[Pagina precedente]...fu utile. Venne tutta gentile, aggraziata di modi e di parlare, spigliata e maliziosetta. Io la guardavo con gli occhi rotondi e fissi, e non sapevo staccarmi da lei; e lei mi prendeva in grembo e mi dava baci, e mi faceva girare come una pallottola. Anche mamma faceva bocca da ridere a vederla ballare tanto carina. Quando toccò a me di andare in Napoli, voleva menarla meco; mamma non volle, e io piansi assai. Nelle mie lettere al babbo c'era sempre una riga per Genoviefa. Quando narravo tra molti vanti le mie vittorie scolastiche, dicevo spesso: lo saprà Genoviefa e le farà piacere. La sua immagine riempiva la fantasia, e si mescolava con la mia vita quotidiana. Ero giunto verso la fine del quinto anno di studio. Avevo sempre tra mano le Notti di Young, che mi facevano piangere, stupire, ammutire secondo la materia, mi percotevano e mi commovevano. Quando Young lamentava la morte della figlia, che si chiamava Virginia, io lacrimava con lui. Non so come, pensando a Virginia, mi veniva innanzi Genoviefa: cosà bella me la dipingevo e cosà cara cosa.
Un dà verso sera accompagnavo all'uscio un paesano che andava via, e mi fermai un poco a chiacchierare con lui. "Sai, - dicevo; - tu m'hai da fare tanti cari saluti a Genoviefa". "Ca quella è morta", disse lui sbalordito e facendo gli occhi grandi. Io rimasi stupido. Era proprio cosÃ. Genoviefa era morta, ch'era quasi un anno, e non mi fu detto nulla. Morta nel fiore della età , con tante allegre idee in testa! Facevo allora versi e prose, ma ero ancora piccino, e non avevo un cervello mio, e ricevevo le impressioni da libri. Sazio di lacrime e di singulti, mi venne innanzi Virginia, e scrissi una lettera al babbo sulla morte di Genoviefa, ch'era una epistola tutta intarsiata di frasi e di parole a imprestito; Virginia c'entrava per tre quarti. Il lavoro parve maraviglioso; il babbo andava leggendo l'epistola a tutto il paese; zio mi abbracciò e mi chiamò penna d'oro; i compagni mi facevano festa, e tra le lacrime mi usci il riso negli occhi. Fu quello un gran trionfo per la mia vanità .
Queste prime apparizioni femminili, questi angeletti che, appena libata la vita, tornano in cielo ridenti e festanti, abbondano nelle immaginazioni umane. Genoviefa fu la mia prima donna, veduta di lontano attraverso i libri, attraverso Virginia. Questa piccola e cara morta mi veniva sempre in mente, quando mi si affacciava qualche nuova fanciulla poetica. Vidi e capii Beatrice attraverso Genoviefa, e fino piú tardi la Graziella di Lamartine.
Capitolo quinto
L'ABATE FAZZINI
"E dopo, che farem noi?"
Questo motto di Cinea fu il tema d'una chiacchierata sul nostro destino, quando stavamo per terminare gli studi letterari. Alla mia fervida immaginazione Cinea pareva un canonico, e Pirro era il grand'uomo. Io sognava quasi ogni giorno d'essere un imperatore. Quando mi vedevano a testa bassa e a bocca muta, mi davano un pizzicotto, e mi dicevano: "Che pensi?".
La famiglia s'era ingrandita. Morto era Francesco primo, di cui non rammento nulla. Ferdinando II, il nuovo re, richiamò gli esuli. Tornarono i miei compaesani, e videro zio Carlo, e molte furono le tenerezze. Poi, zitto zitto presero la via del paese, fatti savii da quel duro esilio di otto anni. Solo rimase in casa zio Pietro, che ci menò anche gli altri due suoi figli, Aniello e Felicella, morta la madre. Cosà tutto questo ramo di famiglia era in Napoli; rimaneva in paese il babbo con la sua famiglia, al quale si aggiunse zio Giuseppe venuto di Roma. Aniello si teneva un po' piú alto di noi, perché era stato a Roma, e molto si vantava e diceva che lui piú piccino sarebbe stato a guadagnar quattrini prima di noi. Giovanni era il diplomatico. Un po' bassotto, aveva l'aspetto dolce e grave, parlava piano, sobrio nel gesto. Io era furia francese, come mi chiamava zio. Quando io ne sballava una grossa,"E viva la furia francese!" diceva lui. Parlavo divorando le sillabe, con una furia che mi faceva balbutire. Quando mi vedeva balbuziente, zio che voleva fare di me un avvocato, mi ricordava gli esercizio di Demostene, e mi diceva: "Sassolini in bocca!" E io fermava la corsa, ed ero cosà brutto con quelle labbra bavose. Tutti mi canzonavano, tutti ridevano di me; ma io che mi tenevo un grand'uomo, faceva una scrollatina di spalle. Quella mia indifferenza innanzi alle beffe pareva umiltà , ed era superbia. La mia testa vagabonda, nella quale danzava l'avvenire nelle sue forme piú luccicanti, pregiava piú quella sconfinata ambizione di Pirro che quella savia temperanza di Cinea. "Che farem noi?" "Compiremo gli studi, e poi eserciteremo la professione", diceva col tono piú naturale Giovannino. "E faremo quattrini", mormorava Aniello. "Bella conclusione! - rifletteva io, - e la gloria? Dove è la gloria?" Non sapevo cosà per l'appunto cos'era la gloria; ma quella parola rispondeva a tutti i miei sogni, a tutti i miei fantasmi.
Fu risoluto che il da fare per allora era fortificare gli studi letterarii e cominciare gli studi di filosofia. Zio ci volle mandare presso i Gesuiti, a fine di dare l'ultima mano al nostro greco e al nostro latino. Andammo, e quella scena non mi è uscita piú di memoria. Entrammo in una stanzetta polverosa, con scansie a muro piene di vecchi libri, con una luce quasi fioca che ci veniva dall'andito. A sinistra verso il balcone era un tavolino che chiamano scrivania, con certi ritieni di legno a dritta e a sinistra, e in mezzo era una grossa calamariera di bronzo. Sul seggiolone sedeva uno di quei padri, con volto pallido, con cera malinconica, con occhio dolce, e aveva accanto in piedi un giovane padre, sottile e magro, che aveva qualche malizia nell'occhio, e ci guardava per di sotto. Noi dalla parte opposta stavamo in piedi, e avevamo un tremore non so se di freddo o di paura, forse l'uno l'altro. Avevo gli occhi sbarrati verso i padri, ma scalza malizia, anzi senza sguardo, con un'aria tra il presuntuoso e lo stupido. Giovannino stava raccolto e placido. Il giovane frate ci faceva le interrogazioni; il vecchio prendeva note come un cancelliere; talora si sogguardavano. A me quel prendere nota dava sui nervi; e un certo risolino loro mi spiaceva. Ci fecero leggere, tradurre; poi vollero una versione d'italiano in latino. Là ci cascò l'asino. Non fu possibile uscirne a bene con quel metodo meccanico dello zio. Dovemmo fare parecchi errori grossi, e quelli si fermavano leggendo, con quel tal piccolo riso, che voleva dire: "Come s'insegna male il latino!". E ci fecero capire che non che essere ammessi nelle scuole superiori, potevamo appena entrare nelle elementari. Uscimmo con gli occhi a terra. La mia superbia era fiaccata. Cosà non si parlò piú di Gesuiti, e me ne rimase questa impressione.
Zio ci menò presso l'abate Fazzini. Bel palazzo e bella casa. L'abate ci ricevette nella stanza da scuola, e ci fece molte carezze e ci dié de' confetti. Era un bell'ometto, vestito di nero, con cravatta nera, tutto bene spolverato. Parlava spedito, e accompagnava la parola col sorriso e col gesto elegante. Non c'era ancora il laico, ma non c'era piú il prete.
La scuola dell'abate Lorenzo Fazzini era quello che oggi direbbesi un liceo. Vi s'insegnava filosofia, fisica e matematica. Il corso durava tre anni, e si poteva anche fare in due. Quell'era l'età dell'oro del libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina cominciava la sua carriera aprendo una scuola. I seminarii erano scuole di latino e di filosofia. Le scuole del governo erano affidate a frati. La forma dell'insegnamento era ancora scolastica. Rettorica e filosofia erano scritte in quel latino convenzionale ch'era proprio degli scolastici. Le scienze vi erano trascurate, e anche la lingua nazionale. Nondimeno un po' di secolo decimottavo era pur penetrato tra quelle tenebre teologiche, e con curioso innesto, vedevi andare a braccetto il sensismo e lo scolasticismo.
Nelle scuole di Napoli c'era maggior progresso negli studi. Il latino passava di moda; si scriveva di cose scolastiche in un italiano scorretto, ma chiaro e facile. Gli autori erano quasi tutti abati, come l'abate Genovesi, il padre Soave, l'abate Troisi. Allora era in molta voga l'abate Fazzini. Questo prete elegante che aveva smesso sottana e collare, e vestiva in abito e cravatta nera, era un sensista del secolo passato, ma pretendeva conciliare quelle dottrine coi principii religiosi. Molto si dimenava contro le idee innate e le armonie prestabilite, e conchiudeva spesso: "Niente è nell'intelletto che non sia stato nei sensi". Ma insieme si affaticava molto a dimostrare l'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima e la rivelazione. Come si conciliava tutto questo, non so; ma il suo parlare era brillante e persuasivo e ci bevevamo tutto. Io assisteva a quelle lezioni con infinito gusto, e talora non dormiva contando le ore, impaziente di trovarmi in quella scuola. La stanza era molto piú lunga che larga, e ci entravano circa quattrocento giovani. Di prospetto era una tribuna bassa, dalla quale si vedeva a mezzo il vivace ometto. Io stava in prima fila e non perdeva una sillaba. Poi a casa prendeva il testo, ch'era la Logica e la Metafisica dell'abate Troisi; e non mi fermavo là alla lezione; ma correvo correvo, divorato dalla curiosità di sapere quello che veniva appresso. In breve, la mia testa fu piena di argomenti, di teoremi, di problemi, di scolii e di corollarii, di sillogismi, entimemi, e dilemmi; e divenni un formidabile e seccantissimo disputatore. Non parlavo di altro che di Dio e di anima e di religione naturale e rivelata libri filosofici dello zio erano scolastici, come Storchenau, Corsini; c'era anche una metafisica latina di Genovesi, c'era un San Tommaso, un Sant'Agostino, libri tarlati e con la muffa. Di latino non sapevo tanto ch'io potessi leggere senza fatica; perciò tutto quel latino mi seccava; e mi sentivo pur nelle ossa non so che smania di nuovo e di moderno.
Corsi alla biblioteca e mi ci seppellii. Passavano dinanzi a me come una fantasmagoria Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, Lamettrie. Prima leggevo a perdita di fiato; poi visto che ne cavavo poco, mi misi a copiare, a compendiare, a postillare. Mi ricordo ancora quella statua di Bonnet, che a poco a poco per mezzo dei sensi acquistava tutte le conoscenze. Quel Bonnet me lo trascrissi quasi per intero. Se un uomo intelligente mi avesse guidato in quei lavori! Ma ero io solo con la mia foga e con la mia superbia, e facevo poco buon frutto e fatica molta. A me però sembrava di venire un gigante in mezzo ai miei compagni, che aprivano gli occhi a sentirmi come un oracolo affastellare tante cose nuove. Il professore diceva che il sensismo era una cosa buona sino a Condiliac, ma non bisognava andare sino a Lamettrie e ad Elvezio. Ragione per cui ci andavo io con l'amara voluttà della cosa proibita. Queste letture non mi guastavano le idee, ch'erano sempre quelle del maestro, e guardavo d'alto in basso quegli autori, e dicevo con sicumera che Elvezio era un sofista e Lamettrie un chiacchierone. Voltaire, Diderot, Rousseau mi parevano bestemmiatori, avevo quasi paura di leggerli. Il professore ci pose poi in mano il Burlamacchi, e piú tardi l'Ahrens per il diritto naturale, inculcandoci anche lo studio della Diceosina di Genovesi. Qui c'era la famosa questione delle forme di governo. Mi ricordo con che abilità se ne seppe cavare l'abate. Conchiuse ottima essere la forma mista; ma modestamente diceva essere questa l'opinione di Montesquieu, non la sua.
Di conserva con la metafisica andava la fisica. Era la Fisica sperimentale del Poli, un altro abate, credo, scritta nel solito italiano corrente. A me pareva di entrare come in una nuova stella o in un nuovo mondo, quando cominciava uno di questi studi. Come la metafisica, cosà la fisica mi facea girare il capo, mi tirava su come in un mondo superiore pieno di luce. Il professore aveva a sue spese fatto un magnifico gabinetto, che poi fu acquistato dall'Università . Aveva l'esposizione brillante. Mi par di vederlo tra quelle macchine animarsi, ...
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