LA GIOVINEZZA, di Francesco De Sanctis - pagina 32
...
.
Nelle opere spigliate o scorrette del Metastasio, del Bettinelli, del Monti sentivo leggerezza e superficialità, con un odore talvolta di ciarlataneria.
Quando cominciò la mia scuola, mi capitarono le critiche del Galilei sulla Gerusalemme Liberata.
Alcune mi parvero stiracchiate; ma in altre trovai garbo e buon senso piú che in nessun altro nostro scrittore, e capii l'eccellenza dell'Ariosto sopra i suoi precursori e imitatori, e sopra il Tasso.
Fino a quel tempo leggevo l'Ariosto come un poeta piacevole nella sua stranezza, e non ci avevo mai pensato sopra, e talora mi domandavo, maravigliato, in che fosse superiore all'Amadigi o all'Orlando innammorato, ch'io leggevo con ugual piacere, e perché molti lo ponessero innanzi al Tasso, delizia dei miei primi anni e modello di perfezione agli occhi miei.
Basti dire che sapevo a memoria dal primo all'ultimo verso la Gerusalemme, e dell'Orlando furioso appena alcuni brani mi rimanevano impressi.
Debbo al Galilei un concetto piú sano e piú preciso dello scrivere poetico.
Questo era lo stato del mio spirito, quando diedi principio alle mie lezioni.
Intorno a me si aggirava il rumore delle vecchie opinioni.
L'unità d'azione, di tempo e di luogo era un assioma; l'Iliade era il modello immutabile di tutti i poemi possibili.
C'erano regole fisse, dalle quali non era lecito scostarsi.
Sotto nome di princípi correvano generalità applicabili a tutt'i casi, come certe ricette.
La Divina Commedia non era un poema, l'Orlando furioso neppure: poesie divine sí, ma contro alle regole; e non sapevano raccapezzarsi sotto qual genere andassero allogate.
C'era la gran lite degli episodi, e si pretendeva che la Divina Commedia fosse una serie di episodi, e non si leggevano che alcuni di essi, stimati piú belli.
Dante era poco meno che un barbaro.
Poco si leggevano gli stranieri; Shakespeare passava addirittura per barbaro, e Lope de Vega per un ciarlone.
Rousseau e Voltaire erano nomi scomunicati.
Ignoti quasi una gran parte degli scrittori dal secolo decimottavo in poi.
Poco si leggeva, meno si studiava, molte erano le chiacchiere.
La nostra ignoranza degli scrittori stranieri dava proporzioni eccessive al merito degl'italiani.
Alfieri era superiore a tutti i tragici, e Goldoni a tutti i comici, e la Basvilliana veniva comparata alla Divina Commedia: non si distingueva il mediocre dall'eccellente.
Queste tendenze erano pure nei miei scolari, e si può comprendere il perché di quella mia introduzione, che oltrepassava nei suoi intenti il poema epico, e abbracciava tutta l'arte.
A tale generalità di regole e di modelli io sostituivo la particolarità di un contenuto determinato dalle condizioni esterne e dalle facoltà del poeta.
Ciascun contenuto ha la sua situazione, la sua forma organica, e in quell'organismo bisogna cercar la sua regola.
Il contenuto è come un individuo, il quale, appunto perché individuo, è dissimile da ogni altro, e ha nel suo organismo il segreto de' suoi pensieri e delle sue azioni.
Facevo notare del pari la grande analogia tra le formazioni poetiche e le formazioni naturali.
Come la materia, determinata dalle sue forze o leggi, e dalle condizioni esterne, raggiunge una forma vitale; cosí il contenuto poetico, la materia cioè o l'argomento, determinato dalle forze del poeta e dalle condizioni esterne in cui egli vive, si specializza, prende una data situazione, acquista la sua forma, diviene un organismo.
La poesia, come la natura, è un lavoro di concentrazione e di diffusione insieme, e lo paragonavo a un circolo, dove la concentrazione nel centro produce la diffusione ne' raggi, e anche al sole, luce concentrata che si diffonde nei pianeti.
Io metteva molto calore in queste lezioni, con un moto di braccia, con una energia d'accento, come se avessi un avversario dinanzi a me.
La gioventú mi seguiva con attenzione religiosa, come s'io fossi un predicatore di culti nuovi.
Certo, in quella estetica improvvisata, ch'io andava predicando da tre anni, c'era un tantino di esagerazione.
Invaghito della individualità di ciascun contenuto, davo poca importanza alle specie e a' generi, al comune e all'universale, alle relazioni, alle somiglianza, a' contrasti.
Ma la conseguenza fu buona.
I giovani si avvezzarono a far getto delle vuote generalità, a metter da parte regole e modelli, a studiare gli scrittori, inviscerandosi in essi.
C'era meno presunzione e piú studio.
Quelle generalità non erano solo nella scuola antica o classica.
Peggio facevano certi novatori, i quali cercavano il segreto dell'arte nei concetti e ne' tipi.
Si fondavano sul Vico, che cercava nell'arte le idee e i tipi, e giudicavano il valore delle opere poetiche secondo la verità e la grandezza delle loro idee e l'eccellenza de' loro tipi, trascurando in tutto la forma e l'espressione.
Perché s'era abusato delle forme, essi le cancellavano, e riducevano la poesia a concetti e tipi generici.
Questo pareva a me una esagerazione peggiore, perché, se quelli guardavano nella poesia le forme piú grossolane, questi le sottraevano tutta la parte viva, sí che ella vania in astrazioni filosofiche.
Ora io combattevo anche con maggior calore queste esagerazioni.
Non potevo con pazienza sentir dire che l' Iliade rappresenta lo stato di famiglia, e che Achille rappresenta la forza.
Mi pareva che tutte queste rappresentanze fossero generalità astratte, e che a dir questo non si dicesse ancor nulla che valesse a darci un giudizio adeguato dello scrittore.
Mi trovavo tra i retori e i filosofi, e mostravo il viso agli uni e agli altri, studiando di tenermi in bilico tra i due estremi, coi miracoli del mio contenuto.
E mi messi a studiare l'organismo de' poemi, derivandolo dal contenuto cosí com'era situato e formato nella mente del poeta.
Quel mio quadro storico dell'umanità dava il contenuto in sé o astratto; ora io considerava la sua vita nelle forme poetiche.
Analizzai il contenuto pre-omerico, secondo le orme di Vico, e ne dedussi che Omero era la mente di quel contenuto.
Escludevo che l'Iliade fosse compilazione di rapsodie, fatta da qualche erudito.
Le grandi poesie hanno le loro fonti in cicli poetici anteriori, perché tutto si lega, e la storia, come la natura, non procede per salti: gradazioni progressive generano da ultimo il gran poeta, che dà a tutta la serie la forma definitiva.
Cosí Dante è il gran poeta delle visioni religiose; Petrarca è il gran poeta dei trovatori; Ariosto dié l'ultima mano alla serie cavalleresca.
Chiamare compilazioni le ultime e grandi poesie, solo perché non sono creazioni miracolose, ma produzioni di lunga e lenta elaborazione, è una esagerazione manifesta.
Come l'uomo è l'ultima e piú progredita forma della serie animale, cosí le grandi figure storiche dànno, ciascuna, l'ultima mano alla elaborazione de' secoli.
Citavo il motto del mio caro Leibnizio, che il presente è figlio del passato e padre dell'avvenire.
Esposi la potente unità organica dell'Iliade, e, ricordando un detto del mio buon maestro Fazzini, dicevo "essere cosí impossibile che quel poema fosse un accozzamento di rapsodie, come è impossibile che il mondo fosse un accozzamento fortuito di atomi".
Venendo a' tipi omerici, dicevo che bisognava tenere un procedimento contrario a quello del Vico.
Vico tirava dal vivo della poesia i tipi e le idee, perché costruiva una scienza della storia; noi dovevamo rituffare nella forma quei tipi e quelle idee, per avere l'intendimento dell'arte.
Perciò polverizzavano l'arte quelli che la riducevano a concetti puri, fraintendendo il Vico.
Mostrai che Achille non era un tipo generico ed esemplare, ma un tipo individualissimo, prodotto da que' tempi, come gli Dei e gli eroi, foggiato dal poeta in quell'atmosfera, della quale viveva egli medesimo; perciò non possibile ad imitarsi in altri tempi e da altri poeti.
Raffrontai quella forza barbara, indisciplinata e appassionata, co' sensi umani e anche delicati di Ettore, e commossi la scuola leggendo il famoso addio di Ettore, dove si rivelano il marito, il padre e il patriota.
Di Virgilio lessi il sogno del terzo libro e il fatto d'Eurialo e Niso, tirandone argomento a varie osservazioni di stile, giudicando io Virgilio come il piú grande stilista dell'antichità.
Feci l'architettura della Divina Commedia, mostrando quanta serietà di disegno era in quel viaggio, base sulla quale si ergeva l'edificio della storia del mondo, e piú particolarmente italiana e fiorentina.
Notai nell'Inferno una legge di decadenza sino alla fine, e nel cammino del poema una legge di progresso sino alla dissoluzione delle forme e alla conoscenza della immaginazione, superstite il sentimento.
Mi preparai la via, combattendo i metodi de' piú celebri comentatori, che andavano a caccia di frasi, di allegorie e di fini personali.
Notai che la grandezza di quella poesia è in ciò che si vede, non in ciò che sta occulto.
Lessi la Francesca, il Farinata, l'Ugolino, il Pier delle Vigne, il Sordello, l'apostrofe di San Pietro e altri brani interessanti, facendovi sopra osservazioni che non dimenticai piú, e furono la base sulla quale lavorai parecchi miei Saggi critici.
Posso dire che la mia Francesca da Rimini mi uscí tutta di un getto in due giorni, e fu l'eco geniale di queste reminiscenze scolastiche.
È inutile aggiungere che queste lezioni novissime sulla Divina Commedia destarono vivo entusiasmo.
I sunti, fatti da' miei discepoli e rimastimi, ne rendono una immagine pallidissima e, come dice Dante, "fioca al concetto".
Originali furono pure le mie lezioni sull'Orlando furioso.
Analizzando le qualità di quel contenuto cavalleresco, ne dedussi che quello che la turba chiamava disordine era ordine, e quello che la turba chiamava irregolarità era regola.
Tirai da quel contenuto la situazione e la forma di quella vasta varietà; e, posta quella situazione, trovavo regolare quella pluralità di azioni, che a' piú sembrava un peccato mortale.
Confutai le argomentazioni del Tasso nel suo Discorso sul poema epico, e chiamai lo scrittore un gran poeta e un mediocre critico.
Questo mi tirò addosso una tempesta.
Stefano Cusani, Giambattista Ajello, soprattutto Stanislao Gatti, dal piglio impertinente e ironico, me ne vollero, quasi avessi profferita una bestemmia.
Non potevo patire che il Tasso chiamasse l'Orlando furioso un poema senza principio e senza fine, e ci sentivo quella pedanteria che lo condusse alla Gerusalemme conquistata.
La controversia s'infuocò, e finí con un distinguo, ammettendo io che il Tasso era un critico valoroso secondo que' tempi.
In quella varietà ariostesca mostrai che avevano la lor parte legittima il licenzioso ed il ridicolo, dato sempre quel contenuto e quella situazione.
Notai che quel suo cotal riso a fior di labbra, quasi volesse prendersi beffe del suo argomento, era una ironia spontanea e incosciente di tempi adulti, che si rivelò con chiarezza riflessa nel Don Chisciotte.
Notai infine l'inesauribile varietà de' suoi colori, la limpidezza delle sue fantasie e delle sue forme, la forza fresca e allegra della produzione.
Lessi la famosa scena della Discordia, l'entrata di Rodomonte in Parigi, la morte di Zerbino, la pazzia di Orlando, l'andata di Astolfo alla luna, il combattimento di Biserta, Olimpia e Bireno, Cloridano e Medoro, la morte di Rodomonte.
In queste letture io ero minuto ne' piú delicati particolari dello stile e della lingua; e dicevano ch'era un altro, perché pareva che dalle piú alte contemplazioni scendessi nelle piú umili sfere.
La verità è ch'io mi sentivo sempre il maestro, sempre in contatto co' discepoli, e in quelle letture m'ingegnavo d'accostarmi piú a loro, di dir cose che non avevano trovato luogo nelle lezioni.
Esaminando il contenuto nella Gerusalemme, m'incontrai nella grossa questione dell'influenza del Cristianesimo sull'arte.
Allora non conoscevo ancora i fanatici panegirici, mescolati con sottigliezze dottrinarie, di Guglielmo Schlegel, e m'aiutavo da me.
Notai il carattere cosmopolitico, universale, cattolico della nuova religione, che oltrepassava le nazioni e creava l'umanità; i grandi centri di popoli, che allargavano l'orizzonte del poema epico; il concetto di fratellanza e di carità, che aboliva la schiavitú e stringeva in un solo patto tutti i figli di Eva; la consacrazione del dolore e del sacrificio, come via di redenzione; l'emancipazione dello spirito dalla materia; l'aspirazione a forme piú elevate e piú musicali, sino al puro sentimento.
Questo fu materia di parecchie lezioni.
E mi ci scaldai tanto che, dovendo padre Juppa, mio discepolo e uomo serafico per mansuetudine e innocenza di costumi, fare una predica su' benefizii del Cristianesimo, volli fargliela io medesimo, e riuscí un bello e dotto panegirico, molto lodato.
Mostrai quanta potenza l'idea cristiana ebbe nello spirito di Dante, e come la Divina Commedia fosse appunto la storia ideale del Cristianesimo.
Da questo desunsi i caratteri del contenuto, che il Tasso avea scelto per argomento.
Ma il Tasso non si obbliò in esso, e non lo fece suo, come Dante fece nella Divina Commedia, e come fece l'Ariosto nell' Orlando furioso.
Il Tasso non vi entrò con animo libero, e portò seco appresso le regole di Aristotile e la voga cavalleresca.
Cresciuto in mezzo a' retori, che si vantavano critici, volle fare un poema secondo le regole, e, scegliendo una materia nuova, volle innestarvi la parte cavalleresca.
Voleva in somma conciliare Omero e l'Ariosto, fare un Ariosto corretto e regolare, piú conforme alle leggi del verisimile e al senso storico.
Fu punito, perché trovò critici piú severi di lui, che accusarono il poema di scorrezione, e non lo trovarono né omerico, né aristotelico.
La parte cavalleresca fu trovata una intrusione e una dissonanza in argomento sacro, e si aggiunse che, diminuendo le proporzioni di quella fantastica cavalleria, per ridurle piú vicine al probabile, immeschiní la materia, senza farla piú corretta.
Cosí avvenne che parecchi gli preposero per regolarità il Trissino, e, quanto alla cavalleria, l'Ariosto gli rimase al di sopra.
E, poiché il suo spirito partecipava a quella critica ne' punti fondamentali, dopo vana resistenza, vi si rassegnò; e, per correggere gli errori del poema, volle rifarlo di pianta, e scrisse la Gerusalemme conquistata.
Il poeta era scomparso sotto la rigidità del critico.
Volendo accostarsi piú al verosimile e allo storico, guastò la verità poetica, e, correndo dietro all'ombra di bellezze teologiche, fece olocausto di bellezze profane, ch'erano la parte piú geniale del poema.
Seguendo regole convenzionali, perdette d'occhio le regole eterne dell'arte.
Non corresse, ischeletrí il poema.
Il Tasso era un poeta geniale, di molta immaginazione e sensibilità, dotato piú di dolcezza che di forza, e altissimo a far sue tutte le idee cristiane, la cui nozione fondamentale è la carità.
Abbattutosi in quel contenuto cristiano, ebbe poca virtú di trasfondersi in esso e cercare ivi le sue ispirazioni.
Si fece trascinare dalla moda e dalla critica, e, spirito poco resistente, visse in perpetua lotta tra questi elementi ostili.
Volle sottoporre a modelli omerici un contenuto di natura affatto diversa, e la moda, tirandolo appresso a' poeti cavallereschi e tormentandolo con l'immagine rivale dell'Ariosto, gli velò in parte la novità e la divinità del suo contenuto.
Quando, in età piú matura, volle porvi rimedio, era troppo tardi, e non attinse del nuovo contenuto che le parti esteriori e accidentali.
Nondimeno si deve alla ispirazione cristiana la parte piú eletta del suo poema: il fatto di Sofronia, la morte di Clorinda, e un cotal poco anche il suo Tancredi.
Lessi l'episodio di Sofronia, e mostrai l'intima sua commessura col poema, indicando la vanità di quella rassegna militare a imitazione omerica, ch'egli vi sostituí nella Gerusalemme conquistata.
Notai certi moti psichici, indizio di una intimità rara nei nostri poeti.
Cosí Tancredi prende superbia a vedere in maggior copia il sangue del suo nemico; Solimano piange alla vista del suo paggio ucciso; Argante, cominciando il duello, guarda a Gerusalemme caduta.
Anche è notevole una certa serietà di sentimento, quantunque l'espressione sia rettorica, com'è ne' lamenti di Tancredi e ne' furori d'Armida.
L'organismo del poema, come tessitura, è perfetto, e l'ottava, se non ha l'onda melodica del Poliziano e dell'Ariosto, è però piú nutrita e s'imprime piú facilmente nella memoria.
Nel vezzoso e nel molle non ha eguale, come si vede anche nell'Aminta.
Il suo viaggio alle Isole fortunate è un capolavoro, e le molli lascivie di que' giardini e di que' palagi magici sono una vera magia di stile.
Conchiusi che il Cristianesimo, nella sua ingenuità e spontaneità, aveva avuto la sua poesia nel Vangelo; e che quel contenuto, calato in mezzo a un'atmosfera ostile, impregnata d'indifferenza, di superstizione e d'ipocrisia, sperduto tra elementi poetici e critici, alieni dalla sua natura, non poté assimilarsi uno spirito entusiasta e malato, naufrago fra quelle correnti.
...
[Pagina successiva]