[Pagina precedente]...etro, e con tuono fermo di voce risposi: "Sentite, io ho il dovere di farvi una dichiarazione; sono un uomo leale e non soglio ingannar femmine. Mia moglie non potete voi essere, perché ho già la mia sposa". Ella si fece pallidissima, e io esaltandomi continuai: "Mia sposa è la gloria, alla quale mi sono votato". Ruppe in una risata sonora: "Oh! di questa signora gloria non sono punto gelosa". Ma io, preso il verso, continuava e non mi lasciava interrompere, e lei sentiva sentiva, pigliando un'aria di ammirazione. Parlai dei miei studi, delle mie aspirazioni, dei miei ideali, dei miei giovani, acceso in volto, tutto dentro in quei pensieri, e quasi dimentico che lei fosse lÃ. "Cosa è la vita senza la gloria? E la donna è nemica della gloria, e distrae la gioventú, e la tira nell'ozio". "La donna è il demonio", interruppe lei con un ghigno che aveva del beffardo. Ma io non la sentivo e tiravo innanzi e rinforzavo la voce, insino a che ella, perdendo la pazienza, mi afferrò la mano per aria, facendo: "Uh! uh! uh! E finiscila mo. Capisco che sei venuto qua per farmi il predicatore, per farmi il casto Giuseppe". Questa sua uscita mi troncò la parola, e la guardai e mi parve bellina, e raddolcii la voce. "Questo vi posso promettere, - conchiusi, - che se mi amate per davvero, nessun'altra donna porrò in vostro luogo". "Per ora, me ne contento", disse lei.
Cosà infocati, facemmo molta strada, e giunti a una svoltata che menava in città , e visto che lei tirava per diritto, dissi: "Dove si va?" "Dove amor ci porta", disse lei ridendo. E io la guardava con la faccia imbrogliata. Volevo dire e non volevo dire. E finalmente dissi: "È tardi; torniamo di qui". Lei mi fece una mossa col muso, come a dire: "Questi non è buono a niente". Io le dissi che zio Peppe mi aspettava, e che avevo promesso di fare una passeggiata con lui. "Vai dunque con zio Peppe; io me ne vo' sola". E mi fece un tale gesto di sprezzo, ch'io mi sentii freddo. Cercai di rabbonirla, e mi seguà mormorando. Giunti in giú, quando la strada era piena di gente, dissi: "Addio, ora possiamo dividerci". "Già , perché ti veggono i tuoi scolari". E mi voltò le spalle. Non ci badai molto, ché avevo in capo zio Peppe. Corsi, e giunsi trafelato e tutto in sudore; ma era già quasi buio, e zio Peppe era uscito. Quando tornò, non mi salutò e io non fiatai. Ma il brav'uomo non sapeva tenere il broncio, e la mattina mi parlò come se niente fosse.
Quel giorno ero un po' soprapensiero. Tenevo gli occhi spesso verso il balconcino, spingendo lo sguardo anche addentro, ma non c'era anima viva. Le mie solite lezioni furono una medicina, perché il sentimento del dovere e l'abitudine mi tenevano il cervello a segno. Talora mi si presentava lei tra una frase e l'altra, ma era un lampo e non avea la forza di fissarsi. Tornato a ora di pranzo, l'occhio corse là ; ma quella casa già piena della sua voce, era solitudine e silenzio. A tavola zio Peppe, che aveva avuto vento della cosa, motteggiava, non mi dava requie, toccava questo e quel tasto, e io non rispondeva a tuono. Quando fu a letto, per fare il suo sonnellino del dopo pranzo, io mi posi a passeggiare per la stanza della scuola, e cercava di ficcarmi in testa la lezione; ma non c'era verso, ché l'occhio andava pur lÃ, e quel pensiero era come un verme fitto nel cerebro, che me lo teneva inquieto. "Dunque, - dicevo, - allons, pensiamo alla lezione"; ma la lezione non voleva andare, e stava sempre lÃ, tra quelle prime idee, e io ci stagnavo come in una palude. Piú era lo sforzo, e piú m'ingarbugliavo e non facevo via. Mi provai a socchiudere le imposte, per togliermi dagli occhi quel maledetto balconcino; ma che! in quella mezza luce la vedevo dovunque fissavo l'occhio, e talora sulla cattedra, con quel suo tuono beffardo, quando diceva: "La donna è un demonio". Quando vennero i giovani, tutto finÃ. In mezzo a loro mi sentii un altro; ripresi il mio buon umore, e tra quella concitazione mi uscà una lezione tale, che fu applaudita. Parlai di Dino Compagni. Volevo mostrare ch'era un bon omo e cittadino probo e un gran cuore, ma inetto alle pubbliche faccende. Scorsi tutta la sua Cronaca, pigliando di qua e di là , frizzando, motteggiando e sfogando su di lui tutta la stizza che avevo in corpo. Non è che quelle idee mi venissero giú cosà all'improvviso; piú volte mi erano passate per il capo, ma quella sera le condensai, le colorii, fui eloquente. E quella lezione mi piacque tanto, che la ripetei l'anno appresso, cosa insolita, e me ne rimase memoria, e mezza la inserii nella mia Storia della letteratura. A sera tarda zio Peppe mi disse: "Passeggiamo?" "Sono stanco", risposi: parte verità , parte pretesto. Volevo star solo. Andavo qua e là nelle stanze, e i punti piú belli della lezione mi tornavano in mente, e si ficcavano tra le ombre della giornata: e fantasticando, mi trovavo spesso alla finestra, al balcone, tossendo, pestando dei piedi; e quella cameretta era sempre muta e oscura. "Sarà ita in collera", pensai, e mi rimproverai certe mie rozzezze, riandando quella passeggiata.
Cosà passò il dimani e il dà appresso. Quei balconcino deserto mi facea venire la stizza e fomentava il desiderio. La sera del mercoledà uscii soletto; mi attendeva zio Peppe tra una brigata di amici. Avevo appena voltato a destra, quando udii un pissi pissi. E una vecchia mi porse una carta, e via. Era un bigliettino profumato, che lessi al lume di un lampione. Diceva che lei era stata ammalata dalla collera, e ch'io m'era portato male, e che voleva vedermi, e mi dava posta per domenica alla stessa ora e nello stesso luogo. Fui allegro. Quei giorni mi parvero lunghissimi. Lei non si lasciava vedere, e io diceva: "Poverina! è malata". La domenica non promisi a zio Peppe di passeggiare con lui, volevo esser libero. La trovai lÃ, tra l'erbe; mi venne incontro mogia mogia, malinconica. L'avrei abbracciata, se non fosse stata via pubblica. Lei mi si mise sotto il braccio senza cerimonie, e mi contò la sua storiella di quei giorni, e io le contai la mia. Tra vezzi e rimbrotti, mi tirava seco come un fanciullo; e mi menò per una svolta, in un bel pratello erboso e fiorito, dov'erano di grosse pietre muscose, come sedili fatti apposta per noi. "Fa caldo, - disse lei, - sono stanca; sediamo qui". Io la guardava; non l'aveva mai vista cosà bene. Aveva un bel cappellino che ombreggiava un visetto grazioso; era una simpatica creatura. Quel suo riso mi ammaliava, e ci aveva messo dentro non so che malinconia piena di dolcezza. Vivi sudori mi scorrevano sulla fronte, e lei si cavò di tasca un fazzoletto odoroso, e me li asciugava, accostando il viso; e io mi trovai con la bocca sulla sua fronte, e le labbra mi tremavano. Stupito della mia temerità , e turbato, mi levai. Ella mi seguÃ, facendo un: oh! Mi gittai a terra, raccattando la sua sciarpina che le si era sciolta dalla gola. Gliela porsi; ma lei mise la mano indietro, dicendo: "Non vuoi legarmela tu?" Mi avvicinai a quella gola, ma non ci vedevo, e le mani s'imbrogliavano, timorose di toccare il nudo della carne. E lei rideva, rideva d'un riso birichino, e s'aggiustò la sciarpa.
La passeggiata fu cosà lunga ch'io potei mostrarle le dorate nubi e la candida luna e le luccicanti stelle, e m'ingolfai in quella contemplazione. "Vedi là , - disse lei, - quella stella che luce piú". E in tuono di vezzosa caricatura modulava:
Quant'è bella chella stella,
Ch'è la primma a comparé.
Avrei voluto darle un bacio, ma mi tenni. Vide la mossa, e disse argutamente: "Quella è la stella del nostro amore. Vogliamo darle un nome?" "Diamole il tuo nome. A proposito, come ti chiami?" "Mi chiamo Agnese". "Il nome di mia madre!" Non so dire se ciò mi piacque o mi dispiacque. Mi pareva quasi che quel nome a me sacro fosse profanato in quell'avventura. Poi dissi: "Poiché porti il nome di mia madre, dobbiamo condurci come se quella fosse presente". Lei stava seria, ma non mi persuadeva: c'era in quella serietà non so quale ostentazione, che non mi faceva simpatia.
Fummo d'accordo che ci saremmo veduti tutte le domeniche, stessa ora e stesso luogo. Le passeggiate furono parecchie. Nella settimana mi mandava dei bigliettini. La scrittura era bella, ma non mancavano errori di ortografia e qualche sgrammaticatura. Talora io facevo il signor maestro, non senza sua noia. C'erano giornate intere e anche intere serate che non compariva: quella stanza mi pareva allora disabitata. Gliene facea motto, ma era sempre pronta qualche storiella. Io aveva fatto di lei il mio confidente, e le raccontava i miei pensieri e i miei casi della settimana. Lei avevi esaurito tutto il suo magazzino di tirate e di novelle, e mi lasciava dire, e poco parlava. Io non trovava miglior materia di discorso che le mie lezioni, e recitavo brani di poesia, e talora anche versi miei:
Cara, tu ben rammenti. In noi fu quasi
Il vederci e l'amarci un solo istante.
Come, non so. Cosà musico suono
L'orecchio e il core in un sol tempo invade.
Ora che ci penso, quello non era che un amore d'immaginazione. Non mi distraeva, non mi turbava, anzi era uno sprone acuto che mi scaldava la fantasia e rendeva geniali le mie lezioni. Il buon successo mi esaltava, e pensavo alla domenica quando ne avrei parlato con lei. Avevo una certa giovialità interiore che mi rendeva piacevole il mio compito a scuola, soprattutto nel parlare improvviso, quando si esaminavano i componimenti. S'era già fatto un progresso; non si stava piú alla lingua e alla grammatica; si guardava allo stile e anche alla tessitura.
Una sera capitò a leggere un suo lavoro un giovinetto di quindici o sedici anni, un biondino, bassotto, facile ad arrossire, e si chiamava Agostino Magliani. Il marchese l'aveva caro, perché nel tradurre era corretto e castigato; e talora diceva scherzando: "Gracilino si, ma la cassa del petto è ben munita". Non aveva fatto ancora cosa che tirasse gli occhi sopra di lui. Quel suo lavoro era intitolato: La donna. Andava piano e soave, con pronunzia chiara, e si faceva sentire, tanto che si fece subito un gran silenzio, come nei momenti solenni. Finà tra le approvazioni.
"Ecco una prima rivelazione", diss'io: parola che poi spesso mi veniva sul labbro. E volevo dire che in quel lavoro s'era rivelato l'ingegno. Non volli interrogare nessuno, com'ero solito; ma parlai io subito. Il lavoro era di genere didascalico, come avrebbe detto il marchese. Il piccolo autore senza frasi e senza enfasi faceva le lodi della donna, con un discorso cosà chiaro e cosà bene ordito, ch'io potei riprodurne a memoria tutte le parti per filo e per segno. "Che memoria!" dissero i giovani maravigliati. E io di rimando: "Merito non mio, ma dell'autore, che ha fatto questa mirabile orditura, e s'è rivelato uomo d'ingegno". Il tema era bello; io ero in vena, e parlavo con quel mezzo riso sulle labbra, che esprime l'interna soddisfazione. Finii contento di me, tra gli applausi. Quella sera fu una festa.
La domenica era aspettatissima. Parlavo con lei de' miei successi, e m'esaltavo della mia stessa esaltazione. Venne un tempo che lei si annoiò di quella vita, voleva stringere un po' piú le cose. "Sono stanca, - diceva alcuna volta; - questo camminare cosà lungo mi toglie la lena; dovresti trovar modo che ci potessimo parlare senza tanto fastidio". "Vengo a casa tua". "Mia mamma non vorrebbe". "E chi è tua mamma?" "È una lavandaia", mi disse lei a bruciapelo e fissandomi. Io non mostrai sorpresa: questo le piacque. Dissi: "A casa tua no; a casa mia né tampoco". "E perché no?" "Se non ci fosse zio Peppe!" "Zio Peppe non è un orco". "No, no. Zio Peppe non vuole". Una sera, erano tre ore di notte. Zio Peppe s'era coricato e russava potentemente. L'uscio era socchiuso. Entrò lei, e io volevo menarla in salotto. "No", disse lei, resistendo. Io le parlavo a voce alta. "Zitto, - disse lei, - che non si svegli. Menami piuttosto di là ". "Ma di là è la cucina". "E sia", disse lei. Entrando, ci giunse un urlo: "Ciccillo!" Lei scappò, io corsi a lui. "Che rumore è questo?" Io sostenni che rumore ...
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