perchè moltissimi si vedrebbero derivati da un solo principio modificato leggermente.
Costoro parlano sempre enfaticamente, notano con molta acutezza il fenomeno, ma datane (se la danno, perchè spesso credono e fanno credere ch'il fenomeno sia inesplicabile, vale a dire senza rapporto conosciuto al resto del sistema giacchè da ciò solo nasce la maraviglia in qualunque cosa del mondo) una ragione immediata e secondaria ed egualmente maravigliosa, non rimontano come sarebbe pur facile alla sorgente che ridurrebbe il fenomeno e le sue ragioni secondarie alle classi consuete.
Io credo che chi istituisse quest'analisi ultima farebbe cosa nuova (sia per la mala fede, o la minore acutezza degli antecessori) e semplificherebbe d'assai la scienza dell'animo umano, rapportando gl'infiniti fenomeni che sembrano anomalie (perchè infatti la scienza non è ancora stabile nè ordinata e ridotta in corpo) a principii universali o poco lontani da essi.
Opera principale e formatrice di tutte le scienze e scopo ordinario di chi ricerca le cagioni delle cose.
P.e.
il desiderio naturale degli uomini di supporre animate le cose inanimate tanto manifesto ne' fanciulli deriva dal desiderio e propensione nostra verso i nostri simili, principio capitale, e primitivo, e fecondissimo.
V.
il mio discorso sui romantici.
[54]Quando la poesia per tanto tempo sconosciuta entrò nel Lazio e in Roma, che magnifico e immenso campo di soggetti se le aperse avanti gli occhi! Essa stessa già padrona del mondo, le sue infinite vicende passate, le speranze, ec.
ec.
ec.
Argomenti d'infinito entusiasmo e da accendere la fantasia e 'l cuore di qualunque poeta anche straniero e postero, quanto più romano o latino, e contemporaneo o vicino proporzionatamente ai tempi di quelle gesta? Eppure non ci fu epopea latina che avesse per soggetto le cose latine così eccessivamente grandi e poetiche, eccetto quella d'Ennio che dovette essere una misera cosa.
La prima voce della tromba epica che fu di Lucrezio, trattò di filosofia.
In somma l'imitazione dei greci fu per questa parte mortifera alla poesia latina, come poi alla letteratura e poesia italiana nel suo vero principio, cioè nel 500.
l'imitazione servile de' greci e latini.
Onde con tanto immensa copia di fatti nazionali, cantavano, lasciati questi, i fatti greci, nè io credo che si trovi indicata tragedia d'Ennio o d'Accio ec.
d'argomento latino e non greco.
Cosa tanto dannosa, massime in quella somma abbondanza di gran cose nazionali, quanto ognuno può vedere.
E lo vide ben Virgilio col suo gran giudizio, non però la schivò affatto anzi l'argomento suo fu pure in certo modo greco, (così le Buccoliche e le Georgiche di titolo e derivazione greca) oltre le tante imitazioni d'Omero ec.
ma proccurò quanto più potè di tirarlo al nazionale, e spesso prese occasione di cantare ex professo i fatti di Roma.
Similmente Orazio uomo però di poco valore in quanto poeta, fra tanti argomenti delle sue odi derivate dal greco, prese parecchie volte a celebrare le gesta romane.
Ovidio nel suo gran poema cioè le Metamorfosi prese argomento tutto greco.
Scrisse però i fasti di Roma ma era opera piuttosto da versificatore che da poeta, trattandosi di narrare le origini, s'io non erro, di quelle cerimonie feste ec.
in somma non prese quei fatti a cantare, ma così, come a trastullarcisi.
Del resto la letteratura latina si risentì bene dello stato di Roma colla magniloquenza che, si può dire, aggiunse alle altre proprietà dell'orazione ricevute da' greci, e a qualcune sostituì, qualità tutta propria de' latini, come nota l'Algarotti, colla nobiltà e la coltura dell'orazione del periodo ec.
molto maggiore che non appresso gli antichi greci classici, eccetto, e forse neppure, Isocrate.
Una prova di quello che ho detto di sopra intorno alle lettere, o piuttosto un esempio, è l'u gallico (fino una vocale) sconosciuto a noi italiani [55]settentrionali, e non so se ai latini, e a quali altri stranieri presentemente.
Il quale fu proprio interamente dell'alfabeto greco (e non so se dicano lo stesso del vau ebreo) come ora è proprio del francese, e come l'u nostro appresso questi è formato dall'ou, così appuntino fra i greci (eccetto che questi l'hanno anche ne' dittonghi ?? ?? ?? ?? dove i francesi in nessun altro).
Il che, se non c'è altra ragione in contrario credo che i francesi (dico tanto quest'u detto gallico quanto esso dittongo ou) l'abbiano avuto dalla Grecia nelle spedizioni che fecero colà quando fondarono la gallogrecia ec.
(e credo da S.
Ireneo gallo che scrisse in greco, e Favorino parimente ec.
che la lingua greca fosse veramente comune nella Gallia, v.
gli Storici) onde reso ?????????, sia poi rimasto in Francia e anche nella Gallia transalpina cioè in Lombardia, malgrado delle mutazioni d'abitatori di queste provincie ec.
E il c e il g schiacciato non sono evidentemente due lettere diverse dagli aperti ch e gh? E non mancarono e mancano ai greci? (ai latini non so che dicano gli eruditi) ed ora ai francesi, e credo agli spagnuoli agl'inglesi ec.?
Se tu domanderai piacere ad uno che non possa fartisi senza ch'egli s'acquisti l'odio d'un altro, difficilissimamente (in parità di condizione) l'otterrai non ostante che ti sia amicissimo.
E pure per quell'odio si guadagnerebbe o si crescerebbe il vostro amore e forse grandissimo, sì che le partite par che sarebbero uguali.
Ma infatti pesa molto più l'odio che l'amore degli uomini, essendo quello molto più operoso.
Qui si fermerebbero gli psicologi moderni lasciando di cercare il principio di questa differenza, ch'è manifestissimo, cioè l'amor proprio.
Giacchè chi segue il suo odio fa per se, chi l'amore per altrui, chi si vendica giova a se, chi benefica, giova altrui, nè alcuno è mai tanto infiammato per giovare altrui quanto a se.
Vita tranquilla delle bestie nelle foreste, paesi deserti e sconosciuti ec.
dove il corso della loro vita non si compie meno interamente colle sue vicende, operazioni, morte, successione di generazioni ec.
perchè nessun uomo ne sia spettatore o disturbatore nè sanno nulla de' casi del mondo perchè quello che noi crediamo del mondo è solamente degli uomini.
A.
S'io fossi ricco ti vorrei donar tesori.
B.
Oibò, non vorrei ch'ella se ne privasse per me.
Prego Dio che non la faccia mai ricca.
Linguaggio mutuo delle bestie descritto secondo le qualità manifeste di ciascuna potrebbe essere una cosa originale e poetica introdotta così in qualche poesia, come, ma poi scioccamente se ne serve, il Sanazzaro nell'Arcadia prosa 9.
ad imitazione di quella favola, s'io non erro, circa Esiodo.
Voce e canto dell'erbe rugiadose in sul mattino ringrazianti e lodanti Iddio, e così delle piante ec.
Sanazzaro ib.
e mi pare immagine notabile e simile a quella dei rabbini dell'inno mattutino del sole ec.
come anche l'altra immagine del Sanazzaro ivi, di un [56]paese molto strano, dove nascon le genti tutte nere, come matura oliva, e correvi sì basso il Sole, che si potrebbe di leggiero, se non cuocesse, con la mano toccare.
Com'è costantissimo e indivisibile istinto di tutti gli esseri la cura di conservare la propria esistenza, così non è dubbio che quasi il compimento di questa non sia l'esserne contento, e l'odiarla o non soddisfarsene non sia un principio contraddittorio il quale non può stare in natura e molto meno in quell'essere il quale senza entrare nella teologia, è chiaro ch'essendo l'ordine animale il primo in questo globo e probabilmente in tutta la natura cioè in tutti i globi, ed egli essendo evidentemente il sommo grado di quest'ordine, viene a essere il primo di tutti gli esseri nel nostro globo.
Ora vediamo che in questo è tanta la scontentezza dell'esistenza, che non solo si oppone all'istinto della conservazione di lei, ma giunge a troncarla volontariamente, cosa diametralmente contraria al costume di tutti gli altri esseri, e che non può stare in natura se non corrotta totalmente.
Ma pur vediamo che chiunque in questa nostra età sia di qualche ingegno deve necessariamente dopo poco tempo cadere in preda a questa scontentezza.
Io credo che nell'ordine naturale l'uomo possa anche in questo mondo esser felice, vivendo naturalmente, e come le bestie, cioè senza grandi nè singolari e vivi piaceri, ma con una felicità e contentezza sempre, più o meno, uguale e temperata (eccetto gl'infortuni che possono essere nella sua vita, come gli aborti le tempeste e tanti altri disordini (accidentali, ma non sostanziali) in natura) insomma come sono felici le bestie quando non hanno sventure accidentali ec.
Ma non già credo che noi siamo più capaci di questa felicità da che abbiamo conosciuto il voto delle cose e le illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali del che non dovevamo neppur sospettare: tout homme qui pense est un être corrompu, dice il Rousseau, e noi siamo già tali.
E pure vediamo che questi piccoli diletti non ostante che noi siamo già guasti pur ci appagano meglio che qualunque altro come dice Verter ec.
(quantunque essi pure assai lontani dallo stato naturale), che dei culti, e dei fanciulli massimamente, che dei grandi.
E l'esser l'uomo buono per natura, e guastarsi necessariamente nella società, può servir di prova a questo sistema, e il veder che le bestie non hanno tra loro altra società che per certi bisogni, del resto vivono insieme senza pensar l'una all'altra, e che l'istinto si vien perdendo a proporzione che la natura è alterata dall'arte onde è grande nelle bestie e nei fanciulli, piccolo negli uomini fatti, ma ciò non prova che l'uomo sia fatto per l'arte ec.
giacchè la natura gli aveva dato quegl'istinti ch'egli perde poi ec.
Sì che si potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e l'uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del corpo umano più atta alla società ec.
[57]S'è osservato che è proprietà degli antichi poeti ed artisti il lasciar molto alla fantasia ed al cuore del lettore o spettatore.
Questo però non si deve prendere per una proprietà isolata ma per un effetto semplicissimo e naturale e necessario della naturalezza con cui nel descrivere imitare ec.
lasciano le minuzie e l'enumerazione delle parti tanto familiare ai moderni descrivendo solo il tutto con disinvoltura, e come chi narra non come chi vuole manifestamente dipingere muovere ec.
Nella stessa maniera Ovidio il cui modo di dipingere è l'enumerare (come i moderni descrittivi sentimentali ec.) non lascia quasi niente a fare al lettore, laddove Dante che con due parole desta un'immagine lascia molto a fare alla fantasia, ma dico fare non già faticare, giacchè ella spontaneamente concepisce quell'immagine e aggiunge quello che manca ai tratti del poeta che son tali da richiamar quasi necessariamente l'idea del tutto.
E così presso gli antichi in ogni genere d'imitazione della natura.
I nostri veri idilli teocritei non sono nè le egloghe del Sanazzaro nè ec.
ec.
ma le poesie rusticali come la Nencia, Cecco da Varlungo ec.
bellissimi e similissimi a quelli di Teocrito nella bella rozzezza e mirabile verità, se non in quanto sono più burleschi di quelli che pur di burlesco hanno molto spesso una tinta.
Circa le immaginazioni de' fanciulli comparate alla poesia degli antichi vedi la verissima osservazione di Verter sul fine della lettera 50.
Una terza sorgente degli stessi diletti e delle stesse romanzesche idee sono i sogni.
Il principio universale dei vizi umani è l'amor proprio in quanto si rivolge sopra lo stesso essere, delle virtù, lo stesso amore in quanto si ripiega sopra altrui, sia sopra gli altrui, sia sopra la virtù, sia sopra Dio.
ec.
Di alcuni principi che si sieno uccisi per evitare qualche grande sventura o per non saperne sopportare qualcuna già sopraggiunta loro, si legge, come di Cleopatra Mitridate ec.
e più, anzi forse solamente fra gli antichi.
Ma di quelli che si sieno uccisi per le altre cagioni che producono ora il suicidio, come la malinconia l'amore ec.
non si legge ch'io sappia in nessuna storia.
Eppure lo scontento della vita e la noia e la disperazione dovrebb'essere tanto maggiore in loro [58]che negli altri, in quanto questi possono supporre se non colla ragione (la quale è ben persuasa del contrario) almeno coll'immaginazione (che non si persuade mai) che ci sia uno stato miglior del loro, ma quelli già nell'apice dell'umana felicità, trovandola vana anzi miserabilissima, non possono più ricorrere neppur col pensiero in nessun luogo, arrivati per così dire al confine e al muro, e quindi dovrebbono guardar questa vita come abitazione veramente orribile per ogni parte e disperata, se già i loro desideri non si volgono ai gradi e condizioni inferiori, ovvero a quei miserabili accrescimenti di felicità che un principe si può sognare, come conquiste ec.
Disse la Dama: Voi mi avete rappacificata colla poesia: Godo assai, rispose quegli, d'avere riconciliate insieme due belle cose.
Non ci sarebbe tanto bisogno della viva voce del maestro nelle scienze se i trattatisti avessero la mente più poetica.
Pare ridicolo il desiderare il poetico p.e.
in un matematico; ma tant'è: senza una viva e forte immaginazione non è possibile di mettersi nei piedi dello studente e preveder tutte le difficoltà ch'egli avrà e i dubbi e le ignoranze ec.
che pure è necessarissimo e da nessuno si fa nè anche da' più chiari, che però non s'impara mai pienamente una scienza difficile p.e.
le matematiche dai soli libri.
Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia.
Per un'Ode lamentevole sull'Italia può servire quel pensiero di Foscolo nell'Ortis lett.19 e 20 Febbraio 1799.
p.200.
ediz.
di Napoli 1821.
Una facezia del genere ch'io ho detto in un altro pensiero essere stato proprio degli antichi è quella degli Antiocheni che dicevano dell'imperatore Giuliano che aveva una barba da farne corde, (Iulian.
in Misopogone) la qual facezia allora applaudita e sparsa per tutta la città e capace di muover Giuliano a scrivere un libro ironico e giocoso (certo elegante e negli scherzi si può dir Attico e Lucianesco e infinite volte superiore ai suoi Caesares, senza sofistumi nello stile nè in altro, e senza affettazioni nè pur nella lingua per altro elegante e ricca e ciò perchè questo è un libro scritto per circostanza e non ?????????????come i Caesares) contro gli Antiocheni, ora ai nostri delicati, francesi ec.
parrebbe grossolana, e di pessimo gusto.
V.
p.312.
E tanto è miser l'uom quant'ei si reputa, disse eccellentemente il Sanazzaro egloga ottava.
Ora in quello stato ch'io diceva in un pensiero poco sopra, egli non riputandosi misero nè anche sarebbe stato, come ora tanti in condizione alquanto [59]simile a quella che i'ho detto, poco riputandosi miseri, lo sono meno degli altri, e così tutti secondo che si stimano infelici.
Quando l'uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi, non si vede più se non l'oggetto amato, si sta in mezzo alla moltitudine alle conversazioni ec.
come si stasse in solitudine, astratti e facendo quei gesti che v'ispira il vostro pensiero sempre immobile e potentissimo senza curarsi della maraviglia nè del disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce noioso ec.
fuorchè quel solo pensiero e quella vista.
Non ho mai provato pensiero che astragga l'animo così potentemente da tutte le cose circostanti, come l'amore, e dico in assenza dell'oggetto amato, nella cui presenza non accade dire che cosa avvenga, fuor solamente alcuna volta il gran timore che forse forse gli potrà essere paragonato.
Io soglio sempre stomacare delle sciocchezze degli uomini e di tante piccolezze e viltà e ridicolezze ch'io vedo fare e sento dire massime a questi coi quali vivo che ne abbondano.
Ma io non ho mai provato un tal senso di schifo orribile e propriamente tormentoso (come chi è mosso al vomito) per queste cose, quanto allora ch'io mi sentiva o amore o qualche aura di amore, dove mi bisognava rannicchiarmi ogni momento in me stesso, fatto sensibilissimo oltre ogni mio costume, a qualunque piccolezza e bassezza e rozzezza sia di fatti sia di parole, sia morale sia fisica, sia anche solamente filologica, come motti insulsi, ciarle insipide, scherzi grossolani, maniere ruvide e cento cose tali.
Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando, benchè tutto il resto del mondo fosse per me come morto.
L'amore è la vita e il principio vivificante della natura, come l'odio il principio distruggente e mortale.
Le cose son fatte per amarsi scambievolmente, e la vita nasce da questo.
Odiandosi, benchè molti odi sono anche naturali, ne nasce l'effetto contrario, cioè distruzioni scambievoli, e anche rodimento e consumazione interna dell'odiatore.
Quella miserabile lussuria di epiteti, sinonimi, riempiture, chevilles, ec.
che forma il comunissimo orpello de' nostri classici cinquecentisti (e credo anche del Poliziano) però non paragonabili ai latini ma più ai greci quanto allo stile, non si trova o più rara assai in Dante e nel Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di parole e castigatezza di ornati e significazione conveniente e opportunità di tutte le voci ec.
come [60]in quello del Petrarca messo dall'Alfieri avanti alla sua Virginia: Virginia appresso al fero padre armato Di disdegno di ferro e di pietate.
Trionfo Castità.
Così anche le rime del Petrarca sono molto più spontanee, e con ciò tutto quello che dipende nel verso dalla necessità della rima che alle volte fa aggiungere intieri versi che si potrebbono torre di netto ec.
come nei cinquecentisti.
Una bella e notabile similitudine è quella dell'Alamanni nel Girone Canto 17.
di un mastino e un lupo che si scontrino a caso (così dice) per una selva, o ec.
e la loro sorpresa scambievole e timore e rabbia subita e azzuffamento: come pur quella del Martelli (non mi ricordo quale) di una villanella cercante funghi e corrente dove vede biancheggiare una foglia secca ec.
prendendola per un fungo.
È pure un bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accadde il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato ec.
e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre nè possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l'idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui pur ci piace di ricordarci con qualche speciale circostanza, come [chi] va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vederne qualche cosa di più che altrove non ostante che il luogo sia p.e.
mutato affatto da quel ch'era allora ec.
Così negli anniversari.
Ed io mi ricordo di aver con indicibile affetto aspettato e notato e scorso come sacro il giorno della settimana e poi del mese e poi dell'anno rispondente a quello dov'io provai per la prima volta un tocco di una carissima passione.
Ragionevolezza benchè illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec.
civili ed ecclesiastiche in questo riguardo.
A ciò che ho detto in altro pensiero intorno all'eloquenza di chi parla di se stesso si può aggiungere e l'esempio continuo di Cicerone che piglia nuove forze ogni volta che parla di se come fa tuttora, e quello di Lorenzino de' Medici nella sua Apologia che Giordani crede il più gran pezzo d'eloquenza italiana e non vinto da nessuno [61]straniero.
Ora questo è un'Apologia di se stesso.
Ed è mirabile com'egli che scriveva per se e non poteva andar dietro alle sofisticherie, abbia trasportata come un Atlante l'eloquenza greca e latina tutta nel suo scritto dove la vedete viva e tal quale, e tuttavia vi par nativa e non punto traslatizia con una disinvoltura negli artifizi più fini dell'eloquenza insegnati e praticati ugualmente dagli antichi, una padronanza negligenza ec.
così nello stile e condotta ordine ec.
interno, come nell'esterno, cioè la lingua ec.
inaffettatissima e tutta italiana nella costruzione ec.
quando lo stile e la composizione e i modi anche particolari e tutto è latino e greco.
E ciò mentre gli altri miserabili cinquecentisti volendo seguire la stessa eloquenza e maestri ec.
come il Casa, facevano quelle miserie di composizione di stile di lingua affettatissima e più latina che italiana.
Onde i due soli eloquenti del cinquecento sono Lorenzino qui e il Tasso qua e là per tutte le sue opere che ambedue parlano sempre di se e il Tasso più dov'è più eloquente e bello e nobile ec.
cioè nelle lettere che sono il suo meglio.
La migliore orazione di Demostene è quella per la corona.
Gli ardiri rispetto a certi modi epiteti frasi metafore, tanto commendati in poesia e anche nel resto della letteratura e tanto usati da Orazio non sono bene spesso altro che un bell'uso di quel vago e in certo modo quanto alla costruzione, irragionevole, che tanto è necessario al poeta.
Come in Orazio dove chiama mano di bronzo quella della necessità (ode alla fortuna) ch'è un'idea chiara, ma espressa vagamente (errantemente) così tirando l'epiteto come a caso a quello di cui gli avvien di parlare senza badare se gli convenga bene cioè se le due idee che gli si affacciano l'una sostantiva e l'altra di qualità ossia aggettiva si possano così subito mettere insieme, come chi chiama duro il vento perchè difficilmente si rompe la sua piena quando se gli va incontro ec.
[62]Quel tanto trasportar parole greche di netto in latino che fu di moda ai buoni secoli del Lazio (anche appresso i più antichi latini scrittori, come dal francese parimente assai i nostri antichi italiani) dovea pur produrre l'istesso senso che produce ora in noi la moda di usar parole francesi in lingua italiana moda tanto antica fra noi quanto appresso i latini cioè cominciata coi primi nostri scrittori, ma ora tornata in voga come ai tempi d'Orazio e massimamente di Seneca Plinio ec.
dove pare (e v.
quello che dice Seneca della voce, analogia) che fosse considerata come una barbarie siccome presentemente, quantunque avesse per se tanti esempi antichi, come fra noi anche di parole ora risibili p.e.
frappare per battere, vengianza nell'Alamanni Girone più volte e senza necessità di rima, e parecchie altre di questo andare nello stesso poema ec.
Se non che forse allora come adesso sarà cresciuto quel gusto e divenuto senza giudizio e diffusosi alle forme ec.
e divenuto nocevole al genio nativo della lingua.
V.
p.312.
Si suol dire che leggendo certi autori semplici piani spontanei fluidi facili disinvolti naturali ec.
pare a tutti di saper far così che poi alla prova si vede come sia falso.
Ma leggendo Senofonte par proprio che tutti scrivano così e che non si possa nè sappia scrivere altrimenti, se non quando si passa da lui a un altro scrittore o da un altro scrittore alla lettura di esso.
Perchè gli altri scrittori si capisce che son semplici, in Senofonte non si scorge neppur ciò.
Nella gran battaglia dell'Isso, Dario collocò i soldati greci mercenari nella fronte della battaglia, (Arriano l.2.
c.8.
sez.9.
Curzio l.3.
c.9.
sez.2.) Alessandro i suoi mercenari greci proprio nella coda, (Arriano c.9.
sez.5.) Curiosa e notabilissima differenza e da pronosticare da questo solo l'esito della battaglia.
Perchè era chiaro che tutta la confidenza dei Persiani stava in quei 30m.
greci, e pure eran greci anche i mercenari d'Alessandro (Arriano c.9.
sez.7.) ed egli li poneva alla coda.
Quindi è chiaro ch'egli confidava più nel resto che in questi, e quello che era il più forte dell'esercito Persiano era il più debole del Macedone.
E Dario si fidava più del valore dei mercenari che di coloro che combattevano per la loro patria e avea ragione: Alessandro avendo gli stessi mercenari [63]sapeva che sarebbero stati più valorosi gli altri che combattevano per l'onor loro e di lui e la vendetta della patria ed avea somma ragione.
E infatti la propria falange Macedone venuta alle mani essa coi 30m.
mercenari, combatterono ma furon vinti.
E però da questa sola diversità delle due ordinanze da cui si poteva arguire l'infinita differenza fra gli animi de' due eserciti, era da congetturare quello che avvenne.
Della distinzione del ridicolo in quello che consiste in cose e quello che in parole, data da me in altro pensiero vedi il Costa della elocuzione p.70.
e segg.
Una similitudine nuova può esser quella dell'agricoltore che nel mentre che miete ed ha i fasci sparsi pel campo, vede oscurarsi il tempo ed una grandine terribile rapirgli irreparabilmente il grano di sotto la falce: ed egli quivi tutto accinto a raccoglierlo, se lo vede come strappar di mano senza poter contrastare.
La Commedia allora principalmente è utile quando fa conoscere il mondo, i suoi pericoli, vizi, vanità, seduzioni, tradimenti, illusioni, ec.
ai giovani alle giovanette ec.
giacchè ai vecchi che già lo conoscono non serve gran cosa, e quanto alle massime di morale e gli esempi dei tristi puniti, delle virtù, dei buoni premiati ec.
sono miserabili cose e della cui utilità, se non alquanto nel basso volgo, non si può disputare in buona fede, che certo nessun giovane o persona qualunque di un certo mondo e in somma civile, è tornata dalla commedia più virtuosa per le prediche o gli esempi morali che ci ha sentite e vedute, bensì è facile che sia (almeno in parte) disingannata dallo svelamento di tante trame che si tendono alla povera gioventù, e dalla semplice imitazione e rappresentazione di quello che succede nel mondo e che la gioventù ignora e crede molto diverso, come appunto servono le storie più che tanti altri libri, colla differenza che la commedia mostra la cosa più al vivo e al naturale e la mette sotto gli occhi in luogo di narrarla, ond'è più persuasiva.
Diciamo in proporzione lo stesso degli altri generi di dramma.
Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l'immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri [64]uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec.
ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de' fonti abitati dalle Naiadi ec.
e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec.
e così de' fiori ec.
come appunto i fanciulli.
Quello che ho detto p.32.
di questi pensieri della tartaruga si potrà forse dire anche del Pigro della cui vita bisogna vedere presso i naturalisti se sia lunga.
Molti sono che dalla lettura de' romanzi libri sentimentali ec.
o acquistano una falsa sensibilità non avendone, o corrompono quella vera che avevano.
Io sempre nemico mortalissimo dell'affettazione massimamente in tutto quello che spetta agli effetti dell'animo e del cuore mi sono ben guardato dal contrarre questa sorta d'infermità, e ho sempre cercato di lasciar la natura al tutto libera e spontanea operatrice ec.
A ogni modo mi sono avveduto che la lettura de' libri non ha veramente prodotto in me nè affetti o sentimenti che non avessi, nè anche verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascer da se: ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare più presto, in somma sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch'io provava, doveva andare a finire, quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno trovando la strada come aperta, correvo per quella più speditamente.
Per esempio nell'amore la disperazione mi portava più volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe portato senza dubbio da se, ed io sentivo che quel desiderio veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea così tosto perchè dalla lettura recente del Verter, sapevo che quel genere di amore ec.
finiva così, in somma la disperazione mi portava là, ma s'io fossi stato nuovo in queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio così presto, dovendolo io come inventare, laddove (non ostante ch'io fuggissi quanto mai si può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava già inventato.
A quel pensiero dell'Algarotti che è nel t.8.
delle sue Op.
Cremona Manini 1778-1784.
p.96.
si può aggiungere il ?????(??????dei greci ch'è la [65]parola corrispondente dov'è notabile l'indole di quella gentilissima e amabilissima nazione che un uomo onesto e probo (quantunque non fosse bello, giacchè questo nome come il suo astratto ?????(??????si usurpava per significare la sola perfetta probità e integrità in qualunque si trovasse) lo chiamava buono e bello; tanto facea conto della bellezza, che non volea scompagnar l'elogio e l'indicazione della virtù da quella della beltà e ciò costantemente e per proprietà di lingua in maniera che si dava questo titolo anche a chi fosse tutt'altro che bello.
Popolo amante del bello e dilicato e sensibile, conoscitore di quanto possa l'esterno e quello che cade sotto i sensi per ornare l'interno, e quanto sia sublime l'idea della bellezza che non dovrebbe mai essere scompagnata dalla virtù.
Parimente si può aggiungere la parola corrispondente latina frugi, che viene a dire, utile dimostrante la qualità dell'antico popolo romano dove un uomo tanto si stimava quanto giovava al comune, ed era obbligo e costume dei buoni il non vivere per se ma per la repubblica, onde per indicare un uomo di garbo, un uomo buono, si considerava la sua qualità relativa al ben pubblico, cioè in genere la sua utilità e quello che si poteva far di lui, onde lo chiamavano, frugi, uomo da profitto, da cavarne costrutto.
Diceva una volta mia madre a Pietrino che piangeva per una cannuccia gittatagli per la finestra da Luigi: non piangere non piangere che a ogni modo ce l'avrei gittata io.
E quegli si consolava perchè anche in altro caso l'avrebbe perduta.
Osservazioni intorno a questo effetto comunissimo negli uomini, e a quell'altro suo affine, cioè che noi ci consoliamo e ci diamo pace quando ci persuadiamo che quel bene non era in nostra balìa d'ottenerlo, nè quel male di schivarlo, e però cerchiamo di persuadercene, e non potendo, siamo disperati, quantunque il male in tutti i modi si rimanga lo stesso.
V.
p.188.
V.
a questo proposito il Manuale di Epitteto.
[66]Io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morire: e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore.
Non ho mai con più forza sentita la discordanza assoluta degli elementi de' quali è formata la presente condizione umana forzata a temere per la sua vita e a proccurare in tutti i modi di conservarla, proprio allora che l'è più grave, e che facilmente si risolverebbe a privarsene di sua volontà (ma non per forza d'altre cagioni).
E vidi come sia vero ed evidente che (se non vogliamo supporre la natura tanto savia e coerente in tutto il resto, che l'analogia è uno de' fondamenti della filosofia moderna e anche della stessa nostra cognizione e discorso, affatto pazza e contraddittoria nella sua principale opera) l'uomo non doveva per nessun conto accorgersi della sua assoluta e necessaria infelicità in questa vita, ma solamente delle accidentali (come i fanciulli e le bestie): e l'essersene accorto è contro natura, ripugna ai suoi principii costituenti comuni anche a tutti gli altri esseri (come dire l'amor della vita), e turba l'ordine delle cose (poichè spinge infatti al suicidio la cosa più contro natura che si possa immaginare).
Se tu hai un nemico mortale nella tal città e vedi che v'è sopra un temporale, ti passa pur per la mente la speranza ch'egli ne possa restare ucciso? Or come dunque ti spaventi se quel temporale viene sopra di te, quando la probabilità ch'egli uccida è tanto piccola che tu non ci sai neppur fondare quella cosa che ha pur bisogno di sì poco fondamento per sorgere in noi, dico la speranza? Lo stesso intendo dire di cento altri pericoli, i quali se in vece fossero probabilità di bene, ci parrebbe ridicolo il porci per esse in nessuna speranza, e pure ci poniamo per quei pericoli in timore.
Tant'è: bisogna bene che per quanto la speranza sia facile a nascere, e insussistente, il timore lo sia di più.
Ma questa riflessione mi pare molto atta a temperarlo.
Il timore è dunque più fecondo d'illusioni che la speranza.
Di un calcolatore che ad ogni cosa che udiva si metteva a computare, disse un tale: Gli altri fanno le cose, ed egli le conta.
[67]Qualunque domestico entra nella mia famiglia non n'esce mai finchè non muore, come potete sentire da quelli che ci sono stati, diceva un padrone di casa al nuovo suo cuoco, dopo che due altri se n'erano licenziati spontaneamente.
Nelle favole del Pignotti (e forse in altre ancora) per la più parte, è svanito il fine della favola, ch'è l'istruire i fanciulli ec.
col mezzo del dolce, della similitudine ec.
e non si conserva nemmeno in apparenza (come ne' poemi didascalici), giacchè sono dirette a significar certi vizi del gran mondo, certe massime di politica, certe fine qualità del carattere umano, che non giova punto nè è possibile ai fanciulli di conoscere e comprendere: come p.e.
quella dell'asino del cavallo e del bue.
Piuttosto quelle favole dalla loro prima istituzione Esopiana si son ridotte a satirette non inurbane, o a meri giuochi d'ingegno, cioè similitudini o novellette piacevoli, e alquanto istruttive per gli uomini maturi, come i contes moraux di Marmontel, e le altre opere di questo genere, eccetto che qui si parla di animali, piante ec.
ec.
Notano (v.
Roberti favola 62.
nota) che le femmine degli uccelli generalmente son meno belle dei maschi e se ne fanno maraviglia: e ciò perchè nell'uomo pare il contrario.
Poca riflessione.
Noi siamo uomini e la femmina ci par più bella del maschio, alle donne pare il contrario, agli uccelli maschi certo par più bella la femmina, e alle femmine l'opposto.
Che se ci fosse un altro animale ragionevole che come noi giudichiamo degli uccelli, così potesse giudicare della specie umana, non è dubbio che per perfezione vistosità ec.
rispettiva di forme ec.
ec.
darebbe la preferenza al maschio, e chiamerebbe più bello l'uomo che la donna, che da noi tuttavia si chiama il bel sesso.
Moltissime volte anzi la più parte si prende l'amor della gloria per l'amor della patria.
P.e.
si attribuisce a questo la costanza dei greci alle termopile, il fatto d'Attilio Regolo (se è vero) ec.
ec.
le quali cose furono puri effetti dell'amor della gloria, cioè dell'amor proprio immediato ed evidente, non trasformato ec.
Il gran mobile degli antichi popoli era la gloria che si prometteva a chi si sacrificava per la patria, e la vergogna a chi ricusava questo sacrifizio, e però come i maomettani si espongono alla morte, anzi la [68]cercano per la speranza del paradiso che gliene viene secondo la loro opinione, così gli antichi per la speranza, anzi certezza della gloria cercavano la morte i patimenti ec.
ed è evidente che così facendo erano spinti da amor di se stessi e non della patria, dal vedere che alle volte cercavano di morire anche senza necessità nè utile, (come puoi vedere nei dettagli che dà il Barthélemy sulle Termopile) e da quegli Spartani accusati dall'opinione pubblica d'aver fuggito la morte alle Termopile che si uccisero da se, non per la patria ma per la vergogna.
Ed esaminando bene si vedrà che l'amor puramente della patria, anche presso gli antichi era un mobile molto più raro che non si crede.
Piuttosto quello della libertà, l'odio di quelle tali nazioni nemiche ec.
affetti che poi si comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria, nome che bisogna ben intendere, perchè il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all'uomo.
Guardate di dietro due, tre, o più persone delle quali una parli.
Voi discernete subito qual è quella che parla, ma se non le vedrete, con tutto che siate alla stessa distanza, non la discernerete punto, quando non la conosciate alla voce o per altra circostanza ec.
E questo è accaduto a me di non discernerla non vedendola, e discernerla poi al primo sguardo veduta di dietro.
Tanto è vero che il parlare anche delle persone più modeste (com'era questa) è sempre accompagnato dai moti del corpo.
V.
p.206.
Il gran giudizio e gusto e bella immaginazione dei greci si dimostra fra mille altre cose anche nell'aver fatto vecchio il barcaiuolo dell'inferno (cruda deo viridisque senectus, dice Virgilio divinamente) cosa che conviene sommamente alla ruvidezza e squallore di quel luogo.
E nota che tutti gli altri uffizi attribuiti dalla mitologia alle divinità, sono attribuiti a Dei giovani.
Qui solamente, perchè si trattava dell'inferno, l'uffizio è dato ad un vecchio.
Il nascere istesso dell'uomo cioè il cominciamento della sua vita, è un pericolo della vita, come apparisce dal gran numero di coloro per cui la nascita è cagione di morte, non reggendo al travaglio e ai disagi che il bambino prova nel nascere.
E nota [69]ch'io credo che esaminando si troverà che fra le bestie un molto minor numero proporzionatamente perisce in questo pericolo, colpa probabilmente della natura umana guasta e indebolita dall'incivilimento.
Invenies allum si te hic fastidit Alexis.
Quest'è uno sbaglio formale.
Nessun vero amante crede di poter trovare un altro oggetto d'amore che lo compensi.
Oh infinita vanità del vero!
Quanto è più dolce l'odio che la indifferenza verso alcuno! Perciò la natura intenta a proccurare la nostra felicità individuale nello stato primitivo, ci avea lasciata l'indifferenza verso pochissime cose, come vediamo nei fanciulli sempre proclivi a odiare o ad amare, temere ec.
A quello che ho detto in altro pensiero si può aggiungere che gli stessi fiorentini pronunziano effe elle emme esse ec.
e non effi elli ec.
tanto è chiaro che la lingua umana dove manca l'appoggio della vocale, cade naturalmente in un'e.
Beati voi se le miserie vostre / Non sapete.
Detto p.e.
a qualche animale, alle api ec.
Dev'esser cosa già notata che come l'allegrezza ci porta a communicarci cogli altri (onde un uomo allegro diventa loquace quantunque per ordinario sia taciturno, e s'accosta facilmente a persone che in altro tempo avrebbe o schivate, o non facilmente trattate ec.) così la tristezza a fuggire il consorzio altrui e rannicchiarci in noi stessi co' nostri pensieri e col nostro dolore.
Ma io osservo che questa tendenza al dilatamento nell'allegrezza, e al ristringimento nella tristezza, si trova anche negli atti dell'uomo occupato dall'[70]uno di questi affetti, e come nell'allegrezza egli passegia muove e allarga le braccia le gambe, dimena la vita, e in certo modo si dilata col trasportarsi velocemente qua e là, come cercando una certa ampiezza; così nella tristezza si rannicchia, piega la testa, serra le braccia incrociate contro il petto, cammina lento, e schiva ogni moto vivace e per così dire, largo.
Ed io mi ricordo, (e l'osservai in quell'istesso momento) che stando in alcuni pensieri o lieti o indifferenti, mentre sedeva, al sopravvenirmi di un pensier tristo, immediatamente strinsi l'una contro l'altra le ginocchia che erano abbandonate e in distanza, e piegai sul petto il mento ch'era elevato.
La semplicità del Petrarca benchè naturalissima come quella dei greci, tuttavia differisce da quella in un modo che si sente ma non si può spiegare.
E forse ciò consiste in una maggior familiarità, e più vicina alla prosa, di cui il Petrarca veste mirabilmente i suoi versi così nobilissimi come sono.
I greci poeti forse sono un poco più eleganti, come Omero che cercava in ogni modo un linguaggio diverso dal familiare come apparisce da' suoi continui epiteti ec.
quantunque sia rimasto semplicissimo.
Forse anche la lingua italiana, essendo la nostra fa che noi sentiamo questa familiarità dello stile più che ne' greci, ma parmi pure che vi sia una qualche differenza reale.
Non v'ha forse cosa tanto conducente al suicidio quanto il disprezzo di se medesimo.
Esempio di quel mio amico [71]che andò a Roma deliberato di gittarsi nel Tevere perchè sentiva dirsi ch'era un da nulla.
Esempio mio stimolatissimo ad espormi a quanti pericoli potessi e anche uccidermi, la prima volta che mi venni in disprezzo.
Effetto dell'amor proprio che preferisce la morte alla cognizione del proprio niente, ec.
onde quanto più uno sarà egoista tanto più fortemente e costantemente sarà spinto in questo caso ad uccidersi.
E infatti l'amor della vita è l'amore del proprio bene; ora essa non parendo più un bene, ec.
ec.
A un cavallo turco.
Oh quanto tu sei meglio degli uomini del tuo paese.
Colle persone colle quali penso di poter convenire, non amo di parlare in compagnia, parte perchè i circostanti non conoscendomi bene (giacchè io non soglio farmi conoscer da tutti) darebbero di me a queste persone sia direttamente sia indirettamente una idea falsa; parte perchè io stesso per non entrare in dispute ch'io sfuggo a più potere con quelli che hanno diversi principii, e per non obbligare quella stessa tal persona ch'io stimassi, ad entrarvi, dissimulerei necessariamente, e così cercando d'ingannar gli altri, ingannerei anche colui, il quale mi crederebbe uno di quei tanti coi quali egli non può convenire.
Io credo che la moltitudine assoluta di ciascuna specie di animali sia in ragion diretta della loro piccolezza.
Senza dubbio una sola pianticella in una campagna contiene bene spesso più formiche assai che non v'ha uomini in tutto quel campo.
Così discorriamola.
Vedi i naturalisti, e se questa osservazione sia stata fatta da nessuno di loro.
Osservo anche la moltitudine degli uccelli i cui stormi sono innumerabili, e nondimeno son vinti dalla folla degli animali più [72]piccoli che si ritrova in questo o in quel luogo secondo le circostanze rispettive.
Anche il delitto bene spesso è un eroismo, cioè p.e.
quando il farlo torna in danno o pericolo, e nondimeno si vuol fare per soddisfare quella tal passione ec.
tanto più eroismo quanto che bisogna superare tutta la forza della natura reclamante, e dell'abitudine (se si tratta p.e.
di un giovane, di un innocente ec.) ec.
E però è un eroismo anche senza il danno o il pericolo tutte le volte che è commesso da persona non solita a commetterlo, costando sempre uno sforzo e una vittoria di se stesso, nel che consiste l'eroismo.
Quindi da un delitto di questa sorta si può sempre argomentar bene o almeno alquanto straordinariamente di una persona.
In somma ogni sacrifizio di cosa cara ogni sacrifizio difficile è un eroismo, anche quello della virtù, e dei sentimenti più sacri, quando questo sacrifizio ancora costa.
Anche il dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle cose è più tollerabile assai che la stessa noia.
Il sentimento della vendetta è così grato che spesso si desidera d'essere ingiuriato per potersi vendicare, e non dico già solamente da un nemico abituale, ma da un indifferente, o anche (massime in certi momenti d'umor nero) da un amico.
Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un'ora più quieta conoscerò, la vanità e l'irragionevolezza e l'immaginario.
Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s'annullerà, lasciandomi in un vôto universale, e in un'indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi.
[73]Io non ho mai provato invidia nelle cose in cui mi son creduto abile, come nella letteratura, dove anzi sono stato proclivissimo a lodare.
L'ho provata posso dire per la prima volta (e verso una persona a me prossimissima) quando ho desiderato di valer qualche cosa in un genere in cui capiva d'esser debolissimo.
Ma bisogna che mi renda giustizia confessando che questa invidia era molto indistinta e non al tutto e per tutto vile, e contraria al mio carattere.
Tuttavia mi dispiaceva assolutamente di sentire le fortune di quella tal persona in quel tal genere, e raccontandomele essa, la trattava da illusa, ec.
La cagione per cui il bene inaspettato e casuale, c'è più grato dello sperato, è che questo patisce un confronto cioè quello del bene immaginato prima, e perchè il bene immaginato è maggiore a cento doppi del reale, perciò è necessario che sfiguri e paia quasi un nulla.
Al contrario dell'inaspettato che non perde nulla del suo qualunque valore reale per la forza del confronto troppo disuguale.
L'ame est si mal à l'aise dans ce lieu, (dice la Staël delle catacombe liv.5 ch.2.
de la Corinne) qu'il n'en peut résulter aucun bien pour elle.
L'homme est une partie de la création, il faut qu'il trouve son harmonie morale dans l'ensemble de l'univers, dans l'ordre habituel [74]de la destinée; et de certaines exceptions violentes et redoutables peuvent étonner la pensée, mais effraient tellement l'imagination, que la disposition habituelle de l'ame ne saurait y gagner.
Queste parole sono una solennissima condanna degli orrori e dell'eccessivo terribile tanto caro ai romantici, dal quale l'immaginazione e il sentimento in vece d'essere scosso è oppresso e schiacciato, e non trova altro partito a prendere che la fuga, cioè chiuder gli occhi della fantasia e schivar quell'immagine che tu gli presenti.
Nell'autunno par che il sole e gli oggetti sieno d'un altro colore, le nubi d'un'altra forma, l'aria d'un altro sapore.
Sembra assolutamente che tutta la natura abbia un tuono un sembiante tutto proprio di questa stagione più distinto e spiccato che nelle altre anche negli oggetti che non cangiano gran cosa nella sostanza, e parlo ora riguardo a un certo aspetto superficiale e in parità di oggetti, circostanze ec.
e per rispetto a certe minuzie e non alle cose più essenziali giacchè in queste è manifesto che la faccia dell'inverno è più marcata e distinta dalle altre che quella dell'autunno ec.
Una delle cagioni del gran contrasto delle qualità degli abitanti del mezzogiorno notata dalla Staël, Corinne liv.6.
ch.2.
p.246.
troisieme édition 1812., (oltre quella, qu'ils ne perdent aucune force de l'ame dans la société, com'ella dice ivi, onde la natura anche per questo capo resta più varia, e non così obbligata e avvezzata alla continua uniformità, come succede per lo spirito di società e d'eccessivo incivilimento in Francia) è che il clima meridionale essendo [75]il più temperato, e la natura quivi (come dice la stessa più volte) in grande armonia, essa si trova più spedita, più dégagée, più sviluppata, onde siccome le circostanze della vita son diversissime, così trovandosi i caratteri meridionali per la detta cagione pieghevolissimi, e suscettibili d'ogni impressione, ne segue il contrasto delle qualità che si dimostrano nelle contrarie circostanze, e il rapido passaggio ec.
Laddove negli altri climi la natura trovandosi meno mobile più inceppata e dura, il violento difficilmente mostra pacatezza, e l'indolente non divien quasi mai attivo, insomma la qualità dominante, domina più assolutamente e tirannicamente di quello che faccia nel mezzogiorno, dove non perciò si dee credere che manchino le qualità dominanti nel tale e tale individuo, ma che in proporzione lascino più luogo alle altre qualità, alla varietà loro ec.
Il sentimento che si prova alla vista di una campagna o di qualunque altra cosa v'ispiri idee e pensieri vaghi e indefiniti quantunque dilettosissimo, è pur come un diletto che non si può afferrare, e può paragonarsi a quello di chi corra dietro a una farfalla bella e dipinta senza poterla cogliere: e perciò lascia sempre nell'anima un gran desiderio: pur questo è il sommo de' nostri diletti, e tutto quello ch'è determinato e certo è molto più lungi dall'appagarci, di questo che per la sua incertezza non ci può mai appagare.
[76]La somma felicità possibile dell'uomo in questo mondo, è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore, che per esser certa, e lo stato in cui vive, buono, non lo inquieti e non lo turbi coll'impazienza di goder di questo immaginato bellissimo futuro.
Questo divino stato l'ho provato io di 16 e 17 anni per alcuni mesi ad intervalli, trovandomi quietamente occupato negli studi senz'altri disturbi, e colla certa e tranquilla speranza di un lietissimo avvenire.
E non lo proverò mai più, perchè questa tale speranza che sola può render l'uomo contento del presente, non può cadere se non in un giovane di quella tale età, o almeno, esperienza.
L'incivilimento ha posto in uso le fatiche fine ec.
che consumano e logorano ed estinguono le facoltà umane, come la memoria, la vista, le forze in genere ec.
le quali non erano richieste dalla natura, e tolte quelle che le conservano e le accrescono, come quelle dell'agricoltore del cacciatore ec.
e della vita primitiva, le quali erano volute dalla natura e rese necessarie alla detta vita.
Un corollario del pensiero posto qui sopra possono essere delle osservazioni sulla vita degli anacoreti senza disturbi e colla speranza quieta e non impaziente del paradiso.
L'espressione del dolore antico, p.e.
nel Laocoonte, nel gruppo di Niobe, nelle descrizioni di Omero ec.
doveva essere per necessità differente da quella del dolor moderno.
Quello era un dolore senza medicina come ne ha il nostro, non sopravvenivano le sventure agli antichi come necessariamente dovute alla nostra natura, ed anche come un nulla in questa misera vita, ma [77]come impedimenti e contrasti a quella felicità che agli antichi non pareva un sogno, come a noi pare, (ed effettivamente non era tale per essi, certamente speravano, mentre noi disperiamo, di poterla conseguire) come mali evitabili e non evitati.
Perciò la vendetta del cielo, le ingiustizie degli uomini, i danni, le calamità, le malattie, le ingiurie della fortuna, pareano mali tutti propri di quello a cui sopravvenivano.
(infatti il disgraziato al contrario di adesso solea per la superstizione che si mescolava ai sentimenti e alle opinioni naturali, esser creduto uno scellerato e in odio agli Dei, e destar più l'odio che la compassione) Quindi il dolor loro era disperato, come suol essere in natura, e come ora nei barbari e nelle genti di campagna, senza il conforto della sensibilità, senza la rassegnazion dolce alle sventure da noi, non da loro, conosciute inevitabili, non poteano conoscere il piacer del dolore, nè l'affanno di una madre, perduti i suoi figli, come Niobe, era mescolato di nessuna amara e dolce tenerezza di se stesso ec.
ma intieramente disperato.
Somma differenza tra il dolore antico e il moderno per cui con ragione si raccomanda al poeta artista ec.
moderno di trattar soggetti moderni, non potendo a meno trattando soggetti antichi di cadere in una di queste due, o violare il vero, dipingendo i fatti antichi con prestare ai suoi personaggi sentimenti e affetti moderni, o non interessare nè farsi [78]intendere dai moderni col far sentire e parlare quei personaggi all'antica.
Se non che l'offendere il vero, nel primo caso non mi par così da schivare, purchè si salvi il verosimile, divenendo cosa da puro erudito, quando l'effetto di quella mescolanza è buono, il rilevare che gli antichi non avrebbero potuto provare quei sentimenti, come io soglio anche dire dei vestimenti e delle attitudini nella pittura, ec.
dove purchè l'offesa del vero non salti agli occhi, vale a dire si salvi il verisimile, sarà sempre meglio farsi intendere e colpire i moderni, che assoggettarsi ad una miserabile esattezza erudita che non farebbe nessuno effetto.
Quindi non condanno punto anzi lodo p.e.
Racine che avendo scelto soggetti antichi (che colla loro natura non erano incompatibili coi sentimenti moderni, e d'altronde erano per la loro bellezza, tragicità, forza ec.
preferibili ad altri soggetti de' giorni più bassi) gli ha trattati alla moderna.
La sensibilità era negli antichi in potenza, ma non in atto come in noi, e però una facoltà naturalissima (v.
il mio discorso sui romantici), ma è cosa provata che le diverse circostanze sviluppano le diverse facoltà naturali dell'anima, che restano nascose e inoperose mancando quelle tali circostanze, fisiche, politiche, morali, e soprattutto, nel nostro caso, intellettuali, giacchè lo sviluppo del sentimento e della melanconia, è venuto soprattutto dal progresso della filosofia, e della cognizione dell'uomo, e del mondo, e della vanità delle cose, e della infelicità umana, [79]cognizione che produce appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo mai conoscere.
Gli antichi in cambio di quel sentimento che ora è tutt'uno col malinconico, avevano altri sentimenti entusiasmi ec.
più lieti e felici, ed è una pazzia l'accusare i loro poeti di non esser sentimentali, e anche il preferire a quei sentimenti e piaceri loro che erano spiritualissimi anch'essi, e destinati dalla natura all'uomo non fatto per essere infelice, i sentimenti e le dolcezze nostre, benchè naturali anch'esse, cioè l'ultima risorsa della natura per contrastare (com'è suo continuo scopo) alla infelicità prodotta dalla innaturale cognizione della nostra miseria.
La consolazione degli antichi non era nella sventura, per es.
un morto si consolava cogli emblemi della vita, coi giuochi i più energici, colla lode di avere incontrata una sventura minore o nulla morendo per la patria, per la gloria, per passioni vive, morendo dirò quasi per la vita.
La consolazione loro anche della morte non era nella morte ma nella vita.
V.
p.105.
di questi pensieri.
Le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch'ella trae da se stessa e non dalla natura, e così l'uditore.
Ecco perchè la Staël (Corinne liv.9.
ch.2.) dice: De tous les beaux-arts c'est (la musique) celui qui agit le plus immédiatement sur l'ame.
Les autres la dirigent vers telle ou telle idée, celui-là seul s'adresse à la source intime de l'existence, et change en entier la disposition intérieure.
La [80]parola nella poesia ec.
non ha tanta forza d'esprimere il vago e l'infinito del sentimento se non applicandosi a degli oggetti, e perciò producendo un'impressione sempre secondaria e meno immediata, perchè la parola come i segni e le immagini della pittura e scultura hanno una significazione determinata e finita.
L'architettura per questo lato si accosta un poco più alla musica, ma non può aver tanta subitaneità, ed immediatezza.
La speme che rinasce in un col giorno.
Dolor mi preme del passato, e noia
Del presente, e terror de l'avvenire.
Si può osservare che il Cristianesimo, senza perciò fargli nessun torto ha per un verso effettivamente peggiorato gli uomini.
Basta considerare l'effetto che produce sopra i lettori della storia il carattere dei principi cristiani scellerati in comparazione degli scellerati pagani, e così dei privati, dei Patriarchi, Vescovi, e monaci greci (v.
Montesquieu Grandeur ec.
Amsterd.
1781.
ch.22.) o latini.
Le scelleratezze dei secondi non erano per nessun modo in tanta opposizione coi loro principii.
Morto il fanatismo della pietà, e il primo fervore di una religione che si considera come un'opinione propria, e una setta e cosa propria, e di cui perciò si è più gelosi (anche per li sacrifizi che costava il professarla) l'uomo in società ritorna naturalmente malvagio, colla differenza che quando gli antichi scellerati operavano o secondo i loro principii, o in opposizione di massime confuse poco note e controverse, i cristiani operavano contro massime certe stabilite definite, e di cui erano intimamente persuasi, e l'uomo è sempre tanto più [81]scellerato quanto più sforzo costa l'esserlo, massimamente contro se stesso, come per contrario accade della pietà.
E infatti da quando il cristianesimo fu corrotto nei cuori, cioè presso a poco da quando divenne religione imperiale e riconosciuta per nazionale, e passò in uomini posti in circostanze da esser malvagi, è incontrastabile che le scelleratezze mutaron faccia e il carattere di Costantino e degli altri scellerati imperatori cristiani, vescovi ec.
è evidentemente più odioso di quello dei Tiberi dei Caligola ec.
e dei Marii e dei Cinna ec.
e di una tempra di scelleraggine tutta nuova e più terribile.
E secondo me a questo cioè al cristianesimo si deve in gran parte attribuire (giacchè il guasto cristianesimo era una parte di guasto incivilimento) la nuova idea della scelleratezza dell'età media molto differente e più orribile di quella dell'età antiche anche più barbare: e questa nuova idea si è mantenuta più o meno sino a questi ultimi tempi nei quali l'incredulità avendo fatti tanti progressi, il carattere delle malvagità si è un poco ravvicinato all'antico, se non quanto i gran progressi e il gran divulgamento dei lumi chiari e determinati della morale universale molto più tenebrosa presso gli antichi anche più civili, non lascia tanto campo alla scelleraggine di seguire più placidamente il suo corso.
V.
p.710.
capoverso 1.
[82]Citerò un luogo delle Notti romane, non perch'io creda che quel libro si possa prendere per modello di stile, ma per addurre un esempio che mi cade in acconcio.
Ed è quello dove la Vestale dice che diede disperatamente del capo in una parete, e giacque.
La soppressione del verbo intermedio tra il battere il capo e il giacere, che è il cadere, produce un effetto sensibilissimo, facendo sentire al lettore tutta la violenza e come la scossa di quella caduta, per la mancanza di quel verbo, che par che ti manchi sotto ai piedi, e che tu cada di piombo dalla prima idea nella seconda che non può esser collegata colla prima se non per quella di mezzo che ti manca.
E queste sono le vere arti di dar virtù ed efficacia allo stile, e di far quasi provare quello che tu racconti.
Io era oltremodo annoiato della vita, sull'orlo della vasca del mio giardino, e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s'io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzandomi di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe più pregevole.
La tradizione intorno al salto di Leucade poteva avere per fondamento un'osservazione simile a questa.
[83]La cagione per cui trovo nelle osservazioni di Mad.
Di Staël del libro 14.
della Corinna anche più intima e singolare e tutta nuova naturalezza e verità, è (oltre al trovarmi io presentemente nello stessissimo stato ch'ella descrive) il rappresentare ella quivi il genio considerante se stesso e non le cose estrinseche nè sublimi, ma le piccolezze stesse e le qualità che il genio poche volte ravvisa in se, e forse anche se ne vergogna e non se le confessa (o le crede aliene da se e provenienti da altre qualità più basse, e perciò se n'affligge) onde con minore sublime ed astratto, ha maggior verità e profondità familiare in tutto quello che dice Corinna di se giovanetta.
Quantunque io mi trovi appunto nella condizione che ho detta qui sopra pur leggendo il detto libro, ogni volta che madame parla dell'invidia di quegli uomini volgari, e del desiderio di abbassar gli uomini superiori, e presso loro e presso gli altri e presso se stessi, non ci trovava la solita certissima e precisa applicabilità alle mie circostanze.
E rifletto che infatti questa invidia, e questo desiderio non può trovarsi in quei tali piccoli spiriti ch'ella descrive, perchè non hanno mai considerato il genio e l'entusiasmo come una superiorità, anzi come una pazzia, come fuoco giovanile, difetto di prudenza, di esperienza di senno, ec.
e si stimano molto più essi, onde non possono provare invidia, perchè nessuno invidia la follia degli altri, bensì compassione, o disprezzo, e anche malvolenza, come a persone che non vogliono pensare come voi, e come credete che si debba pensare.
Del resto credono che ancor esse fatte più mature si ravvedranno, tanto sono lontane dall'invidiarle.
E così precisamente [84]porta l'esperienza che ho fatta e fo.
Ben è vero che se mai si affacciasse loro il dubbio che questi uomini di genio fossero spiriti superiori, ovvero se sapranno che son tenuti per tali, come anime basse che sono e amanti della loro quiete ec.
faranno ogni sforzo per deprimerli, e potranno concepirne invidia, ma come di persone di un merito falso e considerate contro al giusto, e invidia non del loro genio, ma della stima che ne ottengono, giacchè non solamente non li credono superiori a se, ma molto al di sotto.
Una prova in mille di quanto influiscano i sistemi puramente fisici sugl'intellettuali e metafisici, è quello di Copernico che al pensatore rinnuova interamente l'idea della natura e dell'uomo concepita e naturale per l'antico sistema detto tolemaico, rivela una pluralità di mondi mostra l'uomo un essere non unico, come non è unica la collocazione il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l'infinità delle creature che secondo tutte le leggi d'analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analoghi al nostro, e quelli anche che saranno benchè non ci appariscano intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l'idea dell'uomo, e la sublima, scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della essenza delle cose, dell'esser nostro, dell'onnipotenza del creatore, dei fini del creato ec.
ec.
Nella mia somma noia e scoraggimento intiero della vita talvolta riconfortato alquanto e alleggerito io mi metteva a piangere la sorte umana e la miseria del mondo.
Io rifletteva allora: io piango perchè sono più lieto, e così è che allora il nulla delle cose pure mi lasciava forza d'addolorarmi, e quando io lo sentiva maggiormente e ne era pieno, non mi lasciava il vigore di dolermene.
[85]Cum pietatem funditus amiserint
Pi tamen dici nunc maxime reges volunt.
Quo res magis labuntur, haerent nomina.
Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo.
Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla.
Prima di provare la felicità, o vogliamo dire un'apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo alimentarci delle speranze, e se queste son forti e costanti, il tempo loro è veramente il tempo felice dell'uomo, come nella età fra la fanciullezza e la giovanezza.
Ma provata quella felicità che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la infelicità dell'uomo è stabilita.
Oltre che le speranze dopo la trista esperienza fatta sono assai più difficili, ma in ogni modo la vivezza della felicità provata, non può esser compensata dalle lusinghe e dai diletti limitati della speranza, e l'uomo in comparazione di questa piange sempre quello che ha perduto e che ben difficilmente può tornare, perchè il tempo delle grandi illusioni è finito.
Uomo colto in piena campagna da una grandine micidiale e da essa ucciso o malmenato rifugiantesi sotto gli alberi, difendentesi il capo colle mani ec.
soggetto di una similitudine.
Quando le sensazioni d'entusiasmo ec.
che noi proviamo non sono molto profonde, allora cerchiamo di avere un compagno con cui comunicarle, e ci piace il poterne discorrere in quel momento, (secondo quella osservazione di Marmontel che vedendo una bella campagna non siamo contenti se non abbiamo con chi dire: la belle campagne!) perchè in certo modo speriamo di accrescere [86]il diletto di quel sentimento e il sentimento medesimo con quello degli altri.
Ma quando l'impressione è profonda accade tutto l'opposto perchè temiamo, e così è, di scemarla e svaporarla partecipandola, e cavandola dal chiuso delle nostre anime, per esporla all'aria della conversazione.
Oltre ch'ella ci riempie in modo, che occupando tutta la nostra attenzione, non ci lascia campo di pensare ad altri, nè modo di esprimerla, volendosi a ciò una certa attenzione che ci distrarrebbe, quando la distrazione ci è non solamente importuna, ma impossibile.
Dice la Staël, (Corinne liv.18.
ch.4.) parlando de la statue de Niobé: sans doute dans une semblable situation la figure d'une véritable mère serait entièrement bouleversée; mais l'idéal des arts conserve la beauté dans le désespoir; et ce qui touche profondément dans les ouvrages du génie, ce n'est pas le malheur même, c'est la puissance que l'ame conserve sur ce malheur.
Bellissima condanna del sistema romantico che per conservare la semplicità e la naturalezza e fuggire l'affettazione che dai moderni è stata pur troppo sostituita alla dignità, (facile agli antichi ad unire colla semplicità che ad essi era sì presente e nota e propria e viva) rinunzia ad ogni nobiltà, così che le loro opere di genio non hanno punto questa gran nota della loro origine, ed essendo una pura imitazione del vero, come una statua di cenci con parrucca e viso di cera ec.
colpisce molto meno di quella che insieme colla semplicità e naturalezza conserva l'ideale del bello, e rende straordinario quello ch'è comune, cioè mostra ne' suoi eroi un'anima grande e un'attitudine dignitosa, il che muove la maraviglia e [87]il sentimento profondo colla forza del contrasto, mentre nel romantico non potete esser commosso se non come dagli avvenimenti ordinari della vita, che i romantici esprimono fedelmente, ma senza dargli nulla di quello straordinario e sublime, che innalza l'immaginazione, e ispira la meditazione profonda e la intimità e durevolezza del sentimento.
E così ancora si verifica che gli antichi lasciavano a pensare più di quello ch'esprimessero, e l'impressione delle loro opere era più durevole.
Quando l'uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l'impossibilità d'esser felice, e la somma e certa infelicità dell'uomo, comincia dal divenire indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla, nè perdere e soffrire più di quello ch'ella già preveda e sappia.
Ma se la sventura arriva al colmo l'indifferenza non basta, egli perde quasi affatto l'amor di se, (ch'era già da questa indifferenza così violato) o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini, egli passa ad odiare la vita l'esistenza e se stesso, egli si abborre come un nemico, e allora è quando l'aspetto di nuove sventure, o l'idea e l'atto del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se egli pervenga ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora è il tempo di quel maligno amaro e ironico sorriso simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele dopo forte lungo e irritato desiderio, il qual sorriso è l'ultima espressione della estrema disperazione e della somma infelicità.
V.
Staël Corinne l.17.
c.4.
5me édition Paris, 1812.
p.184.185.
t.3.
[88]Je vous l'ai dit souvent, la douleur me tuerait; il y a trop de lutte en moi contre elle; il faut lui céder pour n'en pas mourir, dice Corinna presso la Staël liv.14.
ch.3.
t.2.
p.361.
dell'edizione citata qui dietro.
E da questo venia che gli antichi al carattere dei quali l'autrice ha voluto ravvicinare quello di Corinna quanto era compatibile coi costumi e la filosofia moderna di cui l'arricchisce a piena mano, erano vinti dall'infelicità in modo che esprimevano la loro disperazione cogli atti e le azioni più terribili, e la sventura li mandava fuori di se stessi, e gli uccideva.
Quel se réposer sur sa douleur, quel piacere perfino provato dai moderni per la stessa sventura e per la considerazione di essere sventurato, era cosa ignota a quelli che secondo l'istinto della natura non ancora del tutto alterata, correvano sempre dritto alla felicità, non come a un fantasma, ma cosa reale, e trovavano il loro diletto dove la natura primitivamente l'ha posto, cioè nella buona e non nella cattiva fortuna, la quale quando loro sopravvenniva, la riguardavano come propria, non come universale e inevitabile.
Nè il desiderio della felicità era in essi temperato e rintuzzato e illanguidito da nessuna considerazione e da nessuna filosofia.
Perciò tanto più formidabile era l'effetto di quanto impediva loro l'adempimento di questo desiderio.
Les habitans du Midi craignant beaucoup la mort, l'on s'étonne d'y trouver des institutions qui la rappellent à ce point; mais il est dans la nature d'aimer à se livrer à l'idée même de ce que l'on redoute.
Il y a comme un enivrement de tristesse qui fait à l'ame le bien de la remplir tout entière.
Corinne l.10.
ch.1 t.2.
p.115.
edizione citata qui dietro [89].
A questo proposito si può notare quella indistinta e pur vera voglia che noi proviamo avendo p.e.
in mano una cosa fetente di sentirne fuggitivamente l'odore.
Così se ti abbatti a passare, poniamo, per un luogo dove si faccia giustizia, tu senti ribrezzo di quella esecuzione, e pure io metto pegno che non ti puoi tenere che non alzi gli occhi per vederla così di sfuggita, e poi rivolgerli immediatamente altrove.
V.
a tal proposito un luogo notabile di Platone, Opp.
Ed.
Astii, t.4.
p.236.
lin.8-16.
E così di ogni cosa che ci faccia ribrezzo, così se tu hai corso un pericolo che ti spaventi, ti si stringe il cuore in pensarci, non hai forza di fermarti in quel pensiero di quel momento di quel caso di quella vicinanza della morte ec.
ma neanche hai forza di cacciarlo, anzi bisogna pur che tra il volere e il non volere ci lasci andare un'occhiata.
Similmente se ti si affaccia qualche pensiero che ti addolori, la ricordanza di qualche cosa che ti faccia vergognare teco stesso ec.
La ragione di questo effetto non è certo quell'inebbriamento che dice la Staël, e nemmeno la curiosità come può vedere chiunque ci faccia un poco di considerazione.
Piuttosto direi che quell'ignoto ci fa più pena che il noto, e siccome quell'oggetto ci spaventa o ci abbrividisce o ci attrista, non sappiamo lasciarlo stare così intatto, e anche con ribrezzo, abbiamo pure una certa voglia di dargli una tal quale squadrata che ce lo faccia conoscere alquanto.
Forse anche, e così credo, proviene dall'amore dello straordinario, e odio naturale della monotonia e della noia ch'è ingenito in tutti gli uomini, e offrendosi un oggetto che rompe questa monotonia, ed esce dell'ordine comune, quantunque ci paia [90]più grave assai della noia, di cui forse anche, in quel punto non ci accorgiamo e non abbiamo nessun pensiero, pur troviamo un certo piacere in quella scossa in quell'agitazione, che ci produce la vista fuggitiva di esso oggetto.
La quale spiegazione si ravvicina a quella della Staël, giacchè la noia non è altro che il vuoto dell'anima, ch'è riempito, come ella dice da quel pensiero, e occupato intieramente per quel punto.
E in fine può anche derivare, e penso che almeno in parte derivi dallo stesso timore che abbiamo di quel pensiero, per la ragione che in tutte le cose fisiche e morali, il voler troppo intensamente e il timore di non conseguire, distorna le nostre azioni dal loro fine, e il mettersi ad un'operazione di mano p.e.
chirurgica con troppa intenzion d'animo e timore di non riuscire, la manda a male, e nelle lettere, o belle arti, il cercar la semplicità con troppa cura, e paura di non trovarla, la fa perdere ec.
L'orrore e il timore della fatalità e del destino si prova più (anche oggidì che la superstizione è quasi bandita dal mondo) nelle anime forti e grandi, che nelle mediocri per cagione che i desideri e i fini di quelle sono fissi, e ch'elle li seguono con ardore, con costanza, e risoluzione invariabile.
Così era più ordinariamente presso gli antichi, appo i quali la fermezza e la costanza e la forza e la magnanimità erano virtù molto più ordinarie che fra i moderni.
E vedendo essi che spesse volte anzi frequentissimamente i casi della vita si oppongono ai desideri dell'uomo, erano compresi da terrore per la ragione della loro immobilità nel desiderare o nel diriggere le loro azioni a quel tale scopo che forse e probabilmente non avrebbero [91]potuto conseguire.
Infatti nella infinita varietà dei casi è molto più improbabile che segua precisamente quello a cui tu miri invariabilmente, che gl'infiniti altri possibili.
Ora accadendone piuttosto un altro non è effetto di destino fisso che ti perseguiti, ma di cieco accidente.
Essi tuttavia com'è naturale come per un'illusione ottica o meccanica confondevano (e gli animi forti ed ardenti tuttora confondono) l'immobilità loro propria con quella degli avvenimenti, e perchè non erano spiriti da secondarli e adattarvisi, immaginavano che l'immobilità stesse non in se ma nei medesimi avvenimenti già stabiliti dal destino.
Laddove gli spiriti mediocri, senza fermezza nè certezza di mire, nella moltiplicità dei loro fini, e si abbattono più facilmente a uno o più di quelli che desiderano, e anche nel caso opposto cedono senza difficoltà all'andamento delle cose, e da questo si lasciano trasportare, piegare, regolare, andando a seconda degli avvenimenti.
Così essi non avendo immobilità in loro, nè vedendo la somma difficoltà di concordare i loro disegni cogli avvenimenti hanno l'intelletto più libero, e non pensano che la fortuna opponga loro un'opposizione forte e stabile, (la qual forza e stabilità non è veramente se non nella resistenza che le anime grandi oppongono agl'instabilissimi e casuali avvenimenti) ma considerano tutto come effetto del caso, e delle combinazioni, siccom'è infatti.
Aggiungi l'invariabilità non solo dei fini, ma anche dei mezzi nei primi, (cioè ne' magnanimi) che non permette loro di cambiar principii, nè di regolare le loro azioni a norma degli avvenimenti, ma li conserva sempre costanti nel loro proposito e nel modo di seguitarlo, mentre il contrario accade nei secondi.
E anche senza nessun proposito nè scopo, si vedrà che la sola fermezza e immutabilità del carattere, fa illusione sulla forza del destino ch'essendo [92]così vario pare immutabile a quelli che non vedono se non una sola via, una sola maniera di contenersi di pensare e operare, una sola sorta di avvenimenti, e come questi dovrebbero o pare a loro che dovrebbero accadere.
E questo timore del destino si trova in conseguenza più o meno anche negli spiriti mediocri, o puramente ragionevoli e filosofici ec.
quando provano qualche desiderio o mirano a qualche fine in modo che divengano immobili intorno a quel punto.
V.
Staël Corinne l.13.
c.4.
p.306.
t.2.
edizione citata poco sopra.
L'illusione che ho detto si può in qualche modo paragonare a quella che noi proviamo credendo la terra immobile perchè noi siam fermi su di lei, quantunque ella giri e voli rapidissimamente.
E già si sa che anche nei magnanimi ella è più viva e presente secondo che essi si trovano in circostanze di desideri e mire più vive, determinate e focose forti ferme ec.
nelle grandi passioni ec.
La società francese la quale fa che l'esprit naturel se tourne en épigrammes plutôt qu'en poésie, dice la Staël, (vedila, Corinne, liv.15.
chap.9.
p.80.
t.3.
edizione citata da me alla p.87.) rende ancora epigrammatica tutta la loro scrittura, ed abituati come sono a dare a tutti i loro detti nella conversazione, une tournure che li renda gradevoli, un'aria di novità, una grazia ascitizia, un garbo proccurato ec.
ponendosi a scrivere, e stimando naturalmente che la scrittura non li disobblighi da quello a cui gli obbliga la raffinatezza della conversazione, (naturale nel paese dove lo spirito di società è così grande, anzi è l'anima e lo scopo e il tutto della vita) e per lo contrario credendo che quest'obbligo sia maggiore nello scrivere che nel parlare (e con ragione avuto riguardo al gusto de' lettori nazionali che altrimenti li disprezzerebbero) si abbandonano a quello stesso studio che adoprano nella conversazione per renderla aggradevole e piccante ec.
e però il loro stile è così diverso da [93]quello de' greci e de' latini e degl'italiani, non essendo possibile ch'essi accettino quella prima frase che si presenta naturalmente e da se a chi vuole esprimere un sentimento.
E però le grazie naturali sono affatto sbandite dal loro stile, anzi è curioso il vedere quello ch'essi chiamino naturalezza e semplicità, come p.e.
in La Fontaine tanto decantato per queste doti.
In luogo delle grazie naturali il loro stile è tutto composto delle grazie di società e di conversazione, e quando queste sono conseguite essi chiamano il loro stile, semplice, come fanno sempre anche in astratto quando paragonano lo stil francese all'italiano p.e.
o al latino ec.
parte avuto riguardo alla collocazione materiale delle parole e alla costruzione del periodo, e divisione del discorso ec.
paragonata con quella delle altre lingue, parte alla mancanza delle ampollosità delle gonfiezze, delle figure troppo evidenti, dei giri e rigiri per dire una stessa cosa ec.
ec.
che si trovano nei cattivi stili delle altre lingue, e che nel francese sono affatto straordinari e sarebbero fischiati.
E questa chiamano purezza di gusto, ed hanno ragione da un lato, ma dall'altro non conoscono quella semplicità così intrinseca come estrinseca dello stile che non ha niente di comune coll'eleganza la politezza la tournure la raffinatezza il limato il ricercato della conversazione, ma sta tutta nella natura, nella pura espressione de' sentimenti che è presentata dalla cosa stessa, e che riceve novità e grazia piuttosto dalla cosa, se ne ha, che da se medesima e dal lavoro dello scrittore, quella schiettezza di frase le cui grazie sono ingenite e non ascitizie, quel modo di parlare che non viene dall'abitudine della conversazione e che par naturale solamente a chi vi è accostumato (cioè ai francesi e agli altri nutriti sempre di cose francesi) ma dalla natura universale, e dalla stessa materia, quello insomma ch'era [94]proprio dei greci, e con una certa proporzione, de' latini, e degl'italiani, di Senofonte di Erodoto de' trecentisti ec.
i quali sono intraducibili nella lingua francese.
Cosa strana che una lingua di cui essi sempre vantano la semplicità non abbia mezzi per tradurre autori semplicissimi, e di uno stile il più naturale, libero, inaffettato, disinvolto, piano, facile che si possa immaginare.
E pur la cosa è rigorosamente vera, e basta osservar le traduzioni francesi da classici antichi per veder come stentino a ridurre nel loro stile di società e di conversazione ch'essi chiamano semplice (e ch'è divenuto inseparabile dalla loro lingua anzi si è quasi confuso con lei) quei prototipi di manifesta e incontrastabile semplicità; e come esse sieno lontane dal conservare in nessun modo il carattere dello stile originale.
Qui comprendo anche le Georgiche di Delille intese da orecchie non francesi, e quella generale osservazione fatta anche dalla Staël nella Biblioteca Italiana che le traduzioni francesi da qualunque lingua hanno sempre un carattere nazionale e diverso dallo stile originale e anche dalle parti più essenziali di esso, e anche da' sentimenti.
E basta anche notare come le traduzioni e lo stile d'Amyot veramente semplicissimo (e non però suo proprio ma similissimo a quello de' suoi originali, e tra le lingue moderne, all'italiano) si allontanino dall'indole della presente lingua francese, non solo quanto alle parole e ai modi antiquati, ma principalmente nelle forme sostanziali, e nell'insieme dello stile, che ora di francese non può avere altro che il nome, e che sarebbe chiamato barbaro in un moderno, levato anche ogni vestigio d'arcaismo.
E scommetto ch'egli riesce più facile a intendere agl'italiani, che ai francesi non dotti, massime nelle lingue classiche.
Il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza di pensare seco stesso, perchè noi [95]pensiamo parlando.
Ora nessuna lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl'infiniti particolari del pensiero.
Il posseder più lingue e il potere perciò esprimere in una quello che non si può in un'altra, o almeno così acconciamente, o brevemente, o che non ci viene così tosto trovato da esprimere in un'altra lingua, ci dà una maggior facilità di spiegarci seco noi e d'intenderci noi medesimi, applicando la parola all'idea che senza questa applicazione rimarrebbe molto confusa nella nostra mente.
Trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne sappiamo il significato chiaro e già noto per l'uso altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane ben definita e fissa nella mente, e ben determinata e circoscritta.
Cosa ch'io ho provato molte volte, e si vede in questi stessi pensieri scritti a penna corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche francesi latine, secondo che mi rispondevano più precisamente alla cosa, e mi venivano più presto trovate.
Perchè un'idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che l'abbiamo concepita.
Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.
Spesse volte il caso ha renduto espressivissima una parola che parrebbe perciò originale e derivata dalla cosa, mentre non è che una pura figlia d'etimologia.
P.e.
nausea quella parola sì espressiva presso i latini e gl'italiani (v.
questi pensieri p.12.) deriva dal greco ???? nave, onde ??????, ionicamente ??????, e in latino nausea perch'ella suole accadere ai naviganti.
Bisognerebbe vedere se quell'oracolo della porca bianca da trovarsi da Enea all'imboccatura del Tevere per buono ed ultimo augurio secondo Virgilio, avesse qualche altro significato ed origine nota e verisimile, non fattizia e arbitraria, perchè non avendone, io suppongo che derivi dal nome di troia che noi diamo alle [96]porche, e che a cagione di questo oracolo mi par ben da sospettare che fosse anche voce antica e popolare latina nello stesso significato, e così la porca venisse popolarmente considerata come un emblema di Troia, nella stessa guisa che presentemente parecchie città e famiglie hanno per insegna quell'animale o quell'oggetto materiale ch'è chiamato con un nome simile al loro.
V.
la Cron.
d'Euseb.
l.1.
c.46.
e nota che quel racconto benchè da scrittor greco è preso anche quivi e attribuito intieramente a un latino.
V.
p.511.
capoverso 1.
In proposito di quello che ho detto p.76.
e segg.
In questi pensieri si può osservare che quando noi per qualche circostanza ci troviamo in istato di straordinario e passeggero vigore, come avendo fatto uso di liquori che esaltino le forze del corpo senza però turbar la ragione, ci sentiamo proclivissimi all'entusiasmo, nè però questo entusiasmo ha nulla di malinconico, ma è tutto sublime nel lieto, anzi le idee dolorose, ed una soave mestizia e la pietà non trova luogo allora nel cuor nostro o almeno non son questi i sentimenti ch'ei preferisce, ma il vigore che proviamo dà un risalto straordinario alle nostre idee, ed abbellisce e sublima ogni oggetto agli occhi nostri, e quello è il tempo di sentir gli stimoli della gloria, dell'amor patrio, dei sacrifizi generosi (ma considerati come bene non come sventura) e delle altre passioni antiche.
Quindi possiamo congetturare quale dovesse essere ordinariamente l'entusiasmo degli antichi che si trovavano incontrastabilmente in uno stato di vigor fisico abituale, superiore al nostro ordinario; il quale quanto noceva e nuoce alla ragione, tanto favorisce l'immaginazione, e i sentimenti focosi gagliardi ed alti.
Colla differenza che noi avvezzi nel corso della nostra vita a compiacerci, al contrario degli antichi, nelle idee dolorose, anche in quel vigore, sentendoci delle spinte al sentimento, ci potremo compiacere molto più facilmente che non faceano gli antichi di qualcuna di queste tali idee, quantunque non cercata allora di preferenza.
Ma osservo che in quei momenti anche le idee malinconiche ci si presentano come un aria di festa che la felicità non ci pare un'illusione, [97]anzi ancora le dette idee ci si offrono come conducenti alla felicità, e la sventura come un bene sublime che ci fa palpitar e d'entusiasmo e di speranza, e sentiamo una gran confidenza in noi stessi e nella fortuna e nella natura, quando anche ella non sia nel nostro carattere, o nell'abitudine contratta colla sperienza della vita.
Una delle cose più dispiacevoli, è il sentir parlare di un soggetto che c'interessi, senza potervi interloquire.
E molto più se ne parlano a sproposito, o ignorando una circostanza un fatto ec.
che noi potremmo narrar loro, o in contraddizione coi nostri sentimenti, in maniera che vengano a concludere il contrario di quello che noi stimiamo o sappiamo.
Il che è penoso anche quando la cosa non ci riguardi in nessun modo personalmente, nè anche c'interessi.
Ma soprattutto s'ella ci riguarda o interessa, è veramente opera da uomo riflessivo lo schivare questi tali discorsi in presenza p.e.
di domestici che non vi potrebbero metter bocca, o di altri inferiori, i quali sentendo toccare il tasto che è loro a cuore, senza potervi avere nessuna parte attiva, ne proverebbero molta pena, attaccandosi come farebbero intieramente e con grande studio alla passiva di ascoltare, non ostante l'inquietudine che sfuggirebbero rinunziando anche a questa parte, il che però non ci è possibile.
Si suol dire che per ottenere qualche grazia è opportuno il tempo dell'allegrezza di colui che si prega.
E quando questa grazia si possa far sul momento, o non costi impegno ed opera al supplicato, convengo anch'io in questa opinione.
Ma per interessar chicchessia in vostro favore, ed impegnarlo a prendersi qualche benchè piccola premura di un vostro affare, non c'è tempo più assolutamente inopportuno di quello della gioia viva.
Ogni volta che l'uomo è occupato da qualche passion forte, è incapace di pensare ad altro, ogni volta che o la sua propria infelicità o la sua propria fortuna l'interessano vivamente, e lo riempiono, è incapace di pigliar premura de' negozi delle infelicità dei desiderii altrui.
Nei [98]momenti di gioia viva o di dolor vivo l'uomo non è suscettibile nè di compassione, nè d'interesse per gli altri, nel dolore perchè il suo male l'occupa più dell'altrui, nella gioia perchè il suo bene l'inebbria, e gli leva il gusto e la forza di occuparsi in verun altro pensiero.
E massimamente la compassione è incompatibile col suo stato quando egli o è tutto pieno della pietà di se stesso, o prova un'esaltazione di contento che gli dipinge a festa tutti gli oggetti e gli fa considerar la sventura come un'illusione, per lo meno odiarla come cosa alienissima da quello che lo anima e lo riempie tutto in quel punto.
Solamente gli stati di mezzo, sono opportuni all'interesse per le cose altrui, o anche un certo stato di entusiasmo senza origine e senza scopo reale, che gli faccia abbracciar con piacere l'occasione di operare dirittamente, di beneficare, di sostituir l'azione all'inazione, di dare un corpo ai suoi sentimenti, e di rivolgere alla realtà quell'impeto di entusiasmo virtuoso, magnanimo generoso ec.
che si aggirava intorno all'astratto e all'indefinito.
Ma quando il nostro animo è già occupato dalla realtà, ossia da quell'apparenza che noi riguardiamo come realtà, il rivolgerlo ad un altro scopo, è impresa difficilissima e quello è il tempo più inopportuno di sollecitar l'interesse altrui per la vostra causa, quand'esso è già tutto per la propria, e lo staccarnelo riuscirebbe penosissimo al supplicato.
Molto più se la gioia sia di quelle rare che occorrono nella vita pochissime volte, e che ci pongono quasi in uno stato di pazzia, sarebbe da stolto il farsi allora avanti a quel tale, ed esponendogli con qualsivoglia eloquenza i propri bisogni e le proprie miserie, sperare di distorlo dal pensiero ch'è padrone dell'animo suo, e che gli è sì caro, e quel ch'è più, condurlo ad operare o a risolvere efficacemente d'operare per un fine alieno da quel pensiero, al quale egli è così intento anche in udirvi, che appena vi ascolta, e se vi ascolta, cerca di abbreviare il discorso, di ridur tutto in compendio, (per poi dimenticarlo affatto) ed ogni suo desiderio è rivolto al momento in cui avrete finito, e lo lascerete pascere di quel pensiero che lo signoreggia, ed anche parlarvene, e rivolgere immediatamente la [99]conversazione sopra quel soggetto.
Udrai dire sovente che per esser compatito o per interessare, giova indirizzarsi a chi abbia provato le stesse sventure, o sia stato nella stessa tua condizione.
Se intendono del passato, andrà bene.
Ma non c'è uomo da cui tu possa sperar meno che da chi si ritrova presentemente nella stessa calamità o nelle stesse circostanze tue.
L'interesse ch'egli prova per se, soffoca tutto quello che potrebbe ispirargli il caso tuo.
Ad ogni circostanza, ad ogni minuzia del tuo racconto, egli si rivolge sopra di se, e le considera applicandole alla sua persona.
Lo vedrai commosso, crederai che senta pietà di te, ma la sente di se stesso unicamente.
T'interromperà ad ogni tratto con dirti: appunto ancor io: oh per l'appunto se sapessi quello ch'io provo: questo è propriamente il caso mio.
Fa al proposito l'esempio d'Achille piangente i suoi mali mentre ha Priamo a' suoi ginocchi.
Si proverà anche d'estenuare la tua miseria, il tuo bisogno, la ragionevolezza de' tuoi desideri, per ingrandire quello che lo riguarda: Va bene, ma abbi pazienza, tu hai pure questo tal conforto: io all'opposto, e così discorrendo.
In somma sarà sempre impossibile di rivolger l'interesse vivo e presente che uno ha per se, sopra i negozi altrui, (parlo anche, serbata una certa proporzione, degli uomini di cuore e d'entusiasmo) e quando l'uomo è occupato intieramente del suo dolore, (o anche della sua gioia e di qualunque passion viva) indurlo ad interessarsi per quello d'un altro, massimamente se sia della stessa specie.
Sarà sempre impossibile attaccar l'egoismo così di fronte, quando anche da lato è così difficile a spetrare.
E soprattutto trattandosi di azione non isperar mai nulla da un giovane che come te si trovi disgustato della vita domestica, e come te senta il bisogno di proccurarsi i mezzi di troncarla, da un militare disgraziato come te, o che corra collo stesso impegno e colla stessa vivezza di desiderio agli onori, da un malato che sia tutto occupato ed afflitto da una malattia simile alla tua ec.
ec.
Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v'è altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusioni.
[100]È cosa osservata degli antichi poeti ed artefici, massimamente greci, che solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore più di quello ch'esprimessero.
(V.
p.86-87.
di questi pensieri) E quanto alla cagione di ciò, non è altra che la loro semplicità e naturalezza, per cui non andavano come i moderni dietro alle minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello scrittore, che non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta, ma va sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la descrizione per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre il proposito, distrugge la naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l'arte e l'affettazione, ed introduce nella poesia a parlare più il poeta che la cosa.
Del che v.
il mio discorso sopra i romantici, e vari di questi pensieri.
Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni, giacchè gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano portati se non dalla causa che ho detto, è notabilissimo quello del rendere l'impressione della poesia o dell'arte bella, infinita, laddove quella de' moderni è finita.
Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti dell'oggetto, lasciavano l'immaginazione errare nel vago e indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall'ignoranza dell'intiero.
Ed una scena campestre p.e.
dipinta dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d'idee confuse, e brillanti di un indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza e maraviglia, che ci solea rendere estatici nella nostra fanciullezza.
Dove che i moderni, determinando ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta, che nasce dalla cognizione dell'oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante, ma è propria dell'età matura, che è priva di quegl'inesprimibili diletti della vaga immaginazione provati nella fanciullezza.
(8.
Gen.
1820.)
[101]La cagione per cui gli uomini di gusto e di sentimento provano una sensazione dolorosa nel leggere p.e.
le continuazioni o le imitazioni dove si contraffanno le bellezze gli stili ec.
delle opere classiche, (v.
quello che dice il Foscolo della continuazione del Viaggio di Sterne) è che queste in certo modo avviliscono presso noi stessi l'idea di quelle opere, per cui ci eravamo sentiti così affettuosi, e verso cui proviamo una specie di tenerezza.
Il vederle così imitate e spesso con poca diversità, e tuttavia in modo ridicolo, ci fa quasi dubitare della ragionevolezza della nostra ammirazione per quei grandi originali, ce la fa quasi parere un'illusione, ci dipinge come facili triviali e comuni quelle doti che ci aveano destato tanto entusiasmo, cosa acerbissima di vedersi quasi in procinto di dover rinunziare all'idolo della nostra fantasia, e rapire in certo modo, e denudare, e avvilire agli occhi nostri l'oggetto del nostro amore e della nostra venerazione ed ammirazione.
Perchè in ogni sentimen
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