[Pagina precedente]...ni andavo cosà armato a scuola, e chiamavo i giovani, uno per uno, e sempre trovavo a dir loro qualcosa, o biasimo o compatimento o lode, consegnando le carte. Poi prendevo i miei appunti, e con l'occhio alla lavagna facevo scrivere le frasi o i periodi da me scelti, dov'erano gli errori, e volevo che i giovani me li trovassero. Di là cavavo materia molto istruttiva di osservazioni e di applicazioni nelle cose della lingua e della grammatica. Quello era l'esercizio piú utile. Posso dire che s'imparava piú a quel modo che con tante regole e con tanto filosofare. Io non lasciava mai in ozio l'intelletto e non dava luogo alle distrazioni: sempre lÃ, l'occhio alla lavagna, attento, caldo, come se vivessi là entro, e quella serietà , quel calore guadagnava tutti, li tirava a me.
Capitolo diciannovesimo
MALATTIE REALI E IMMAGINARIE
In questo primo anno della mia scuola mi giunse notizia che la divisione nella famiglia era compiuta. Papà , sempre un po' poeta, avea scelto quella parte della casa ch'era in uno stato meno buono, perché col tempo era possibile allargarsi da quel lato e farsi una casa bella. Cosà con la poesia dell'avvenire si consolava della miseria presente. Intanto ci si stava alle strette, e bisognò farsi l'uscita da un'altra strada, fabbricare e lasciare a mezzo la fabbrica, dove gli altri, col loro pensiero prosaico, ebbero la casa bella e fatta, senza spesa e senza ansietà del domani. Questo fu il frutto della poesia. I due zii s'erano divisi secondo le loro inclinazioni; zio Carlo stava con gli altri, e zio Peppe con noi. Il cugino Aniello era in Avellino a studio; poco poi rimpatriò e studiava medicina col padre. Paolino mio fratello era in seminario. Gli altri fratelli rimasero in casa sotto la disciplina di zio Peppe. Vito si trovava con me ch'era un pezzo. Io non potea troppo avergli l'occhio sopra; e poi era già grandicello, e pretendevo che facesse da sé, prendendo me per esempio. Ma parve ch'egli incappasse in mala compagnia, e di questo me ne veniva qualche sentore, e gliene volevo male, e gli facevo lunghe paternali. Ma vedendo le cose sempre sullo stesso andare, me ne stancai e non gli parlavo piú. Quel mio silenzio mi pareva gli fosse freno, e invece gli fu sprone. Quel vedersi trattato con indifferenza e non parlato e messo là come un cencio, mi sembrava il maggior castigo che potessi dargli, e che gli fosse coltello al cuore. Questo pareva a me, che spesso mi sono ingannato, supponendo nella gente sentimenti troppo delicati e raffinati. A lui parve, non sentendo piú i miei rimproveri, d'essere come scarico d'un gran peso, e s'indurà e si senti piú libero. Io che non gli vedevo cambiar registro, avrei dovuto cambiarlo io, e prendere altra via; ma la scuola mi teneva tutto a sé, e poco mi giungevano i rumori del mondo.
Un giorno, rimasto solo in casa, stanco di passeggiare e fantasticare per il solito stanzone, mi sedetti e tirai a me il cassetto della scrivania, e lo trovai vuoto, e rotta la serratura. Rimasi spaventato, e non credevo a me e non sapevo come l'era andata; ché là dentro ci doveano essere i miei sudati danari, e non ci trovai niente. Con gli occhi smarriti corsi nella stanza da letto per vestirmi e correr giú, per isfogarmi con la famiglia Isernia ch'era al primo piano. E non trovavo gli abiti, e fremevo d'impazienza; e mi volto di qua e mi volto di là , gli abiti non li trovo. Erano scomparsi insieme con i miei danari. Venne Enrico e gli contai la cosa. Rimase intontito. Mio fratello avrebbe dovuto già essere a casa, e non si vedeva. Ci mettemmo a tavola muti. Nessuno osava dire all'altro il suo sospetto. "Ma, che è successo? - scoppiai io. - Vito non viene!" E m'infilai certi calzoni vecchi, e con gli occhi di fuori lo andai cercando per le vie di Napoli cosà all'impazzata. Fui dalla zia e da don Nicola Del Buono, alla sua scuola, da parecchi amici: nessuno seppe dirmi niente. Tornai costernato. Passai la sera in casa Isernia, e mi sfogai ben bene con donna Rosa e donna Maddalena, due zitellone, tutte paternostri, che per giunta mi facevano la predica e accusavano la mia poca vigilanza. Rimasi per due giorni balordo, con gli occhi asciutti, senza forza di pensare a nulla, e quando mi si parlava del fatto, mi era trafittura. Al terzo o quarto giorno, ritirandomi, ch'era già ora tarda, veggo scendere dalle scale un signore, e io, miope e per solito frettoloso nell'andare, lo investo e ci trovammo muso a muso. Era il babbo. Le lacrime da lungo tempo compresse scoppiarono con abbondanza. Egli cercava calmarmi, chiamandomi coi piú dolci nomi, e pigliandomi la mano. Mi narrò che quel disgraziato s'era fuggito di casa con un tal don Raffaele, che lo spogliò per via e lo abbandonò. Cosà solo, a piedi, senza un quattrino e affamato, giunse in paese. Le circostanze del suo arrivo e le sue risposte confuse mossero il babbo a venire da me per sapere il netto. Fu questa una crisi terribile nella mia vita. Non me ne sapevo persuadere, né consolare. Quel fratello s'era perduto senza rimedio, e mi prese un dolore profondo a considerare quella leggerezza e quella ingratitudine. Era la prima volta che dalla famiglia mi veniva una puntura cosà acerba. Quanto piú alto e puro era il mio ideale della vita, tanto mi appariva piú riprovevole quella condotta.
Aggiungi a queste angosce del cuore la vita faticosissima, quasi senza riposo. La mattina ero al Collegio militare; verso sera andavo a scuola; gl'intervalli della giornata erano riempiuti dalle lezioni private. Metti pure il continuo travaglio della mente sui libri, e quell'aculeo del cervello che è la meditazione, diventa una abitudine e quasi un fantasticare, quando ci mancava sotto un fondamento serio. Questa era la mia vita. Mancavano quelle lunghe passeggiate che pur mi tenevano su, negli anni passati; mancavano pure le allegre conversazioni giovanili in casa Puoti, de omnibus rebus, che portavano al mio spirito notizia del mondo di fuori e lo dissetavano. La mia vita era monotona, quasi una ripetizione quotidiana. Seppellito nella scuola, sempre nello stesso piccolo cerchio d'idee, il cervello si fissava, e, attivissimo in un punto, rimaneva quasi stupido in tutti gli altri aspetti della vita. Di sentire delicatissimo, quell'ambiente volgare e grossolano in cui ero pur costretto di vivere, mi offendeva e mi guastava i nervi, sà che sempre mi sentivo esule dalla società , e cercavo rifugio nei giovani. Dimagravo a vista d'occhio; ero gracilissimo, spesso infreddato, e passavo i giorni fra tosse e mal di gola. Una buona igiene poteva forse guarirmi; ma ero inesperto e spensierato. Le occupazioni si prendevano tutto il tempo; pure, in certi ritagli della giornata contentava la mia voglia sfrenata di leggere, e la mia faccia gialla cadeva sui libri. Quel frequente chinarsi del petto e del capo mi aveva incurvato il dorso. Talora volevo leggere quello ch'era necessario a sapersi per la mia lezione: ma che! cominciato, non finivo piú che non finisse il libro. Sceglievo un periodo per la lettura; ma l'un periodo si tirava appresso l'altro, e divoravo le pagine, e passavo ore intere come immemore. Alzando il naso dal libro, mi guardavo intorno, come chi si sveglia e non riconosce ancora il luogo dove si trova.
Un giorno mi venne alle mani un trattato di patologia generale. Leggo e leggo con una curiosità mista di spavento quella infinita serie di morbi, e mi pareva il corpo umano come inverminito, e che vi pullulassero quei morbi l'uno dall'altro. Quelle descrizioni animate, che finivano quasi sempre col delirio e la morte, mi spaventavano e mi attiravano come un romanzo funebre. Lessi piú volte la descrizione del tetano: ignoravo il nome e la cosa. Impressionabile molto, mi pareva di sentirmi nelle ossa quei morbi che mi passavano dinanzi come fantasmi. Eccomi alla tisi. Mi batté il core, perché di quei mal sottile morivano per lo piú i giovani e le ragazze, e pietose storie se ne contavano, e io, cosà gracilino com'ero, mi toccavo spesso il petto per paura della tisi. Leggo adagio, notando i fenomeni, e, quando giunsi al calore nel vôto delle mani e al rossore delle guance scarne, mi levai turbato, che mi sentivo bruciare le mani, e corsi allo specchio per mirarmi le guance. Tacito, impensierito, stetti agitato per un paio di giorni, insino a che me ne confessai con l'antico medico di casa, signor Domenico Albanesi. Costui era un elegante mingherlino, ben chiomato, ben vestito, di faccia aperta e allegra. "Cos'hai?" mi disse, veggendo la mia brutta cera. Lo pregai di tastarmi il polso, esaminarmi il petto, e la voce mi tremava. "Ma io non t'ho visto mai cosà bene, - disse lui, toccandomi il polso. - Tu stai benone, via! vuo' farmi il malato di Molière?" Poi, mi guardò in viso, e, vedendo che stavo là non persuaso, aggiunse: "Dimmi, leggeresti forse qualche libro di medicina?" Gli narrai tutto, con semplicità uguale all'ingenuità . Il medico rise molto, e, accarezzandomi il mento, disse: "Gitta al foco tutti questi libri di medicina". Mi confortò piú quel riso che quelle parole, e tornai a casa rassicurato. Ma pochi giorni di poi mi venne all'orecchio una notizia che mi atterrò. Il povero medico faceva l'amoroso con una giovanetta, figlia del Ronchi, medico di Corte. E faceva l'amoroso come si soleva in Napoli, in istrada, a chiaro di luna, guardando, facendo gesti con la bella al balcone. Una di quelle sere che il freddo era grande, stando cosà al sereno, gli furono attaccati i polmoni, e cosà quel meschino, che rideva con me del mal sottile, moriva pochi dà appresso di mal sottile. Il fatto mi contristò assai. Non mi pareva vero di non dover piú incontrare per via quel giovanotto gaio e spigliato, che ammiccava di qua e di là le ragazze, e, vedendomi, diceva subito: "Come stai? Io sto benissimo".
Il fatto è ch'io era malato per davvero, malato di esaurimento, o, come si direbbe oggi, di anemia. Me ne fece avvertito una ragazzotta robusta come una contadina, con la quale talora ci vedevamo sopra un terrazzino a pianterreno, che metteva nella sua casa. Era conoscenza vecchia, e ci trattavamo alla buona e senza malizia. Ella mi diceva spesso che i miei occhi erano amorosi, e io non capivo e non rispondevo a tuono. La famiglia si riuniva sopra quel terrazzino per sollazzo, e si facevano parecchi giuochi. Un dà giocavamo a chi alzasse una sedia con sola una mano. Lei la ghermiva e la slanciava subito in aria; io mi ci scorticavo la mano, la levava a gran fatica, e il braccio si piegava, e piú ci poneva forza e meno mi riusciva di tenerla alta, ché il braccio mi tremava sotto. La bricconcella se la rideva, e mi mostrava il suo braccio rotondo e rubicondo, e, guardando al mio, diceva: "Il sangue non ci arriva". La sentivo con ammirazione. Poi guardai e vidi che il mio braccio era esile e pallido, e presi l'abitudine di strofinarmi i polsi con la mano per farci venire il sangue. A scuola ero un altro. Giovane tra giovani, esaltato in me stesso; là regnava il cervello, e il cervello straviveva. Nessuno, vedendomi cosà vivace e acceso, avrebbe pensato ch'io fossi infermo; pure, quella scuola si portava via una parte di me. Ventura fu che l'anno volgeva al suo termine, e io potei rinfrancare le forze in Sorrento.
Capitai in casa di una buona contadina, piuttosto agiata, che aveva una figliuola unica, grandetta e belloccia. La mamma nel dopo pranzo la lasciava con me, e passavo le ore accanto a lei, sedia a sedia, sopra un terrazzino coperto, onde si vedeva un bel cielo azzurro e il tranquillo mare. In altri tempi avrei fatto il poeta, e cavate fantasie graziose dalla luna, dalle stelle e dalle nuvole. Ma ora non mi veniva niente alla lingua, e stavo le ore intere a mirarla, e facevo il Consalvo, timido innanzi alla Divinità , e aspettava una parola da lei, e lei da me, e nessuno parlava. Da questo grottesco intermezzo mi vennero a togliere alcuni amici che mi menarono seco loro a desinare. Da quel tempo, per non trovarmi faccia a faccia con la mia bella statua di gesso, usai le ore vespertine a girare per quei ...
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