[Pagina precedente]...'italiani (v. questi pensieri p.12.) deriva dal greco ???? nave, onde ??????, ionicamente ??????, e in latino nausea perch'ella suole accadere ai naviganti.
Bisognerebbe vedere se quell'oracolo della porca bianca da trovarsi da Enea all'imboccatura del Tevere per buono ed ultimo augurio secondo Virgilio, avesse qualche altro significato ed origine nota e verisimile, non fattizia e arbitraria, perchè non avendone, io suppongo che derivi dal nome di troia che noi diamo alle [96]porche, e che a cagione di questo oracolo mi par ben da sospettare che fosse anche voce antica e popolare latina nello stesso significato, e così la porca venisse popolarmente considerata come un emblema di Troia, nella stessa guisa che presentemente parecchie città e famiglie hanno per insegna quell'animale o quell'oggetto materiale ch'è chiamato con un nome simile al loro. V. la Cron. d'Euseb. l.1. c.46. e nota che quel racconto benchè da scrittor greco è preso anche quivi e attribuito intieramente a un latino. V. p.511. capoverso 1.
In proposito di quello che ho detto p.76. e segg. In questi pensieri si può osservare che quando noi per qualche circostanza ci troviamo in istato di straordinario e passeggero vigore, come avendo fatto uso di liquori che esaltino le forze del corpo senza però turbar la ragione, ci sentiamo proclivissimi all'entusiasmo, nè però questo entusiasmo ha nulla di malinconico, ma è tutto sublime nel lieto, anzi le idee dolorose, ed una soave mestizia e la pietà non trova luogo allora nel cuor nostro o almeno non son questi i sentimenti ch'ei preferisce, ma il vigore che proviamo dà un risalto straordinario alle nostre idee, ed abbellisce e sublima ogni oggetto agli occhi nostri, e quello è il tempo di sentir gli stimoli della gloria, dell'amor patrio, dei sacrifizi generosi (ma considerati come bene non come sventura) e delle altre passioni antiche. Quindi possiamo congetturare quale dovesse essere ordinariamente l'entusiasmo degli antichi che si trovavano incontrastabilmente in uno stato di vigor fisico abituale, superiore al nostro ordinario; il quale quanto noceva e nuoce alla ragione, tanto favorisce l'immaginazione, e i sentimenti focosi gagliardi ed alti. Colla differenza che noi avvezzi nel corso della nostra vita a compiacerci, al contrario degli antichi, nelle idee dolorose, anche in quel vigore, sentendoci delle spinte al sentimento, ci potremo compiacere molto più facilmente che non faceano gli antichi di qualcuna di queste tali idee, quantunque non cercata allora di preferenza. Ma osservo che in quei momenti anche le idee malinconiche ci si presentano come un aria di festa che la felicità non ci pare un'illusione, [97]anzi ancora le dette idee ci si offrono come conducenti alla felicità , e la sventura come un bene sublime che ci fa palpitar e d'entusiasmo e di speranza, e sentiamo una gran confidenza in noi stessi e nella fortuna e nella natura, quando anche ella non sia nel nostro carattere, o nell'abitudine contratta colla sperienza della vita.
Una delle cose più dispiacevoli, è il sentir parlare di un soggetto che c'interessi, senza potervi interloquire. E molto più se ne parlano a sproposito, o ignorando una circostanza un fatto ec. che noi potremmo narrar loro, o in contraddizione coi nostri sentimenti, in maniera che vengano a concludere il contrario di quello che noi stimiamo o sappiamo. Il che è penoso anche quando la cosa non ci riguardi in nessun modo personalmente, nè anche c'interessi. Ma soprattutto s'ella ci riguarda o interessa, è veramente opera da uomo riflessivo lo schivare questi tali discorsi in presenza p.e. di domestici che non vi potrebbero metter bocca, o di altri inferiori, i quali sentendo toccare il tasto che è loro a cuore, senza potervi avere nessuna parte attiva, ne proverebbero molta pena, attaccandosi come farebbero intieramente e con grande studio alla passiva di ascoltare, non ostante l'inquietudine che sfuggirebbero rinunziando anche a questa parte, il che però non ci è possibile.
Si suol dire che per ottenere qualche grazia è opportuno il tempo dell'allegrezza di colui che si prega. E quando questa grazia si possa far sul momento, o non costi impegno ed opera al supplicato, convengo anch'io in questa opinione. Ma per interessar chicchessia in vostro favore, ed impegnarlo a prendersi qualche benchè piccola premura di un vostro affare, non c'è tempo più assolutamente inopportuno di quello della gioia viva. Ogni volta che l'uomo è occupato da qualche passion forte, è incapace di pensare ad altro, ogni volta che o la sua propria infelicità o la sua propria fortuna l'interessano vivamente, e lo riempiono, è incapace di pigliar premura de' negozi delle infelicità dei desiderii altrui. Nei [98]momenti di gioia viva o di dolor vivo l'uomo non è suscettibile nè di compassione, nè d'interesse per gli altri, nel dolore perchè il suo male l'occupa più dell'altrui, nella gioia perchè il suo bene l'inebbria, e gli leva il gusto e la forza di occuparsi in verun altro pensiero. E massimamente la compassione è incompatibile col suo stato quando egli o è tutto pieno della pietà di se stesso, o prova un'esaltazione di contento che gli dipinge a festa tutti gli oggetti e gli fa considerar la sventura come un'illusione, per lo meno odiarla come cosa alienissima da quello che lo anima e lo riempie tutto in quel punto. Solamente gli stati di mezzo, sono opportuni all'interesse per le cose altrui, o anche un certo stato di entusiasmo senza origine e senza scopo reale, che gli faccia abbracciar con piacere l'occasione di operare dirittamente, di beneficare, di sostituir l'azione all'inazione, di dare un corpo ai suoi sentimenti, e di rivolgere alla realtà quell'impeto di entusiasmo virtuoso, magnanimo generoso ec. che si aggirava intorno all'astratto e all'indefinito. Ma quando il nostro animo è già occupato dalla realtà , ossia da quell'apparenza che noi riguardiamo come realtà , il rivolgerlo ad un altro scopo, è impresa difficilissima e quello è il tempo più inopportuno di sollecitar l'interesse altrui per la vostra causa, quand'esso è già tutto per la propria, e lo staccarnelo riuscirebbe penosissimo al supplicato. Molto più se la gioia sia di quelle rare che occorrono nella vita pochissime volte, e che ci pongono quasi in uno stato di pazzia, sarebbe da stolto il farsi allora avanti a quel tale, ed esponendogli con qualsivoglia eloquenza i propri bisogni e le proprie miserie, sperare di distorlo dal pensiero ch'è padrone dell'animo suo, e che gli è sì caro, e quel ch'è più, condurlo ad operare o a risolvere efficacemente d'operare per un fine alieno da quel pensiero, al quale egli è così intento anche in udirvi, che appena vi ascolta, e se vi ascolta, cerca di abbreviare il discorso, di ridur tutto in compendio, (per poi dimenticarlo affatto) ed ogni suo desiderio è rivolto al momento in cui avrete finito, e lo lascerete pascere di quel pensiero che lo signoreggia, ed anche parlarvene, e rivolgere immediatamente la [99]conversazione sopra quel soggetto.
Udrai dire sovente che per esser compatito o per interessare, giova indirizzarsi a chi abbia provato le stesse sventure, o sia stato nella stessa tua condizione. Se intendono del passato, andrà bene. Ma non c'è uomo da cui tu possa sperar meno che da chi si ritrova presentemente nella stessa calamità o nelle stesse circostanze tue. L'interesse ch'egli prova per se, soffoca tutto quello che potrebbe ispirargli il caso tuo. Ad ogni circostanza, ad ogni minuzia del tuo racconto, egli si rivolge sopra di se, e le considera applicandole alla sua persona. Lo vedrai commosso, crederai che senta pietà di te, ma la sente di se stesso unicamente. T'interromperà ad ogni tratto con dirti: appunto ancor io: oh per l'appunto se sapessi quello ch'io provo: questo è propriamente il caso mio. Fa al proposito l'esempio d'Achille piangente i suoi mali mentre ha Priamo a' suoi ginocchi. Si proverà anche d'estenuare la tua miseria, il tuo bisogno, la ragionevolezza de' tuoi desideri, per ingrandire quello che lo riguarda: Va bene, ma abbi pazienza, tu hai pure questo tal conforto: io all'opposto, e così discorrendo. In somma sarà sempre impossibile di rivolger l'interesse vivo e presente che uno ha per se, sopra i negozi altrui, (parlo anche, serbata una certa proporzione, degli uomini di cuore e d'entusiasmo) e quando l'uomo è occupato intieramente del suo dolore, (o anche della sua gioia e di qualunque passion viva) indurlo ad interessarsi per quello d'un altro, massimamente se sia della stessa specie. Sarà sempre impossibile attaccar l'egoismo così di fronte, quando anche da lato è così difficile a spetrare. E soprattutto trattandosi di azione non isperar mai nulla da un giovane che come te si trovi disgustato della vita domestica, e come te senta il bisogno di proccurarsi i mezzi di troncarla, da un militare disgraziato come te, o che corra collo stesso impegno e colla stessa vivezza di desiderio agli onori, da un malato che sia tutto occupato ed afflitto da una malattia simile alla tua ec. ec.
Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v'è altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusioni.
[100]È cosa osservata degli antichi poeti ed artefici, massimamente greci, che solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore più di quello ch'esprimessero. (V. p.86-87. di questi pensieri) E quanto alla cagione di ciò, non è altra che la loro semplicità e naturalezza, per cui non andavano come i moderni dietro alle minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello scrittore, che non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta, ma va sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la descrizione per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre il proposito, distrugge la naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l'arte e l'affettazione, ed introduce nella poesia a parlare più il poeta che la cosa. Del che v. il mio discorso sopra i romantici, e vari di questi pensieri. Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni, giacchè gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano portati se non dalla causa che ho detto, è notabilissimo quello del rendere l'impressione della poesia o dell'arte bella, infinita, laddove quella de' moderni è finita. Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti dell'oggetto, lasciavano l'immaginazione errare nel vago e indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall'ignoranza dell'intiero. Ed una scena campestre p.e. dipinta dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d'idee confuse, e brillanti di un indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza e maraviglia, che ci solea rendere estatici nella nostra fanciullezza. Dove che i moderni, determinando ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta, che nasce dalla cognizione dell'oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante, ma è propria dell'età matura, che è priva di quegl'inesprimibili diletti della vaga immaginazione provati nella fanciullezza.
(8. Gen. 1820.)
[101]La cagione per cui gli uomini di gusto e di sentimento provano una sensazione dolorosa nel leggere p.e. le continuazioni o le imitazioni dove si contraffanno le bellezze gli stili ec. delle opere classiche, (v. quello che dice il Foscolo della continuazione del Viaggio di Sterne) è che queste in certo modo avviliscono presso noi stessi l'idea di quelle opere, per cui ci eravamo sentiti così affettuosi, e verso cui proviamo una specie di tenerezza. Il vederle così imitate e spesso con poca diversità , e tuttavia in modo ridicolo, ci fa quasi dubitare della ragionevolezza della nostra ammirazione per quei grandi originali, ce la fa quasi parere un'illusione, ci dipinge come facili tri...
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