[Pagina precedente]...di, guasta l'intelletto e il cuore. Dissi il simile di quelle figure che hanno la loro radice nell'immaginazione e nel sentimento. "Buttate al foco le rettoriche, - dicevo, - e anche le logiche. Ci vuole il verbum factum caro, la parola fatta cosa. Studiare le cose, questa è la vostra rettorica. Le cose tireranno con sé anche le forme, le quali solo in esse e con esse sono intelligibili. Lo studio isolato delle forme adusa l'intelletto al vacuo. Solo nello studio delle cose lo spirito esercita ed educa tutte le sue forze, e a questa educazione dee provvedere la scuola".
L'istruzione non ha limiti. Nessuno può esaurire, non dico le scienze, ma né una scienza sola, per circoscritta che sia. Ogni anno si allarga il campo del sapere; dopo alcuni anni il maestro diviene appena un discepolo. Perciò l'ufficio della scuola non è l'istruzione sola, ch'è un fine inarrivabile, ma ancora e piú l'educazione dello spirito in tutte le sue forze. Questo io chiamava ginnastica dell'anima. Le forze te le dà la natura, ma limitatamente anche nei piú grandi. Ricordandomi certi miei studi di medicina, descrissi i quattro famosi temperamenti, notando le loro forze e le loro debolezze. Mi promettevo un grand'effetto da quella lezione, che contro il mio costume avevo scritta tutta intera, non ben sicuro della materia. Avevo segnato anche nella memoria i punti che mi parevano piú interessanti, e dai quali mi attendevo grandi applausi. Ma gli applausi non vennero né grandi né piccoli; anzi la lezione fu udita con una freddezza insolita, che a poco a poco guadagnò anche me. Non mi sapevo consolare di questo insuccesso, e passai la sera con quel chiodo nel cervello. Il dà appresso, attendendo il marchese per la traduzione, si fece crocchio; e io, con quel martello che aveva nel cuore, buttai fuori tutti i miei pensieri. "La lezione che ieri mi costò molta fatica, ma non fu gradita, fu un vero fiasco. Io ci ho pensato ben sopra, ed ecco la spiegazione. Voi non credevate alla mia competenza, e io non ci credevo. Quella materia, ancorché molto da me ruminata e studiata nei piú piccoli particolari, rimaneva fuori del mio spirito, come parte di una scienza a me nuova. Temevo di errare, pesai le virgole, usando i modi e le parole del testo, e sempre con questo pensiero fitto in mente: dovesse uscirmi qualche sproposito! Cosà riuscii freddo e insipido, scontento io, scontenti voi. E ho imparato a mie spese, che a parlar bene d'una materia è mestieri aver dimestichezza con la scienza di cui è parte. Ed ecco nella mia persona un esempio di quello ch'io ho chiamato serietà dell'intelletto. Questa serietà mi è mancata". La mia confessione, fatta con tutta bonomia, mosse in loro un riso di applauso, e io mi sentii compensato abbastanza dell'insuccesso.
Sissignore, la natura ti dà le forze e le attitudini. Non si nasce solo poeta; si nasce oratore, filosofo, scrittore. La natura ti dà la genialità ; e se la natura fa difetto, non c'è arte che possa riempire questa lacuna. Ma la natura è semplice potenzialità ; occorre l'educazione perché diventi atto. E questo è il miracolo che dee fare la scuola. Discorsi del basso concetto in che è tenuta la scuola, e del dispregio che si ha dei maestri e degli studenti. "Il maestro, - dicevo io, - non dee dogmatizzare, tenersi fuori dell'uditorio, sputar senno e mettere sempre innanzi il suo personcino. Egli dee entrare in comunione intellettuale con la gioventú, e farla sua collaboratrice. È in questo lavoro di tutti e di ciascuno che si genera l'amore del vero, il desiderio della ricerca e dell'esame, la pazienza dell'analisi; è in questa collaborazione che si fondano le amicizie e si formano le piú nobili qualità dell'anima, le piú alte aspirazioni, il culto della scienza accompagnata dalla modestia e dalla bontà ". E questa fu la mia rettorica.
Venne poi la poetica. Qui non avevo che studi superficiali. Non ebbi mai la pazienza di legger tutta intera l'Arte poetica di Orazio o di Boileau, o la Ragion poetica di Gravina. Costui, malgrado gli elogi del marchese, m'era antipatico; lo trovavo pesante e pedante, spesso piú acuto che vero. Della metrica conoscevo solo le divisioni e suddivisioni dei trattati scolastici; la materia era quasi nuova nelle sue profondità . Non avevo tempo di leggere; mi posi a meditare e ad osservare. Sentivo un giubilo, quando quel mondo a metà oscuro mi si rischiarava; e quel giubilo brillava sulla faccia dei giovani, attirati da osservazioni inaspettate. Mi fermai molto sull'endecasillabo, ch'io chiamai potentissimo, mostrando le ragioni della sua superiorità sull'alessandrino, la cui monotonia, cantilena e parallelismo mi spiacevano. Mostrai la flessuosità del nostro endecasillabo, che, mediante la posizione degli accenti, rispondeva a tutti i bisogni della melodia e dell'armonia. Notai che, come le parole e le frasi, cosà i versi non vanno considerati solo in se stessi, come buoni o cattivi, ma ancora e principalmente per rispetto alle cose. Perciò la magnificenza è qualità relativa, e, a pigliarla in senso assoluto, è cosa cosà biasimevole, come in prosa l'eleganza ricercata e l'ornamento. Dissi che i principii generali dell'arte dello scrivere intorno al modo di concepire, di situare e di esprimere gli oggetti, sono i medesimi anche per la poesia. La differenza è nel fine e nella facoltà motrice, la quale nella prosa è l'intelletto, e nella poesia è la fantasia. Riserbando a uno speciale trattato questo studio, e tornando alla metrica, dissi che tutti i metri sono parti e frammenti dell'endecasillabo, nel quale spesso ci è la risonanza di questo o di quello, come del quinario, del settenario, del decasillabo. La lettura dei versi prese per noi un nuovo sapore. Facevo osservazioni piccanti e minute sul loro congegno e sui vari effetti di melodia. Distinsi il verseggiatore dal poeta. Colui era un fabbro piú o meno perito, non un artista. Venni alle rime e poi alle strofe, e feci una breve storia del sonetto, della canzone, della terzina, dell'ottava e del verso sciolto, secondo i tempi e secondo gli autori. Parlai della poesia solenne e della poesia popolare. Mostrai che il cammino delle forme poetiche è determinato dalla civiltà , e si va sempre verso la maggiore libertà di congegno e verso la maggiore popolarità . A quel modo che la lingua, arricchendosi, va sempre piú rompendo i suoi nativi confini, e si va sempre piú accostando alle forme popolari del dialetto; a quello stesso modo la poesia produce con piú libertà nelle sue forme, e si rinfresca e si rinsangua nell'immaginazione popolare. Cercai gli esempi nella nostra storia, e spiegai cosà la preponderanza, negli ultimi poeti, del verso sciolto, e la libertà nel gioco delle rime e delle strofe.
Di queste lezioni qualche notizia giungeva al marchese, travisata ed esagerata, come suole avvenire. Gli si diceva ch'io insegnava la noncuranza, anzi il dispregio della regola e delle forme. Egli non mi fece motto, ma vedevo sul suo volto una certa freddezza. Quello che non diceva lui, dicevano i suoi discepoli, dei quali alcuni mi gridavano la croce addosso, motteggiando me e la scuola. Alcuni miei discepoli, esagerando la dottrina del maestro, e pigliando per Vangelo qualche parola uscitami nel calore della lezione, andavano gridando che delle grammatiche e delle rettoriche bisognava fare un bel falò. Questi vari rumori mi giunsero all'orecchio, e ne fui sdegnato. Nuovo del mondo, inesperto delle passioncelle che muovono gli uomini, mi meravigliava che le mie opinioni fossero riferite senza quella misura giusta nella quale io mi tenevo. Non pensai di aprirmene col marchese; la mia natura poco comunicativa, anzi restia, me lo impediva. Credulo nella sincerità degli altri, pensai che la colpa dovesse esser mia, e che forse non m'ero spiegato bene. Feci dunque un'ultima lezione, nella quale mi studiai di dare le piú precise determinazioni alle mie idee. Dissi che lo studio delle cose e l'educazione delle nostre forze intellettuali e morali sono il fondamento dell'arte; ma che l'arte non si può esercitare senza istrumenti, e che le forme sono gli strumenti dell'arte. Citai con lode il marchese, e dissi ch'egli soleva chiamare le forme, "i ferri dei mestiere". Le mie lezioni non erano state che uno studio delle forme, e non dovevano menare al disprezzo di quelle. Dizionari, grammatiche, rettoriche, poetiche non erano roba da gittare al fuoco. Sole esse conducono alla pedanteria; ma lo studio delle cose, scompagnato da esse, conduce alla barbarie. Quello solo rimane nei posteri che riceve il suo suggello dalla forma. Paragonai le forme al culto, senza il quale la religione rimane un fatto interiore, senza espressione. Dissi ch'era bene studiare le forme con la penna in mano, notando i modi, i pensieri, i versi che piú facevano impressione. "Notate anche, - dicevo, - i vostri pensieri e le vostre osservazioni, giorno per giorno; sarà il giornale dei vostri studi, non meno prezioso che il giornale della vita. Ciascun dà riandate la vostra giornata, fate il vostro esame di coscienza; scrivete i fatti, i pensieri, i sentimenti buoni e cattivi; siate confessori a voi stessi. Nessun uomo fa senza del libro dei conti; oh come dee mancare il libro della scuola e il libro della vita? Con l'uno imparerete a scrivere, con l'altro imparerete a vivere".
Stetti alcuni dÃ, dicendo fra me: "Qualcuno dirà di questa lezione al marchese". E m'immaginavo già che mi venisse incontro con quella sua faccia aperti, piena di bontà . Andai a lui e lo trovai muto e freddo. Nessuno gliene aveva detto verbo. Curiosa questa natura umana!
Capitolo ventesimosesto
LA LIRICA
Vennero l'anno appresso alcuni altri bravi giovani: Gabriello Balsamo, Ermenegildo Barci, Casimiro e Francesco De Rogatis, Belfiore, i fratelli Finelli, Francesco Bax, Pasquale Villari, Domenico Müller Ferdinando Vercillo. Erano passati alla scuola del marchese i giovani Filippo De Blasio, Enrico Capozzi, Giuseppe Talamo, Matteo Vercilio. Tormentando la memoria, non mi sovviene di alcun altro. La scuola era numerosissima. Già la fama se ne spargeva per la città e per le province. In essa si era naturalmente formata l'aristocrazia dell'ingegno. Per consenso tacito di tutti, i migliori occupavano i banchi d'innanzi. Mi corse allora per la mente una reminiscenza della scuola del Puoti, e volli consacrare quella distinzione ufficialmente, volli anch'io gli Eletti. Il marchese gustò l'idea, perché ci vide come un ritorno alle sue tradizioni. Vi fu una gran festa scolastica, ed egli venne con tutti i suoi maggiorenti. Io pronunziai un discorso che non trovo piú fra le mie carte. Il sugo era che la scuola è presentimento della società , che quei primi banchi erano pronostico degli alti posti sociali a cui salgono i piú degni, dei quali gli altri sono come il corteggio ed il coro. Potevo temere che quella distinzione fosse principio d'invidia e di piccole gare; ma, schivo d'intrighi e di raccomandazioni, feci la scelta con tale dirittura, che tutti la trovarono giusta. Dicevano: "Cosà avremmo fatto noi".
Quell'anno cominciarono le lezioni di letteratura. Nel corso sullo stile e sulla rettorica avevo stabiliti i princÃpi generali dell'arte dello scrivere. Qui venni ai cosà detti generi di letteratura, collegandoli con quella parte della rettorica che si chiama invenzione. "I generi, - dissi, - sono determinati non dalle forme, ma dal contenuto; anzi è il contenuto che determina le forme, secondo la sua natura e la sua impressione sull'anima. La stessa grande divisione di prosa e poesia non basta a determinare i generi, perché lo stesso contenuto si esprime in poesia e in prosa, secondo le sue impressioni nel tal tempo e nel tal luogo. Per esempio, il poema epico e la storia appartengono allo stesso genere, quantunque l'uno sia poesia e l'altra sia prosa. I generi e le loro forme hanno la loro origine e il loro andamento nella storia dell'umanità , attraverso i secoli. Il linguaggio dell'immaginazione e del sentimento precede il linguaggio della riflessione. Perciò la poesia a...
[Pagina successiva]