[Pagina precedente]...casa, e visitò le stanze, e poi si ficcò nello stanzone da studio, e con scioltezza si mise a voltolarmi libri e carte, e chiacchierava, rideva e non la finiva piú. Io era come un condannato a morte, pallido, livido: fra due ore dovevo andare a scuola e fare la lezione, e in capo non ci avevo messo nulla, e quel manigoldo, piantato lÃ, ch'era una rabbia. "Amico, l'ora della lezione si avvicina". "Ebbene, ti accompagno a scuola". Questa parola mi fece venire un brivido. Lui credeva di farmi piacere, e non avendo a fare altro che mangiare, voleva fare ora per il pranzo. Io mutai colore. Perché non lo presi per il braccio e non lo misi alla porta? Ora mi viene questa idea; ma non mi venne allora. Ero di una estrema delicatezza, e non avrei osato mai piú di dire a taluno: "Andate via". Fare cosa poco amabile o poco piacevole non mi veniva in mente. Mi risolsi di dirgli cosà come era la cosa. E lui a fare le grandi meraviglie. "Come! voi siete il grammatico, avete in corpo tutte le grammatiche, e dovete prepararvi la lezione? Ma voi pigliate le cose del mondo troppo tragicamente. Con questi giovinotti sballate due o tre regole, fate qualche barzelletta, e salute a voi. Volgete le spalle e non ci pensate piú, e non mi fate la faccia di spedale con quel chiodo fisso nel cervello". E si rimise tra quel monte di libri, scartabellando. "Per Iddio! ma siete matto a mettervi tutta questa roba in capo? Bembo, Salviati, Varchi, Castelvetro, Buommattei, Corticelli, bum!" E volgeva le pagine e mi parea che le stracciasse, cosà andava presto. Poi, cavato l'oriuolo, disse: "È ora di pranzo, buona lezione"; e andò. Io respirai.
Quel pensare per le strade mi dava la giravolta; spesso piú ripensavo e piú mi si guastava il pensiero o la frase; non vedevo piú la cosa, l'andavo cercando e non la trovavo, e piú mi si assottigliava il cervello, e piú quella mi si oscurava. In verità , tutto questo travaglio era vano e nocivo; la lezione si faceva qualche ora prima di andare a scuola. La pressura del tempo m'ispirava, m'illuminava; io giungeva caldo a scuola, e parlando, le cose mi venivano incontro di per sé, e mi ridevano.
Capitolo diciassettesimo
LE LEZIONI DI GRAMMATICA
Parecchi anni ero stato a leggicchiar grammatiche, lavorando intorno a quella di Basilio Puoti. Leggevo come si fa un dizionario, cercando quella pagina dove, secondo l'ordine, doveva esserci la tal regola o la tale eccezione o la tale osservazione. Quella tanto sudata grammatichetta era già uscita in luce; ma io non ristetti da quella lettura, anzi, cessato il bisogno, mi ci misi dentro per ordine dall'a alla zeta, tirato da una specie di febbre, che non mi dava tregua, né distrazione. Leggevo le pagine piú noiose come si fa d'un romanzo. Cosà mi messi in corpo i Dialoghi della volgar lingua di Pietro Bembo, durando alla fatica di quei caratteri barbari, gotici, abbreviati, minuti che mi stancavano gli occhi. E cosà m'inghiottii il Varchi, il Fortunio e i sottili Avvertimenti del Salviati e la prosa dottorale del Castelvetro e il Bartoli e il Cinonio e l'Amenta e il Sanzio e non so quanti altri autori, con approvazione del marchese Puoti, il quale mi vantava sopra tutti gli altri il Corticelli e il Buommattei. Quando avevo finito un libro, ne pigliavo subito un altro, senza domandarmi: "Che sugo ne ho cavato?" Del libro letto mi rimanevano notizie varie, alcune preziose e interessanti, ma niente di concorde e di sistematico. Quelle notizie erano cacciate via dalle piú fresche, e le piú lontane talora non mi apparivano piú che come un barlume.
Tutta quella parte che riguardava le origini della lingua e delle forme grammaticali, destò in me sul principio la piú viva curiosità ; ma presto me ne seccai, perché quelle etimologie arbitrarie e contraddittorie e quelle congetture avventate non avevano fondamento sodo, né davano adito a ricerche ulteriori, che rendessero interessante quello studio. Le ricerche supponevano che si potesse andare al di là della coltura classica; ma per me, come per quegli autori, al di là non c'era che buio. Dell'Oriente a me era noto tutto quello che avevo potuto leggere nelle storie; ma delle lingue, delle tradizioni, delle religioni, della filosofia sapevo poco meno che niente. A me parve dunque tutto quel lavorÃo intorno alle etimologie e alle origini cosa vana; e con la leggerezza e la presunzione di quella età , spesso me ne prendevo gioco. Quelle derivazioni dal greco o dall'ebraico o da non so dove, fondate sopra un certo scambio di vocali o di consonanti, mi parevano un gioco di bussolotti. Quelle discussioni eterne sull'origine della lingua toscana o italiana mi annoiavano fieramente. Quel pullulare perpetuo di regole e di eccezioni mi stancava, e tutte quelle dissertazioni sottili e cavillose sulle parti del discorso e sulle forme grammaticali mi annuvolavano il cervello. Lascio stare le canzonature dei compagni, che, a vedermi quelle cartapecore in mano, affumicate dal tempo, mi chiamavano un antiquario. E Gabriele Capuano mi diceva: "Basta ora con le anticaglie, ne sai abbastanza". Certo, se io mi fossi dato a quegli studi e li avessi seguiti con tenacità , sarei riuscito un gran decifratore di manoscritti e di papiri, ché ci avevo pazienza e buon occhio. Ma la vanità mi prese. Mi sentivo rodere quando mi chiamavano "il grammatico". Quella collaborazione col Puoti mi aveva impedantito agli occhi di molti. Le lodi che si facevano a Gatti, a Cusani, ad Ajello, che per gli studi filosofici erano in candeliere, mi davano una inquietudine, di cui non avevo coscienza chiara, ma che pur sentivo nelle ossa. Mi venivano nella memoria i miei antichi studi di filosofia, e quei Salviati e quei Castelvetri mi parevano addirittura pigmei dirimpetto a quei grandi, mia delizia un giorno e mio amore. Perciò mi gettai con avidità sopra i rettori e i grammatici del secolo decimottavo, con un segreto che mi cresceva l'appetito, vedendomi sempre addosso gli occhi del marchese. Lessi tutto il corso che Condillac aveva compilato a uso di non so qual principe ereditario. Studiai molto Tracy e Dumarsais. Il marchese, saputo dei miei studi, mi perdonò, a patto che non valicassi i confini della grammatica, e m'indicò un tale, che ora non ricordo, come un buon scrittore di grammatica generale. Io leggeva tutto, il buono, il cattivo e il mediocre, grammatiche ragionate, filosofiche e comparate. Quei cinquecentisti mi facevano stomaco; mi ribellai contro l'antico me, chiamando pedanteria tutto quello che due anni prima mi pareva l'apice del sapere: De Stefano e Rodinò mi si erano impiccoliti, e montai in superbia, e presi aria di filosofo. Cosà ero fatto io, quando il marchese mi diede a scozzonare quella brava gioventú. Il mio scopo doveva essere di apparecchiare i giovani alla scuola del Puoti; doveva essere una scuola preparatoria; ma quando mi sentivo lontano dagli occhi del marchese, mi si scioglieva la lingua, e mi abbandonavo sfrenatamente al mio genio, e davo del pedante a dritta e a manca, e avevo sempre in bocca la Scienza.
Tra i miei scartafacci pescai un giorno alcune prolusioni di quel tempo, delle quali diedi molti brani nei Nuovi saggi critici. Il marchese le avea rivedute, e ci aveva messo quello stampo tutto suo di classicità ideale. Ivi io me la prendo contro i pedanti con una stizza ridicola, e abbozzo l'immagine di una grammatica storica e filosofica, pigliando le mosse da un concetto di Quintiliano, e ribattendo il Sanzio, ch'io chiamavo "il Cartesio dei grammatici". Quella tale grammatica tipica io chiamava grammatica metodica; e volevo dire che non doveva essere una lista di esempi e di regole e di osservazioni infilzate l'una all'altra, ma una vera scienza posta sopra saldi principii con quel chiaro ordine, con quel filo segreto, che ti conduce dall'un capo all'altro, quasi per mano. Ivi prendo l'aria di un novatore, e trovo che tutto va male, che tutto è a rifare. Ecco qui un ritratto, come mi venne in quei giorni sotto la penna. "Niuna pratica dell'arte dello scrivere; niuna cognizione de' nobili nostri scrittori; malvagio gusto; pensieri non italiani; un predicar continuo purità , correzione; esempli contrari di barbarismi ed errori...; in malvagio stato trovasi la sintassi; squallida e incerta è l'ortografia; le regole del ben pronunziare dubbiose e mal ferme; niente di certo, niente di determinato intorno alla dipendenza de' tempi, al reggimento delle congiunzioni; principii opposti; opinioni contrarie". Io avevo l'aria di voler riformare il genere umano, e parlavo alto e sicuro. Non ci è cosa che possa tanto sui giovani quanto questo tono sicuro d'imberbe. Fanno subito coro, e predicano il verbo, e propagano la fede. Acquistai autorità sui discepoli, e l'impressione fu durevole, perché, con quel fine fiuto dei giovani, sentivano che in quelle lezioni io ci mettevo tutto me, ed ero sincero, e non c'era ciarlataneria, e serbava modestia e naturalezza. Quando nell'uomo c'è l'attore, presto o tardi vengono i fischi; ma l'uomo sincero e modesto non perde mai prestigio. C'era in me una contraddizione palpabile tra l'audacia delle opinioni e la cera bonaria e modesta: l'una mi attirava gl'intelletti, l'altra mi procurava la fede. Io, arditissimo nei concetti, non mi tenevo da piú di nessuno dei miei discepoli; anzi mi sentivo loro compagno e uno con loro, e non mettevo nessuna cura a velare i miei lati deboli; mi mostravo tutto al naturale, e mi piaceva di stare in loro compagnia e spassarmi insieme con loro. Cosà nacque quella parentela spirituale che non si ruppe mai piú, e che anche oggi m'intenerisce, quando qualcuno di quei giovani mi viene innanzi alla mente.
Le mie prime lezioni furono una storia della grammatica. Volevo fare una storia delle forme grammaticali; ma al pensiero gigantesco mal rispondeva la cultura, attesa la mia scarsa grecità e l'ignoranza delle cose orientali. Potevo rimediare con quei libri allora in moda, pieni di tante chiacchiere sulle cose greche e d'Oriente; ma queste generalità vuote non mi sono piaciute mai, né farmi bello delle altrui penne mi è mai entrato in capo. A scrivere e a parlare mi era necessario non solo che la materia fosse a me ben nota, ma che la studiassi io quella materia, e la facessi mia. Perciò quella ideata storia delle forme grammaticali, dopo vani tentativi appresso a Vico ed a Schlegel, si ridusse nei modesti confini di una storia dei grammatici da me letti. Non è già ch'io m'occupassi della loro vita e delle minime particolarità dei loro libri. Fin d'allora la mia mira era al centro, cioè all'idea principale e dominante, lasciando da parte tutto il secondario e l'accessorio. Non parlavo di un libro che non l'avessi studiato io medesimo; e il mio costume era, letto il libro, metterlo da parte, e pensarci su passeggiando e almanaccando. Parlai dei grammatici che tutto derivavano dal latino. Poi venni a quelli che erano studiosi della lingua, copiosi di regole e di esempli, che moltiplicavano in infinito. Molto m'intrattenni sul Corticelli, sul Buommattei, sul Salviati e sul Bartoli. Tutto era nuovo, autori, libri, giudizi. Le mie censure erano senza pietà e senza riguardo. Censuravo quel moltiplicare infinito di casi e di regole che si riducevano in pochi principii; quella tanta varietà di forme e di significati (massime nel Cinonio), che era facile ricondurre ad unità . Facevo ridere, pigliando ad esempio l'a, il per, il da, irti di sensi e che pur non avevano che un senso solo. La mia attenzione andava dalle forme al contenuto, dalle parole alle idee; sicché, sotto a quelle apparenze grammaticali, variabili e contraddittorie, io vedeva una logica animata, e tutto metteva a posto, in tutto discerneva il regolare e il ragionevole, non ammettendo eccezioni e non ripieni e non casi arbitrari. Con questa tendenza filosofica, corroborata da studi vecchi e nuovi, io conciavo pel dà delle feste i cinquecentisti, e facevo lucere innanzi alla gioventú uno schema di grammatica filosofica e metodica, quale appariva negli scrittori francesi. Dicevo che cost...
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