[Pagina precedente]...venne in pensiero: "la bella giovinetta, che ha paura di andar sola!" Ma rimasi a bocca chiusa, e lei senza piú mi si mise sotto il braccio. Mi tirò a dritta della Prefettura, per una brutta discesa, ch'io non avevo vista mai. E cammina cammina, mi trovai ingolfato tra vicoli fetenti che vedevo per la prima volta. "Ma dove andiamo?" Diss'io infine, rinnegata la pazienza e turandomi il naso. E lei, con la vocina rauca di uno strumento scordato, disse: "E mi volete lasciar cosí in queste brutte vie, signor cavaliere?" Io ansava per il caldo, avevo ritirato il braccio e la guardava fiso. Era una strega, con la faccia di un rosso carico, che pareva un empiastro. C'era in quella fisonomia non so che d'equivoco. Stetti per dirle: "Vai al diavolo!"; ma la mia naturale delicatezza mi tenne. E lei diceva: "Via, siate buono; avete fatto il piú, fate il meno, solo pochi passi". E mi si rimise sotto il braccio, e mi tirò seco, ringraziandomi e lodando il mio buon garbo. Andammo ancora un bel tratto, scendendo verso la Marinella, e ci fermammo a un uscio. Lei disse: "Fatemi ancora una grazia; accompagnatemi quassú; faccio una visita, e poi vi lascio". Entrammo in un salotto, dov'erano certe figure, gente di cattivo odore, come a dire falsarii di carte, usurai e simil risma. Lei entrò con impeto e disse: "Ecco, vi presento il signor contino". "Ah!" fecero quelli, e s'inchinarono. "Avete visto? - gridò la strega. - O ch'io era un cencio? o ch'io dicevo bugie?" E gridava per cento, e voleva ragione. Io stavo come un asino in mezzo ai suoni, e non ci capivo nulla, e non volli svergognare la sgualdrina. Quelli facevano scuse, e si tirarono con lei da parte, e parlarono a bassa voce. Poi la mi disse: "Andiamo, signor contino". Io aveva una grande stizza in corpo. Giunti in istrada, lei con un riso di caricatura mi disse: "Signor contino! signor contino!" E a me usci di bocca finalmente: "Vai al diavolo!" E, volte le spalle, studiai il passo, dicendo: "Dunque, allons, torniamo alla lezione!" Il dí appresso raccontai ai giovani come io era stato conte per un quarto d'ora, e fecero le grandi risa, ammirando la mia semplicità.
Capitolo VENTESIMOQUARTO
CAMILLO DE MEIS E LA MIA SCUOLA
La mia casa era cosí silenziosa, che mi ci pareva naufragare. E quando seppi che voleva abitare con me un giovane appartenente a una famiglia stretta d'antica amicizia con la mia ci ebbi gusto. E fu un vero acquisto.
Costui era Giambattista Mauro, di Andretta, un paese prossimo al mio. Veniva a fare i suoi studi, ai quali si diede con una serietà superiore agli anni. Semplice, modesto, sobrio di parole, di carattere facile e paziente, mi fu dolce compagno, e la compagnia si mutò presto in una stretta amicizia, fondata sulla stima. Mi pagava dodici ducati al mese. Piú tardi capitò un greco, certo Giovanni M... Educato a Parigi, veniva in Napoli per compiere i suoi studi, affidato alle mie cure. Mi offerse cinquanta ducati al mese. Questo mi fece aprir gli occhi. Mi parve una somma enorme, e quasi un tesoro venutomi da qualche zio d'America. Quei cinquanta ducati mi parevano una ricchezza inconsumabile, e, per fare onore all'ospite, non guardai a spese. Gli diedi la piú bella stanza e provvidi che il desinare fosse lauto. Era un giovane sveltissimo e vivacissimo, l'allegria della casa. La natura lo aveva fatto a grandi cose, ma i quattrini e Parigi avevano guasta l'opera della natura. Crebbe frivolo, superficiale; faceva dello spirito; motteggiava con frizzi spesso volgari. Suo bersaglio era principalmente Giambattista, che gli passava tutto con un mezzo riso, tenendosi sempre dalla sua. Prendeva aria di gran signore, affettava una superiorità benevola, che si esalava nei motteggi fatti con certo garbo di giovane a modo. C'era in quel suo riso un'amabilità che troncava le punte, e non ti dava modo di mostrarti offeso. Era un buon compagnone e un buontempone, vago di sollazzi tra gioviali brigate. Giambattista era il contrapposto di lui; la sua serenità era in contrasto grottesco con quella leggerezza capricciosa del greco. Veniva anche alla scuola; ma il suo spirito vi rimaneva estraneo, e stava lí solo per far raccolta di sali e di motti. Soleva mettere in caricatura tutti i nobili sentimenti; era come il diavolo in chiesa. Se la pigliava alcuna volta col povero don Francesco: non sapeva cosa ci venisse a fare lui, in quella età. Religione, patria, libertà, scienza, tutto ciò che faceva risuonare le nostre anime, rimaneva senza eco in quello spirito mobile. Nondimeno gli volevano bene, conversavano volentieri con lui, e lo trovavano un buon amico. Parecchi gli si attaccavano ai panni, e facevano le scampagnate con lui, tutto contento di fare le spese.
Questo diavoletto mutò le mie abitudini. Da modesto nel vivere e severo nel volto, mi fece allegro per forza, e prodigo. Vedendo che gli piaceva la compagnia, a tavola non mancavano mai invitati, amici suoi o miei. Si faceva del chiasso, si consumavano allegramente i cinquanta ducati. Sopraggiunse il babbo, che faceva lui solo per tre giovinotti, e inventava sollazzi e facezie, in buonissima lega col greco. Spiccava tra gli altri un don Raffaele, che mi veniva sempre incontro con le braccia tese, gridando: "allegramente!", come per darmi animo a essere de' loro. Costui finí con istallarsi a casa, pigliandosi la sua camera senza cerimonie, con aria di comando, come se il padrone di casa fosse lui. Per un tal modo di vita mi sarebbe occorsa una persona sicura, affezionata e proba; ma la casa era in mano alla servitú, e nessuno ci aveva l'occhio, e tanto meno io, assorto negli studi. Fra tanti chiassi s'insinuava una nebbia di dissipazione e di disordine, che mi dava il capogiro.
Ma questo turbinío rimaneva al di fuori di me, non mi scalfiva neppure. Il mio naturale tranquillo e concentrato resisteva senza alcuno sforzo alla corrente, e rimanevo sempre io. Non perciò facevo il Catone, ché non era il mio costume; anzi avevo una grande indulgenza. I motteggi non mi destavano collera, e gli scherzi anche grossolani non m'impazientivano. Un risolino, un'alzatina di spalla era la mia risposta. Perciò non perdevo autorità e non destavo antipatia. Stavo tra loro di buonissima voglia, senza confondermi con loro. Medicina efficace era la scuola, che tirava a sé tutto me.
In quell'anno la scuola s'era molto popolata. V'erano intervenuti giovani d'ingegno, che spiccavano in quella grande moltitudine. Era già venuto Carlo Pavone, giovane bonario e affezionato, concittadino di Magliani. Da Molfetta mi vennero i fratelli De Judicibus, Orazio Pansini, Felice Nisio, Samarelli. Di Calabria vennero Giuseppe De Luca, Liborio Menichini, Francesco Corabi, i fratelli Mazza, Diomede Marvasi. Venne da Venosa Luigi La Vista, da Spinazzola Michele Agostinacchia, e da Sarno Vincenzo Siniscalchi con parecchi altri. Ci vennero anche due frati, padre Juppa e padre Smith, ch'ebbero il ben venuto e furono tra i piú studiosi. Questa eletta schiera diede il tono alla scuola. Io li chiamavo il mio stato maggiore. Era visibile il progresso, soprattutto nei componimenti e nella critica. Non era piú quistione solo di lingua e di stile: i giovani si addestravano a cercare nelle viscere dell'argomento, a trovarvi la situazione, e da quella derivavano la bontà o il difetto del lavoro. Questo li tirava all'unità del disegno, all'ossatura e al congegno delle parti. Lo stile veniva in ultimo, ed era esaminato non solo in sé, ma piú in relazione all'argomento. Quando la conclusione della critica era questa formola: "la situazione è sbagliata", l'autore si faceva pallido, il lavoro era giudicato essenzialmente cattivo. Nei giudizi il piú indulgente ero io, che trovavo sempre nei lavori piú mediocri qualche pregio, il quale mi apriva l'adito a parole di conforto e d'incoraggiamento. Questa maniera di critica riusciva barocca presso gl'ingegni comuni, inetti a orientarsi e a guardare il lavoro nella sua sostanza, pedanti nel loro rigore e facili a dire: "La situazione è sbagliata". "Ciò che vi è di sbagliato, - dicevo io allora, - è la vostra critica". Un giudizio buono era un avvenimento, come un buon lavoro. Si dice che i giovani sono i migliori giudici dei professori, ed è vero, ed io ci credevo molto. Il livello infatti s'era tanto alzato, ch'io mi misi in pensiero, e misuravo le cose e le parole, perché essi, sincerissimi e attentissimi, talora mi guardavano con un'aria impersuasa, alzando il muso con un atto che voleva dire: "Questa volta non ha dato nel segno". Io mi ripetevo, rincalzavo, mi spiegavo meglio; ma la mia coscienza si avviliva in quel mio armeggiare, e la mia sincerità mi dipingeva sul volto la mia condanna. Questo mi rendeva piú preziosa la loro approvazione, ugualmente sincera, e mi stimolava a raccogliermi e a studiar bene. Non era in verità cosa facile imbroccare la situazione, guardando, nel fare la critica, la cosa da quei lati che l'argomento richiedeva. Talora si rimaneva troppo sul generale e s'ingrandiva il quadro, e questo avveniva per lo piú con frequenti richiami da parte mia. Qualche volta ci capitavo io, ed il loro volto diceva: "Ecco, anche lui ha incespicato". I due che avevano acquistato piú autorità erano Magliani e De Meis. Magliani era un po' secco, ma preciso e serrato. Però il suo dire non andava al cuore e non destava entusiasmo. De Meis era insinuante, incisivo, facile all'emozione, e guadagnava gli animi e suscitava le approvazioni.
Una sera la scuola era molto animata. Io ero di buonissimo umore, e lessi la Griselda del Boccaccio. Feci parecchie osservazioni piccanti, e scelsi tre giovani perché studiassero la novella e ne facessero la critica. Tra questi era De Meis, che si scusò allegando le sue occupazioni, ma insieme ci annunziò un suo lavoro. Era il primo suo lavoro in iscuola. Successe uno di quei movimenti di attenzione che segnalano qualcosa di straordinario. Egli cominciò adagino, con quella sua voce che anche oggi tocca il cuore, senza ombra di ostentazione o pretensione, semplice nello scrivere, com'era nella vita. Si trattava di uno studente venuto in Napoli e divenuto un giocatore. Il giovane era studioso, ma, capitato in mala compagnia, fu tratto al vizio. Sul principio il racconto procedeva liscio, ma sempre filato e nutrito, non stagnava mai e non divagava, l'attenzione era sostenuta. Poi, nella storia di quella depravazione progressiva si notarono certe finezze di gradazione, che rivelavano un ingegno superiore. Cominciò nell'uditorio uno di quei movimenti di soddisfazione, che si sentono e non si descrivono. Era un senso indefinito di ammirazione, che scoppiò in voci di applauso quando il giovane autore, con uno stile colorito e pittoresco, ci mostrò il giovane, sprofondato nel gioco, che "metteva la sua anima su quattro carte dipinte". Quel motto fece cosí viva impressione, che non l'ho dimenticato piú. Quando finí, gli fummo tutti attorno, e io mi levai e gli andai incontro, e dissi: "Ecco un'altra rivelazione". Ebbe un'ovazione, in mezzo alla quale egli si faceva piccino, quasi per sfuggire a quel trionfo.
De Meis divenne l'anima della scuola. Lo stimavano per il suo ingegno e per la sua coltura straordinaria, e lo amavano per la bontà della sua natura. Anima pura e ideale, accompagnava la rettitudine e severità dei princípi con un'amabile indulgenza, che gli amicava anche i piú rozzi. Partecipe a tutti i sollazzi giovanili, piú per compiacenza che per desiderio, aperto all'amicizia, salí in tale fiducia e in tale dimestichezza, che divenne il confidente intimo di quella gioventú. Pure serbò tanta modestia, che sembrava lui solo ignorasse quello ch'egli valeva.
La scuola s'era arricchita di altri valorosi. C'era venuto Francesco Saverio Arabia, Cirillo di Trani, Paolo Kangian; e tutti si strinsero intorno a De Meis. Questo nucleo di giovani, mantenutosi saldo insino a che durò la scuola, divenne il punto fermo, intorno al quale girava tutto il resto. La scuola prese un'aria di famiglia, penetrata da un solo spirito. Non ricordo mai che un giovane si...
[Pagina successiva]