[Pagina precedente]...razione verso scrittori differentissimi d'ingegno e di stile, come Guicciardini, Davila, Cellini. Le Storie del Machiavelli mi seccavano, salvo qualche brano rettorico. Il mio gusto non era ancora formato. Cercavo negli scrittori il sentimento, l'immaginazione, l'acutezza e la novità del pensiero, e non m'entrava ancora quell'aurea semplicità che vantava il Puoti. Sentivo che c'era una certa contraddizione tra quel secco periodare da cinquecentista e quel secco fraseggiare da trecentista. Venutomi a noia lo studio delle parole, mi prendea vaghezza di studiare le cose. Sotto Costantino Dimidri avea cominciato lo studio dell'anatomia. La miopia m'impediva di veder bene il cadavere tra quella folla, e supplivo con le figure e con lo studio camerale. Quanti libri di zoologia, di chimica, di geologia, di medicina mi venivano in mano, tanti ne divoravo. Le mie letture erano come di romanzi, senza serietà di fine e di studio, tirato da piacere e da curiosità . Storia naturale, fisiologia, patologia mi attiravano molto; vedevo aprirsi allo sguardo mondi ignoti e inesplorati. Zio Pietro ci parlava spesso del suo maestro Nicola d'Andria e di Cotugno e di Bufalini e di stimolo e di controstimolo. Ci parlava di tempi nei quali si curava, con buoni arrosti e con buon vino, sul fondamento che ciascuna malattia provenisse da debolezza. Poi combatteva questa dottrina, e parlava di lenitivi e di emollienti e rilassanti, di purghe e di salassi, accompagnati con l'inevitabile digiuno, visto che ciascuna malattia proviene da infiammazione. Sentivo zio Pietro a bocca aperta; quelle metafisicherie mi facevano gola, e aguzzavano in me l'appetito di nuove letture. Qualche ora del giorno si passava a studiar greco col Margaris, e latino col Rodinò. A casa trovavano puntualmente il maestro Cinque, un bassotto sbarbato e guantato; ed ecco sonare, cantare, ballare. Oh! l'era una bella vita. Io c'ero tutto dentro, fantasticando, meditando, leggendo, quando il caso dello zio Carlo mi chiamò alla triste realtà . Tutti gli studi furono interrotti. Ogni allegria finÃ. Quegli squarci di cielo azzurro che ridevano alla mia anima si copersero di nuvole. Il presente era triste, l'avvenire divenne oscuro.
Zio Pietro dispose che Giovannino andasse a fare la sua pratica presso il Padovano, un riputato avvocato commerciale. E io rimasi là in casa, con tutto il peso della scuola sulle mie spalle curve. La sera andavo sempre alla scuola del Puoti; ma tutta la giornata era spesa a spiegare grammatiche e rettoriche e autori latini e greci, a dettar temi, a correggere errori. Ero pazientissimo, rotto alla fatica; pure quelle cinque classi prostravano in me ogni virtú. Finivo mezzo cretino, inetto a capire un libro, e non sapevo come zio avesse potuto durare a quella pena. Quei cari studi dei miei primi anni mi riuscivano acerbi, non solo per la fatica, ma perché non erano piú d'accordo con la mia coscienza. Quel Soave, quel Falconieri mi facevano pietà . Quelle ariette del Metastasio, quelle ottave del Tasso, quei sonetti, quelle sestine, quelle epigrafi, quelle ceneri coronate, quegli Adami rabuffati, quei maestri di fulmini e quegli Eugenii che fanno paura alla morte, non entravano piú nel mio spirito. Quel dover torturare una frase di Livio o di Tacito che facevano gli scolari per cavarne un senso plausibile, era una tortura al mio spirito, e talora si movevano le mani come per dare uno scappellotto. Quegli scrittori vivi mi parevano divenire pezzi di anatomia, entro i quali quei giovanotti cercavano faticosamente la costruzione. Quel contare sulle dita, quel fare la cantilena, quello stupido recitare a memoria, quel darsi i pizzicotti mentr'io mi sfiatava, m'era intollerabile, mi dava sui nervi.
Alcun conforto prendeva, quando veniva la volta delle classi superiori. Erano miei coetanei, e ci capivamo meglio. Posi loro in mano le lettere di Annibal Caro. Era una novità ardita che piacque. La base dello studio era il latino. Per l'italiano, oltre la lettura del Tasso, non c'era altro. Prima si destò la curiosità ; poi si cominciò a spigolare frasi; ma questo gioco presto venne a noia a me ed a loro. Cominciai a fare osservazioni sopra i sensi delle parole, sul nesso logico delle idee, sulla espressione del sentimento, sulle intenzioni e sulle malizie dello scrittore. Erano cose nuove per loro e per me, che faceva con que' commenti improvvisati opera sottile e ingegnosa. Si andò tanto innanzi che ne uscà un trattatello sul genere epistolare, di cui fece una bella copia un tal Francesco Durelli. Bassa persona, faccia terrea, occhi piccoli senza espressione, fisionomia senza colore, mi pare ancora di vederlo questo ragazzotto, che m'era inferiore d'età . Si era stretto a me; mi veniva a trovare spesso; mi lusingava con lodi esagerate, che per la prima volta accarezzavano il mio orecchio. Io, inesperto della vita e degli uomini, in un momento d'abbandono gli dissi le mie angustie: "Che sarà di me?" E lui a spacciar protezioni, a vantar nobili parentadi e grandi amicizie; e io apriva gli occhi e beveva tutto. Mi parlò di un tale Schmücher segretario della Regina Madre e suo grande amico, e "Gli voglio mostrare questo tuo trattatello; vedrà che tu sei forte nel genere epistolare e ti prenderà a' suoi servigi; ma tu devi raggiustare la tua calligrafia". Io mi feci venire un maestro, e cominciai a tirare aste in su e in giú, a studiare il maiuscolo e il corsivo, il francese e l'inglese.
La scuola non mi rendeva nulla; ché zio Pietro intascava tutto. Spesso mi mancava il necessario per comparire innanzi alla gente, ancorché fossi trascuratissimo nel vestire. Mi si porse occasione di una lezione privata in casa del signor Fernandez, spedizioniere di una casa di commercio. Mi davano trenta carlini al mese, che mi parve un tesoro. Andavo là in gran segreto, per tema che quei trenta carlini non cadessero nelle tasche di zio Pietro. Avevo cosà in pochi mesi accumulate alcune piastre, che mi tenevo carissime e gelosissime. Era il mio secreto, e non ne dissi verbo ad alcuno, neppure a Giovannino. Ma quello scaltro ragazzotto fiutò la cosa e mi tirò il secreto di bocca, e fissava certi occhietti di avvoltoio sulle mie povere piastre. Un dà mi raccontò che aveva parlato con lo Schmücher, e che la cosa era bene avviata, e che fra poco avrei avuto l'impiego. Mi si fece tanto di cuore. Egli mi fe' intendere con una vocina insinuante che gli occorreva un po' di danaro, e teneva gli occhi bassi, cosà tra lo scemo e lo sbadato. Io capii in aria, e volli risparmiargli la vergogna del domandare e me gli offrii prontissimo. Egli adunghiò quelle amate piastre con un sorrisetto, promettendo la restituzione fra pochi dÃ, e facendomi balenare sempre innanzi l'impiego. Tutto a un tratto scomparve. Che è? che non è? Nessuno l'ha visto; nessuno sa la sua casa. Ecco un dà venire un suo zio, credo un commissario di guerra, che voleva sapere degli studi e della condotta del suo caro Francesco. "Ma se non viene piú!" diss'io. E d'una in altra parola gli sballai tutto. La mia semplicità lo fece prima ridere; poi si adirò contro il nipote, e ch'era un bugiardo, un intrigante, un discolo, e mi promise le piastre, e che avrebbe fatto, avrebbe detto. Ma quelle povere piastre non tornarono piú. E cosà per tema di vederle in mano a zio Pietro finirono tra le unghie di un bricconcello. Non vidi mai piú questo scroccone e fu questa la prima truffa che mi fu fatta.
Non potevo levarmi dinanzi quelle piastre lucenti, ch'erano il mio secreto, il mio bene. Peggio è che non potevo sfogarmi con alcuno, stizzoso della burla e pauroso delle beffe. Poi pensai all'impiego. "E perché non andrei io da cotesto signor Schmücher? colui gli ha parlato; il mio nome debb'essere scritto, non sono ora un ignoto". Mi feci animo. E un dà ch'egli teneva udienza, me gli presentai. Gli raccontai tutto. Era un buon tedesco, alto della persona, con la faccia rubiconda e sazia, di modi schietti. "Chi è questo signor Durelli? Non so nulla io". Allora io gli parlai dei miei studi, e che sapevo scriver lettere, e che avevo una calligrafia non cattiva. Egli m'interruppe, e mi guardò fiso e disse: "Ma non c'è nessuna persona che prenda cura di lei?" Io con gli occhi in aria risposi: "SÃ; c'è lo zio". "E dunque?" Innanzi a quel dunque rimasi di stucco, come tocco da un fulmine. Non balbettai neppure. Vedendomi a testa bassa e muto, mi volse le spalle indicando l'uscio. L'usciere voleva il regalo, e io gli posi in mano quelle poche grana che mi trovai, e lui crollando il capo e protendendo le labbra, mi chiamò un pezzente, un calabrese. Anche questo. Camminai in fretta, come uomo inseguito. M'ero preparato un cosà bel discorso; tante belle cose c'erano a dire a quel signore; come non gli diss'io che lo zio era ammalato, e che toccava a me l'aver cura di lui? Ero scoraggiato; mi pareva che tutti mi guardassero e mi facessero le beffe. Mi guardai bene di dirne motto in casa. Continuai taciturno a portare il basto, e sognavo i trenta carlini dei nuovo mese.
Un giorno, uscito appena di casa, incontrai zia Marianna. "Come sta lo zio?" "Come volete che stia?" rispos'io. Avevo la faccia di un crocifisso. E andai oltre, studiando il passo per non mancare a non so quale appuntamento. La zia sali in casa, e voltò la mia frase in quell'altra: "Zio sta peggio"; e riempi la casa di lamentazioni. Lo zio si turbò. Aveva la mente indebolita e lacrimava spesso. Quando io fui tornato, mi chiamò a sé. Si fece cerchio intorno al letto, e zio con l'aria di un giudice m'interrogò: "Come ti pare che io stia in salute?" Volsi in aria gli occhi smarriti, e dissi: "Molto meglio, mi pare; sarete presto guarito". Andai via come un accusato; mi sentivo involto in un'atmosfera ostile, e non sapevo perché, e talora dava la colpa a me, e mi facevo un esame di coscienza, e mi promettevo d'essere piú cauto.
Un giorno non ne potevo piú; giacevo sotto la croce. Era carnevale. A me quei divertimenti chiassosi non garbavano. Uscii verso le tre pomeridiane, assetato di aria e di solitudine. Scesi in piazza della Carità . C'era un diavoleto. "Il carro! il carro!" si urlava. Passava il carro dei principi reali, sfarzosamente addobbato. Mi feci largo a gomitate, imprecando contro quel gentame che mi chiudeva il passo. L'onda mi gettò verso il carro, e non solo mi venne addosso una pioggia di confetti duri come pietre, ma mi toccò una frustata da uno stalliere che mi respinse indietro. Stavo come naufrago quando mi ripescò un tale D'Amore, e mi sorresse e mi tenne sotto il braccio. Questo D'Amore era figlio d'un cantiniere, e lui faceva il signorino, ed era mio compagno alla scuola del Puoti. "Che diavol ti porta qui?" "Maledetto paese e maledetto carnevale! - diss'io. - Volevo andarmene tutto solo a bere un po' d'aria verso Capodimonte". "E pensi tu solo di farti via? Ti farò la via io, e verrò con te". Cosà a furia di spintoni giungemmo verso lo Spirito Santo, presso la farmacia Marra. C'era gran calca; uno spingersi innanzi e indietro, come un mare furioso. Si vedeva in lontananza il carro dei principi reali, fermato a battagliare con i balconi. Molti vetri rotti erano testimonia del suo passaggio. Il carro si avvicinava lentamente; il polverio accecava gli occhi; gli urli e i fischi intronavano la testa. D'Amore disse: "Non si può passare; andiamo su; che sono amici miei". E mi tirò per una porticina su in una camera.
Era ivi la casa del farmacista; un balcone stava spalancato; vidi signore che scappavano nelle altre stanze. Fiutai un cattivo vento e tirai per l'abito D'Amore, dissi: "Andiamo via". Saltavamo le scale, quando ci vennero di faccia alcuni gendarmi, che ci presero per il collo e ci tennero fermi, noi gridando e protestando invano. Scesero poi tra gendarmi alcuni giovinastri con le mani infarinate, e tra percosse e pugni pure strepitavano e minacciavano. Fummo messi in fila a due a due e menati per Toledo. Bello spettacolo! Io stavo come un asino in mezzo ai suoni; non ci capivo nulla. Toccai un vicino, e dissi: "Cosa è stato?...
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