[Pagina precedente]...vivere. Dopo il pranzo feci la passeggiata per la via nuova, tra compagni e compagne. Mariangiola mi teneva per mano, una bella giovinotta un po' piú grandicella di me, e io mi lasciavo fare, e mi veniva l'affezione. Giungemmo alle Croci, che è un piccolo monte, storiato della passione di Cristo, detto perciò anche il Calvario. Alle falde era il Cimitero, una camera tutta biancheggiata, entro cui erano addossate le ossa degli antenati. Mi sentii un freddo, e pensai a Genoviefa, e m'inginocchiai innanzi all'inferriata, e piansi piansi, e dissi molti Pater e molte Ave.
Verso la sera, fatte molte visite, ci disse zio Pietro che ci voleva far conoscere D. Domenico Cicirelli. E ci menò in piazza, e là dove si apre una scalinata di grosse pietre che conduce alla strada di sopra, c'imboccammo in un portoncino, e fummo subito sopra. Trovammo D. Domenico nella prima stanza, già non erano che due stanze in tutto. Era quella stanza di un bianco sporco, decorata di ragnatele e di spaccature qua e là . Non so che puzzo mi saliva il naso. D. Domenico stava su di una seggiola di faccia all'uscio, presso alla finestra, con una gran tavola avanti, sparsa di scartafacci e d'inchiostro. Entrando noi, si levò e stese la mano a zio Pietro. Aveva in capo un berretto da notte, era grasso e basso, con la faccia rossa a fondo nero, la fronte piena di rughe, gli occhi cisposi, e le labbra grosse e bavose. Toccava l'ottantina, non portava barba. Appresso a noi entrarono altre persone, si fece folla. Baciammo la mano al grand'uomo di Morra Irpino; lo chiamavano il dottore e il filosofo. Ai tempi suoi egli era stato in Napoli, e vi aveva avuta un'educazione finita. D. Nicola del Buono, D. Peppe Manzi, D. Domenico Cicirelli e zio Carlo erano i sopracciò innanzi ai morresi. D. Domenico era un libro vivente. Cominciò a narrare la presa della Castiglia, la morte di Luigi XVI, Marat, Danton, Robespierre, Carlotta Corday, e poi venne Napoleone. Molte cose aveva lette, molte vedute, a molte aveva assistito. S'era là a sentirlo, a bocca aperta. Ed ecco due contadini portarono parecchi boccali di vino, e si bevve in giro. A noi piccini toccò un bicchiere di rosolio. D. Domenico era molto ricco, ma stretto nello spendere; e fu punito dalla prodigalità dei nipoti, e oggi un suo nipote fa l'usciere e va stracciato, e i figli zappano la terra.
Votati i boccali, e sgombrata la stanza, si rimase in pochi. E D. Domenico mi prese per mano e mi domandò cosa avevo imparato. E d'uno in altro discorso si venne alla metafisica. D. Domenico era secolo decimottavo, vale a dire un materialista e un ateo, e ne domandò sogghignando se c'era Dio. "Sicuro, - diss'io; - ci può essere dubbio?" "Gli, - rispose lui; - come lo sai tu? Perché te l'ha detto il prete!" "Che prete? - diss'io, - ci sono le prove". "Oh! e sentiamo". E io cominciai a infilzare le prove come avemarie: prova di sant'Agostino; prova di sant'Anselmo; prova di Cartesio; prova di Leibnizio; prova di Bossuet, e finii trionfalmente col celebre:
Dovunque il guardo io giro,
Immenso Iddio, ti vedo.
Parlavo con tanto ardore, con tanta facilità , che un mormorio di approvazioni mi accompagnava, e in ultimo papà , non potendo piú tenersi, mi prese in braccio, mi dié tanti baci. Solo D. Domenico stava serio, e calava il mento in atto d'incredulo, e ribatteva qua e là , e io con maggior veemenza controbatteva, incoraggiato dal manifesto favore dei presenti. Finalmente D. Domenico me ne tirò una buona, che mi fece traballare sulle gambe. "Dimmi, - disse; - è, vero che niente è nell'intelletto che non sia stato nei sensi?" "Sicuro, - diss'io; - questa è la base della conoscenza". "E dunque, bello mio, con quale senso tu conosci Dio? Con la punta dei tuo naso? Lo vedi? Lo tocchi? L'odori?" Io m'imbrogliai e balbettai. E lui m'incalzava, sghignazzando, e zio Pietro gli faceva cenni che non mi stringesse troppo. Quei cenni mi fecero un gran male, perché mi facevano intendere che di gran cose c'erano a dire, e non si dicevano per non turbare la mia innocenza. Era la prima volta che vedevo messi in dubbio principii da me succhiati col latte. Quello sghignazzare di D. Domenico mi pareva il riso del demonio. "Ma dunque, voi siete un ateo?, - diss'io con orrore. - Per voi non c'è Dio, non c'è anima, non c'è rivelazione. Voi siete andato sino a Lamettrie", conchiusi, ricordando un motto dell'abate Fazzini. Egli fece una gran risata, che mi turbò piú. Prese uni grossa pizzicata di tabacco, mutò discorso, mi lodò, mi accarezzò. Me ne andai poco rabbonito.
Il dà appresso facemmo un'uscita in campagna. C'era Costantino, e c'erano le tre sorelle Consolazio, e parecchi compagni. Andammo a piedi, coi contadini che ci portavano il pranzo. Il luogo di convegno era detto Selvapiano. La donna non mi faceva ancora impressione, fanciullescamente dava qualche pizzicotto. Chiacchieravo molto, soprattutto di libri e di scuola, ciò che annoiava molto le donne, alle quali piaceva piú Giovannino, meno novizio di me. Costantino si pose sotto il braccio Vincenzina, la piú grande delle sorelle, e la tirava e diceva barzellette, ridendo goffamente. Giovannino faceva il sentimentale con Mariangiola, e le stava all'orecchio con aria di gran mistero, e lei si faceva rossa. Or questo non potevo io tollerare. Volevano per forza ch'io stessi con Gennarina; ma io la trovava insipida, e voleva stare con Mariangiola, e la tirava a me e pretendeva che stesse a sentire non so che sonetto. Costantino si pose in mezzo e mi sgridò. "Vattene al diavolo col tuo sonetto, - disse. - Tu sei piú piccino, e devi stare con la Gennarina. Mariangiola è di Giovannino". Cosà io scontento e stizzito chinai il capo, e mi avvelenarono la scampagnata.
Capitolo SETTIMO
L'ABATE GARZIA
L'anno appresso si disputò in famiglia, a quale scuola di Dritto dovevamo andare. La scuola piú riputata era quella di don Niccola Gigli. Ma c'era troppa folla di giovani, e zio preferà mandarci a studiare presso un vecchio frate secolarizzato, e suo conoscente, un tal Garzia. La scuola era in Via Porta Medina in una stanza piccola e sudicia, ed eravamo appena una ventina. Il frate aveva in capo un grosso berretto di pelo, e abito e camicia erano sporchi di tabacco; era tutto macchiato e sordido. Straniero a ogni movimento d'idee moderno, stava là come un avanzo dimenticato della Scolastica. Il suo scrittore piú recente era Volfio, che aveva disciplinato Leibnizio, diceva lui: ciò ch'io non volevo sentire. Uomo alla mano e sciolto d'ogni forma convenzionale, ci trattava come suoi piccoli amici. Aveva la faccia rubiconda, sulla quale, come su certe botteghe, si poteva leggere: "buon vino e buon cuore". Gli piaceva anche il rosolio; e zio a Natale e a Pasqua gliene mandava, con lo zucchero e il caffè. Là mi mancava un teatro ove potessi brillare. Non c'era cattedra. Egli stava seduto in mezzo a noi; le sue lezioni erano conversazioni, spesso interrotte da grossi pugni sulla tavola o da grosse prese di tabacco. Non c'erano conferenze, cioè a dire discorsi lunghetti e seguiti, dove si distinguesse l'ingegno. C'era là una serie di domande e di risposte, alle quali prendevano parte tutti, e i piú pronti toglievano la parola agli altri, e ne veniva un vocÃo ingrato. In quella presa di assalto della parola mi sentivo soverchiato, e stavo là stizzoso, perché sentivo che avrei risposto meglio di quello sfacciato che mi troncava la parola in bocca. Talora, quando nel mondo mi vedevo soverchiare da certi presuntuosi ignoranti, pensavo alle conferenze dell'abate Garzia. Costui non prendeva troppo sul serio il suo ufficio, e chi non voleva studiare, non perciò si guastava la bile, e faceva un'alzatina di spalle, come volesse dire: "Tanto peggio per te".
Io continuava i miei studi filosofici, che mi piacevano assai, e poco teneva dietro a quella congerie di regole e di fatti, di cui il maestro non diceva le ragioni. Non fu possibile mettermi in capo la Procedura. Lessi molto il Digesto, come una bella collezione di massime e di sentenze, e ne presi occasione a rinvigorire il mio latino. Dove cominciai a vedere un po' di luce, fu nello studio del Codice Civile. Lessi con infinita curiosità i motivi che l'inspirarono; e quando parlava Napoleone mi appariva in una grandezza buia, che mi faceva terrore. Lessi molti commentatori francesi allora in fama, come Toullier, Delvincourt, Duranton.
Come suole avvenire, si strinse una certa amicizia con alcuni compagni piú simpatici, e si disputava molto di filosofia e di dritto civile. C'era tra gli altri un tal Fortunato, che aveva una grande riputazione nella compagnia, e faceva da sopracciò. A me era antipatico con quella sua aria di superiorità ; e lui che se n'era avvisto, mi punzecchiava e mi provocava. Una sera si vantava gran repubblicano; e io per fargli dispetto mi vantai gran realista. Grandi argomentazioni da l'una parte e dall'altra, non poté ridurmi al silenzio. Allora in aria di sfida disse che la disputa si facesse in iscritto. Accettai. Scrissi uno zibaldone; ma i compagni ai quali era affidato il giudizio, non vollero sentenziare e lasciarono dubbia la vittoria. Un'altra sera si accese la disputa intorno all'immortalità dell'anima. Egli la negava; io l'affermava, e mi scaldava e alzava la voce, e lui cosà contraddetto mi scaricò un pugno sulla spalla, e io lo guardai fiso, e gli dissi con l'aria di un antico: "Batti, ma ascolta". Si venne allo scrivere. Egli aveva maggior libertà di spirito, e gittava per terra tutte le credenze, e diceva la sua con un fare incisivo che ti chiudeva la bocca. Ora che ci penso, doveva avere un gran talento colui; ma non l'ho seguito nella vita, e non ricordo il suo cognome. Egli gittando lo sguardo nella filosofia corrente, trovava inconciliabile il sensismo coi principio religiosi, e ripeteva spesso: "Chi ha veduto l'anima nell'altro mondo?" E io pensava a D. Domenico Cicirelli. In verità , quella conciliazione pareva anche a me forzata; ed era chiaro che già si avvicinava il tempo in cui il sensismo male accordato col movimento religioso del secolo dovea cedere il passo a nuova filosofia. Questo vagamente mi si girava pel capo, e vedendo citare al mio avversario David Hume, e Smith, e la scuola scozzese, e un pochino anche Kant, vedevo fra le tenebre lampi, e venivo in dubbio di me stesso. Pure, aguzzato l'ingegno dall'amor proprio, scrissi una dissertazione che parve meravigliosa per sottigliezza di argomenti, e per copia di citazioni, frutto della mia immensa lettura. Il mio stesso avversario, che aveva leggicchiato gli autori piú moderni, rimase sbalordito a sentirmi citare Bayle, Leibnizio e cotali altri, di cui appena egli conosceva i nomi. Terminavo la mia lettura con l'aria gioiosa del trionfatore, visto che i miei compagni stavano là là per battere le mani; quando il mio avversario, vista la parata, prese il davanti, e mi disse: "Ma bravo! Si vede che avete molto letto; fo i miei complimenti". Questo disse con un tal piglio freddo di maestro che mi facesse un incoraggiamento. Questo sussiego mi spiacque, mancarono gli applausi, rimasi freddo e mi tenni mal vendicato del pugno avuto.
Si annunziava al mio spirito un nuovo orizzonte filosofico; mi bollivano in capo nuovi libri e nuovi studi. Si apparecchiavano i tempi di Pasquale Galluppi e dell'abate Ottavio Colecchi, dei quali l'uno volgarizzava David Hume e Adamo Smith, e l'altro ch'era per giunta un gran matematico, volgarizzava Emanuele Kant. Lorenzo Fazzini era caduto di moda, tanto che per svecchiarsi aveva aggiunto al suo corso certe lezioni di economia politica, date dal suo piccolo fratello Antonio, giovane di grandi speranze, morto indi a poco, che primo fece conoscere a Napoli il Trattato del Rossi. Cominciò una reazione contro il sensismo, come fautore di empietà . Io vedevo a terra tutti i miei idoli, e non ne avevo pietà , trascinato dalla nuova corrente. Il re stesso fatto accorto del pericolo, toglieva il suo favore all'abate Capocasale, a monsignor Colangelo e ad altri sensisti in veste teologica, e credeva il buon...
[Pagina successiva]