[Pagina precedente]... faccia ribrezzo, così se tu hai corso un pericolo che ti spaventi, ti si stringe il cuore in pensarci, non hai forza di fermarti in quel pensiero di quel momento di quel caso di quella vicinanza della morte ec. ma neanche hai forza di cacciarlo, anzi bisogna pur che tra il volere e il non volere ci lasci andare un'occhiata. Similmente se ti si affaccia qualche pensiero che ti addolori, la ricordanza di qualche cosa che ti faccia vergognare teco stesso ec. La ragione di questo effetto non è certo quell'inebbriamento che dice la Staël, e nemmeno la curiosità come può vedere chiunque ci faccia un poco di considerazione. Piuttosto direi che quell'ignoto ci fa più pena che il noto, e siccome quell'oggetto ci spaventa o ci abbrividisce o ci attrista, non sappiamo lasciarlo stare così intatto, e anche con ribrezzo, abbiamo pure una certa voglia di dargli una tal quale squadrata che ce lo faccia conoscere alquanto. Forse anche, e così credo, proviene dall'amore dello straordinario, e odio naturale della monotonia e della noia ch'è ingenito in tutti gli uomini, e offrendosi un oggetto che rompe questa monotonia, ed esce dell'ordine comune, quantunque ci paia [90]più grave assai della noia, di cui forse anche, in quel punto non ci accorgiamo e non abbiamo nessun pensiero, pur troviamo un certo piacere in quella scossa in quell'agitazione, che ci produce la vista fuggitiva di esso oggetto. La quale spiegazione si ravvicina a quella della Staël, giacchè la noia non è altro che il vuoto dell'anima, ch'è riempito, come ella dice da quel pensiero, e occupato intieramente per quel punto. E in fine può anche derivare, e penso che almeno in parte derivi dallo stesso timore che abbiamo di quel pensiero, per la ragione che in tutte le cose fisiche e morali, il voler troppo intensamente e il timore di non conseguire, distorna le nostre azioni dal loro fine, e il mettersi ad un'operazione di mano p.e. chirurgica con troppa intenzion d'animo e timore di non riuscire, la manda a male, e nelle lettere, o belle arti, il cercar la semplicità con troppa cura, e paura di non trovarla, la fa perdere ec.
L'orrore e il timore della fatalità e del destino si prova più (anche oggidì che la superstizione è quasi bandita dal mondo) nelle anime forti e grandi, che nelle mediocri per cagione che i desideri e i fini di quelle sono fissi, e ch'elle li seguono con ardore, con costanza, e risoluzione invariabile. Così era più ordinariamente presso gli antichi, appo i quali la fermezza e la costanza e la forza e la magnanimità erano virtù molto più ordinarie che fra i moderni. E vedendo essi che spesse volte anzi frequentissimamente i casi della vita si oppongono ai desideri dell'uomo, erano compresi da terrore per la ragione della loro immobilità nel desiderare o nel diriggere le loro azioni a quel tale scopo che forse e probabilmente non avrebbero [91]potuto conseguire. Infatti nella infinita varietà dei casi è molto più improbabile che segua precisamente quello a cui tu miri invariabilmente, che gl'infiniti altri possibili. Ora accadendone piuttosto un altro non è effetto di destino fisso che ti perseguiti, ma di cieco accidente. Essi tuttavia com'è naturale come per un'illusione ottica o meccanica confondevano (e gli animi forti ed ardenti tuttora confondono) l'immobilità loro propria con quella degli avvenimenti, e perchè non erano spiriti da secondarli e adattarvisi, immaginavano che l'immobilità stesse non in se ma nei medesimi avvenimenti già stabiliti dal destino. Laddove gli spiriti mediocri, senza fermezza nè certezza di mire, nella moltiplicità dei loro fini, e si abbattono più facilmente a uno o più di quelli che desiderano, e anche nel caso opposto cedono senza difficoltà all'andamento delle cose, e da questo si lasciano trasportare, piegare, regolare, andando a seconda degli avvenimenti. Così essi non avendo immobilità in loro, nè vedendo la somma difficoltà di concordare i loro disegni cogli avvenimenti hanno l'intelletto più libero, e non pensano che la fortuna opponga loro un'opposizione forte e stabile, (la qual forza e stabilità non è veramente se non nella resistenza che le anime grandi oppongono agl'instabilissimi e casuali avvenimenti) ma considerano tutto come effetto del caso, e delle combinazioni, siccom'è infatti. Aggiungi l'invariabilità non solo dei fini, ma anche dei mezzi nei primi, (cioè ne' magnanimi) che non permette loro di cambiar principii, nè di regolare le loro azioni a norma degli avvenimenti, ma li conserva sempre costanti nel loro proposito e nel modo di seguitarlo, mentre il contrario accade nei secondi. E anche senza nessun proposito nè scopo, si vedrà che la sola fermezza e immutabilità del carattere, fa illusione sulla forza del destino ch'essendo [92]così vario pare immutabile a quelli che non vedono se non una sola via, una sola maniera di contenersi di pensare e operare, una sola sorta di avvenimenti, e come questi dovrebbero o pare a loro che dovrebbero accadere. E questo timore del destino si trova in conseguenza più o meno anche negli spiriti mediocri, o puramente ragionevoli e filosofici ec. quando provano qualche desiderio o mirano a qualche fine in modo che divengano immobili intorno a quel punto. V. Staël Corinne l.13. c.4. p.306. t.2. edizione citata poco sopra. L'illusione che ho detto si può in qualche modo paragonare a quella che noi proviamo credendo la terra immobile perchè noi siam fermi su di lei, quantunque ella giri e voli rapidissimamente. E già si sa che anche nei magnanimi ella è più viva e presente secondo che essi si trovano in circostanze di desideri e mire più vive, determinate e focose forti ferme ec. nelle grandi passioni ec.
La società francese la quale fa che l'esprit naturel se tourne en épigrammes plutôt qu'en poésie, dice la Staël, (vedila, Corinne, liv.15. chap.9. p.80. t.3. edizione citata da me alla p.87.) rende ancora epigrammatica tutta la loro scrittura, ed abituati come sono a dare a tutti i loro detti nella conversazione, une tournure che li renda gradevoli, un'aria di novità , una grazia ascitizia, un garbo proccurato ec. ponendosi a scrivere, e stimando naturalmente che la scrittura non li disobblighi da quello a cui gli obbliga la raffinatezza della conversazione, (naturale nel paese dove lo spirito di società è così grande, anzi è l'anima e lo scopo e il tutto della vita) e per lo contrario credendo che quest'obbligo sia maggiore nello scrivere che nel parlare (e con ragione avuto riguardo al gusto de' lettori nazionali che altrimenti li disprezzerebbero) si abbandonano a quello stesso studio che adoprano nella conversazione per renderla aggradevole e piccante ec. e però il loro stile è così diverso da [93]quello de' greci e de' latini e degl'italiani, non essendo possibile ch'essi accettino quella prima frase che si presenta naturalmente e da se a chi vuole esprimere un sentimento. E però le grazie naturali sono affatto sbandite dal loro stile, anzi è curioso il vedere quello ch'essi chiamino naturalezza e semplicità , come p.e. in La Fontaine tanto decantato per queste doti. In luogo delle grazie naturali il loro stile è tutto composto delle grazie di società e di conversazione, e quando queste sono conseguite essi chiamano il loro stile, semplice, come fanno sempre anche in astratto quando paragonano lo stil francese all'italiano p.e. o al latino ec. parte avuto riguardo alla collocazione materiale delle parole e alla costruzione del periodo, e divisione del discorso ec. paragonata con quella delle altre lingue, parte alla mancanza delle ampollosità delle gonfiezze, delle figure troppo evidenti, dei giri e rigiri per dire una stessa cosa ec. ec. che si trovano nei cattivi stili delle altre lingue, e che nel francese sono affatto straordinari e sarebbero fischiati. E questa chiamano purezza di gusto, ed hanno ragione da un lato, ma dall'altro non conoscono quella semplicità così intrinseca come estrinseca dello stile che non ha niente di comune coll'eleganza la politezza la tournure la raffinatezza il limato il ricercato della conversazione, ma sta tutta nella natura, nella pura espressione de' sentimenti che è presentata dalla cosa stessa, e che riceve novità e grazia piuttosto dalla cosa, se ne ha, che da se medesima e dal lavoro dello scrittore, quella schiettezza di frase le cui grazie sono ingenite e non ascitizie, quel modo di parlare che non viene dall'abitudine della conversazione e che par naturale solamente a chi vi è accostumato (cioè ai francesi e agli altri nutriti sempre di cose francesi) ma dalla natura universale, e dalla stessa materia, quello insomma ch'era [94]proprio dei greci, e con una certa proporzione, de' latini, e degl'italiani, di Senofonte di Erodoto de' trecentisti ec. i quali sono intraducibili nella lingua francese. Cosa strana che una lingua di cui essi sempre vantano la semplicità non abbia mezzi per tradurre autori semplicissimi, e di uno stile il più naturale, libero, inaffettato, disinvolto, piano, facile che si possa immaginare. E pur la cosa è rigorosamente vera, e basta osservar le traduzioni francesi da classici antichi per veder come stentino a ridurre nel loro stile di società e di conversazione ch'essi chiamano semplice (e ch'è divenuto inseparabile dalla loro lingua anzi si è quasi confuso con lei) quei prototipi di manifesta e incontrastabile semplicità ; e come esse sieno lontane dal conservare in nessun modo il carattere dello stile originale. Qui comprendo anche le Georgiche di Delille intese da orecchie non francesi, e quella generale osservazione fatta anche dalla Staël nella Biblioteca Italiana che le traduzioni francesi da qualunque lingua hanno sempre un carattere nazionale e diverso dallo stile originale e anche dalle parti più essenziali di esso, e anche da' sentimenti. E basta anche notare come le traduzioni e lo stile d'Amyot veramente semplicissimo (e non però suo proprio ma similissimo a quello de' suoi originali, e tra le lingue moderne, all'italiano) si allontanino dall'indole della presente lingua francese, non solo quanto alle parole e ai modi antiquati, ma principalmente nelle forme sostanziali, e nell'insieme dello stile, che ora di francese non può avere altro che il nome, e che sarebbe chiamato barbaro in un moderno, levato anche ogni vestigio d'arcaismo. E scommetto ch'egli riesce più facile a intendere agl'italiani, che ai francesi non dotti, massime nelle lingue classiche.
Il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza di pensare seco stesso, perchè noi [95]pensiamo parlando. Ora nessuna lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl'infiniti particolari del pensiero. Il posseder più lingue e il potere perciò esprimere in una quello che non si può in un'altra, o almeno così acconciamente, o brevemente, o che non ci viene così tosto trovato da esprimere in un'altra lingua, ci dà una maggior facilità di spiegarci seco noi e d'intenderci noi medesimi, applicando la parola all'idea che senza questa applicazione rimarrebbe molto confusa nella nostra mente. Trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne sappiamo il significato chiaro e già noto per l'uso altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane ben definita e fissa nella mente, e ben determinata e circoscritta. Cosa ch'io ho provato molte volte, e si vede in questi stessi pensieri scritti a penna corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche francesi latine, secondo che mi rispondevano più precisamente alla cosa, e mi venivano più presto trovate. Perchè un'idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che l'abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.
Spesse volte il caso ha renduto espressivissima una parola che parrebbe perciò originale e derivata dalla cosa, mentre non è che una pura figlia d'etimologia. P.e. nausea quella parola sì espressiva presso i latini e gl...
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