[Pagina precedente]...ave con ammirazione di tutti; il marchese non potea stare fermo e dava di gran pugni sul tavolo; anche oggi mi sta nell'orecchio quella musica che ci rapiva tutti, maestro e discepoli. Il Boccaccio e Dante e il Petrarca erano "serbati per le frutta", come diceva il marchese, e voleva dire che s'avevano a leggere in ultimo. Ma l'ordine era rotto; gli "Anziani" avevano preso la mano. Si lesse una predica dei Segneri sul giudizio finale; una descrizione della chiocciola di Daniello Bartoli, per il quale sentiva il marchese un entusiasmo che non giungeva a comunicare: c'era qui il riflesso e l'eco di Pietro Giordani, gran trombettiere a quel tempo del Bartoli. Insieme con questi seicentisti si leggeva la novella del Gerbino o la descrizione della peste o la Griselda del Boccaccio, e le "Chiare, fresche e dolci acque", e le tre sorelle sugli occhi di Laura, e il celebre "Levommi il mio pensiero", e parecchi altri sonetti del Petrarca, e i primi canti di Dante, e del Purgatorio e del Paradiso certi luoghi piccanti, come il Sordello e la collera di San Pietro. Queste cose che avevo lette da solo, tra molta gente e tra cosí vive impressioni, acquistavano un nuovo sapore.
Non perciò i trecentisti erano dimenticati. Il marchese che lavorava a una grammatica, attendeva pure alla pubblicazione di alcuni testi di lingua piú a lui cari, come i Fatti di Enea, i Fioretti di San Francesco, le Vite dei Santi Padri. Questi studi di lingua s'erano già divulgati nelle scuole, e si sentiva il bisogno di grammatica e di libri di lettura pei giovanetti. Il marchese, intorniato dai giovani, attendeva a questo con gran fervore, tormentando dizionari e grammatiche. Voleva lasciare di sé un'orma durevole pei suoi cari studi; vagheggiava soprattutto una stampa del soavissimo Domenico Cavalca, ch'egli per semplicità e affetto metteva innanzi a tutti suoi contemporanei. Una sera, non so come, gli tornò in mente quel frate suo favorito, e volle, come nei primi tempi, si leggessero alcune sue Vite. Fu data lettura di alcuni capitoli del sant'Antonio abate, e delle Vite di sant'Eugenia e di santo Abraam romito. Se i trecentisti fanno "spensare", come diceva Alfieri, certo è che la loro lettura svegliava gli spiriti piú sonnolenti, e vi suscitava immagini, colori, affetti. Nessun libro moderno trovava tanto la via del mio cuore nessuno aveva quella sincerità e caldezza di sentimento, accompagnata con l'unzione e l'ingenuità del credente. La mia schiettezza quasi ancora fanciullesca, la mia perfetta buona fede, la mia facilità all'entusiasmo mi rendevano atto a cogliere le piú delicate gradazioni di quei sentimenti. Mi ricordo anche oggi il tumulto che suscitò nel mio animo la lettura della vita di sant'Alessio; anche oggi mi tocca il core il grido della madre: "Fatemi loco, ch'io vegga quello che ha succhiato le mammelle mie"; e mi sdegno con lei contro i servi che "gli davano le guanciate". Questi modi di dire non li ho dimenticati piú; ma mi è uscito di memoria tutto quel frasario convenzionale, che piaceva alla scuola, e che fu raccolto con tanta pena nei miei quaderni. Quel sant'Alessio non mi lasciò piú, mi correva appresso dove ch'io fossi. Una sera mi sentivo cosí tristo, che non volli uscire di casa insieme coi miei cugini, che passavano la serata presso zia Marianna. E sempre quel sant'Alessio mi stava innanzi, e pensai di scrivere una tragedia sopra questo argomento. La Merope del Maffei, il Saul dell'Alfieri, l'Aristodemo del Monti erano letture fresche, celate al marchese; e feci la tela, e notai i personaggi, e caldo caldo, scrissi in poche ore il primo atto. Ci sentivo un gusto che mi alleggeriva l'umore; quegli endecasillabi mi venivano facilissimi sotto la penna. Parecchi giorni non pensai, non sentii che di Alessio: secondo il mio costume nessun'altra cosa mi voleva entrare in capo. Cosí in men che due settimane, quasi di un sol fiato, arrivai alla fine. Non mancavano le tirate e le descrizioni; pur qualche cosa era lí che mi veniva dal cuore.
Avevo stretto amicizia con Enrico Amante, che abitava in un piccolo quartierino a Porta Medina, insieme con suo fratello Alberico. Egli era studente di legge, aveva fatto buoni studi di diritto romano, conosceva assai bene il latino e scriveva l'italiano latinamente. Il suo autore era Giambattista Vico; gli aveva fatto molta impressione quell'opuscolo dell'antica sapienza italica. Vedeva l'Italia in Roma; sembrava un antico romano italianizzato. Parlava come scriveva, alla maniera di Tacito, breve e reciso; era ingenuo e sincero nei suoi sentimenti. Ammirava tutto ciò che è grande e forte; sognava il risorgimento della gente latina, libertà, gloria, grandezza, giustizia. Odiava plebe e preti; c'era in lui anima fiera di patrizio. Lo studio dell'antichità aveva lasciato orme profonde in quello spirito giovanile; quei sentimenti non gli venivano da un'ammirazione classica o rettorica, ma erano connaturati con lui, fatti sua carne e suo sangue. Non mi ricordo come ci vedemmo e conoscemmo; fatto è che nacque tra noi quella rara comunione di anime, che non si rompe se non per morte. A me parevano molto esagerate le sue opinioni; ma quella sua bontà e sincerità mi vinceva, e in quelle sue stesse esagerazioni trovavo una grandezza morale e una caldezza di patriottismo, che mi destavano ammirazione. Andavo spesso in casa sua, e mi ci sentivo piú tranquillo, piú disposto al lavoro; gli parlavo de' miei studi, del marchese Puoti. Egli aveva poca inclinazione alle cose letterarie; quella lingua ferrea di Vico gli piaceva piú che tutti i lisci e gli ornamenti; non capiva a che fosse buona la poesia. Pure la mia coltura letteraria, la mia varia erudizione, la sincerità delle mie opinioni e de' miei sentimenti, la vivacità dell'ingegno e della parola me lo tenevano legato. In certi momenti che avevo nel core qualche puntura, mi sentivo alleggerire sfogandomi con lui. Presto divenne il mio amico intimo e confidente. Gli volevo leggere la mia tragedia; ma non osai, sapendo in quanto dispregio avesse poeti, frati e Santi. Era in lui piú virilità che tenerezza; io capivo istintivamente che non potea piacergli quel lirismo sentimentale di sant'Alessio. "Non so che gusto ci è a leggere questi frati Guido e frati Cavalca", mi disse una volta. La differenza di opinioni e di caratteri generava calde discussioni che stringevano ancora piú la nostra amicizia.
Intanto Giacomo Leopardi era giunto tra noi. Avevo una notizia confusa delle sue opere. Anche di Antonio Ranieri non sapevo quasi altro che il nome. Il marchese citava con lodi l'abate Greco, autore di una grammatica, il marchese di Montrone, il Gargallo, il padre Cesari, il Costa e sopra tutti essi Pietro Giordani. Tra' nostri citava pure il Baldacchini, il Dalbono, il Ranieri, l'Imbriani. Di tutti questi non avevo io altra conoscenza se non quella che mi veniva dal marchese. Una sera egli ci annunziò una visita di Giacomo Leopardi; lodò brevemente la sua lingua e i suoi versi. Quando venne il dí, grande era l'aspettazione. Il marchese faceva la correzione di un brano di Cornelio Nipote da noi volgarizzato; ma s'era distratti, si guardava all'uscio. Ecco entrare il conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo in piè mentre il marchese gli andava incontro. Il Conte ci ringraziò, ci pregò a voler continuare i nostri studi. Tutti gli occhi erano sopra di lui. Quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità. Non solo pareva un uomo come gli altri, ma al disotto degli altri. In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s'era concentrata nella dolcezza del suo sorriso. Uno degli "Anziani" prese a leggere un suo lavoro. Il marchese interrogò parecchi, e ciascuno diceva la sua. Poi si volse improvviso a me: "E voi, cosa ne dite, De Sanctis?" C'era un modo convenzionale in questi giudizi. Si esaminava prima il concetto e l'orditura, quasi lo scheletro del lavoro; poi vi si aggiungeva la carne e il sangue, cioè a dire lo stile e la lingua. Quest'ordine m'era fitto in mente, e mi dava il filo; era per me quello ch'è la rima al poeta. L'esercizio del parlare in pubblico avea corretto parecchi difetti della mia pronunzia, e soprattutto quella fretta precipitosa, che mi faceva mangiare le sillabe, ballare le parole in bocca e balbutire. Parlavo adagio, spiccato, e parlando pensavo, tenendo ben saldo il filo del discorso, e scegliendo quei modi di dire che mi parevano non i piú acconci, ma i piú eleganti. Parlai una buona mezz'ora, e il conte mi udiva attentamente, a gran soddisfazione del marchese, che mi voleva bene. Notai, tra parecchi errori di lingua, un onde con l'infinito. Il marchese faceva sí col capo. Quando ebbi finito, il conte mi volle a sé vicino, e si rallegrò meco, e disse ch'io avevo molta disposizione alla critica. Notò che nel parlare e nello scrivere si vuol porre mente piú alla proprietà de' vocaboli che all'eleganza; una osservazione acuta, che piú tardi mi venne alla memoria. Disse pure che quell'onde coll'infinito non gli pareva un peccato mortale, a gran maraviglia o scandalo di tutti noi. Il marchese era affermativo, imperatorio, non pativa contraddizioni. Se alcuno di noi giovani si fosse arrischiato a dir cosa simile, sarebbe andato in tempesta; ma il conte parlava cosí dolce e modesto, ch'egli non disse verbo. "Nelle cose della lingua, - disse, - si vuole andare molto a rilento", e citava in prova Il Torto e il Diritto del padre Bartoli. "Dire con certezza che di questa o quella parola o costrutto non è alcuno esempio negli scrittori, gli è cosa poco facile". Il marchese, che, quando voleva, sapeva essere gentiluomo, usò ogni maniera di cortesia e di ossequio al Leopardi, che parve contento quando andò via. La compagnia dei giovani fa sempre bene agli spiriti solitari. Parecchi cercarono di rivederlo presso Antonio Ranieri, nome venerato e caro; ma la mia natura casalinga e solitaria mi teneva lontano da ogni conoscenza, e non vidi piú quell'uomo che avea lasciato un cosí profondo solco nell'anima mia.
Conobbi in quel torno un tale Ambrogio C..., che si spacciava parente del marchese Puoti. Mi faceva cortesie e lodi, e io, facile all'abbandono, gli dicevo tutti i fatti miei, come si fa a vecchio amico: una facilità di cui mi sono pentito spesso. Mi fece visita, e gli mostrai una montagna di manoscritti miei. C'erano lí dentro compendi di libri filosofici e legali, e trattatelli scolastici, e quaderni di frasi e di sentenze e di pensieri e di proverbi, e i miei scritti giovanili, lettere, novelle, racconti, descrizioni, ritratti, fino la mia tragedia di sant'Alessio. Rimase stupito di quella ricchezza e di tanto lavoro; e mi chiese a imprestito tutta quella roba per potervi studiare a suo agio. Non seppi dir di no. Colui studiò, studiò e studia ancora, perché quei manoscritti non sono tornati piú, e di lui non ho avuto piú notizia. Cosí rimasi solo per davvero. Quei manoscritti erano stati i miei compagni nelle ore malinconiche. In casa non mi ci potea piú vedere, e già col pensiero dimoravo in compagnia del mio caro Enrico.
Capitolo dodicesimo
IL COLERA
E ci voleva pure il colera! Questo ignoto e sinistro morbo, dopo di avere spaventato mezza Europa, piombò sopra Napoli come un flagello. Le immaginazioni furono colpite; la paura rendeva irresistibile l'epidemia. Si raccontavano molti casi di colera fulminante, con le circostanze piú strazianti. Si parlava di famiglie intere spente, di migliaia di morti al giorno, e coi piú minuti particolari si descrivevano i casi di contagio. Non c'erano allora giornali; il governo col suo mutismo accresceva il terrore e provocava le esagerazioni. Quel tintinnio di campanelli che accompagnava le comunioni, pareva la campana dei morti; i piú agiati fuggivano alle loro ville; la plebe squallida e sudicia faceva spavento; nessuno osava accostarsi; l'uno fuggiva l'altro. La vita pubblica fu sospesa; le scuole, le botteghe erano deserte.
Il morbo, che dopo alcuni mesi pareva ammansito, riprese con piú furore l'estate dell'anno...
[Pagina successiva]