[Pagina precedente]...rioso fusse, e quanto in uno principe si richiede altiero, pure percosso da amore cadde in amare Agatocle vulgare meretrice. Qui ebbe amore non piccolo imperio, ove valse far servo un re a una meretrice. Furono ancora non pochi in alto e prestante luogo di dignità e fama, i quali vinti d'amore interlassorono e' fatti e gloria civile e amplissima. Rammentami fra gli antichi di Pompeio Massimo, quello uno uomo in Italia e in tutte le province celebratissimo cittadino, per cui fu la calamità farsalica e dolorosa sparsione di sangue civile. Costui, nell'altre cose solertissimo e diligentissimo, suggetto d'amore si ridusse in solitudine in villa fra gli orti e selve, ove ogni altra cosa, ogni concorso e salutazione di molti nobilissimi quali in gran copia teneva amici, ogni amministrazione delle cose pubblice e prestantissime a lui era minore che amando vivere con quella una sola sua carissima Iulia. Non fu certo, non fu poca opera allo amore tenere in solitudine quello animo amplissimo e immenso, a cui non parse troppo certare armato per ottenere lo 'mperio sopra tutti li prÃncipi.
Ma tutto il dà si vede chi e laude e fama e onore meno per amare apregia. E infiniti quanto si truova prepongono l'amore all'amistà . Puossi l'amor tra moglie e marito riputar grandissimo, però che se la benivolenza sorge da alcuna voluttà , el congiugio ti porge non pochissima copia d'ogni gratissimo piacere e diletto; se la benivolenza cresce per conversazione, con niuna persona manterrai piú perpetua familiarità che colla moglie; se l'amore si collega e unisce discoprendo e comunicando le tue affezioni e volontà , da niuno arai piú aperta e piana via a conoscere tutto e dimonstrarti che alla propria tua donna e continua compagna; se l'amicizia sta compagna della onestà , niuna coniunzione piú a te sarà religiosissima che quella del congiugio. Aggiugni che tutt'ora crescono tenacissimi vinculi di voluttà e di utilità a contenere e confirmare ne' nostri animi infinita benivolenza. Nascono e' figliuoli, e' quali sarebbe lungo dire quanto e' siano comune e firmissimo legame a colligare gli animi a una volontà e sentenza, cioè a quella unione la quale si dice essere vera amicizia. Non mi stendo in racontare quanta utilità si tragga da questa congiugale amicizia e sodalità , in conservare la cosa domestica, in contenere la famiglia, in reggere e governare tutta la masserizia, le quali tutte cose sono in le donne tali, che forse alcuno stimarebbe per esse essere l'amore congiugale sopra di tutti gli altri interissimo e validissimo. Ma pure, non so come, non raro si truova a chi piú piace uno strano amante che il proprio marito. E piú si recita che fu apresso el fiume Ganges quella famosissima nelle province orientali reina, quale, se ben mi ramenta, Curzio storico ne' gesti d'Allessandro raconta ch'ella amò un vilissimo barbiere, e per rendere l'amante suo ornatissimo e fortunatissimo sofferse uccidere el vero prima suo marito.
Della piatà e officio de' padri non molto acade a dire, la qual tu stessi dianzi confessasti ad Adovardo ch'ella era cosa molto insita e infissa nel petto de' padri. Pure non so qual maggior forza, a cui natura non può opponendosi sostenere, la iscacci qualche volta ed estermini degli animi paterni. Leggesi di Catelina quanto riferisce Sallustio storico, che amando Aurelia Orestilla uccise il suo proprio figliuolo per congiugnersela in sposa. Certo adunque si vede l'amore essere pure cosa troppo sopra le forze umane possente e valida, e manifesto si vede quanto gli animi feriti da quello divino strale, col quale i poeti descrivono che Cupidine saetta e impiaga le menti umane, siano troppo obligati e suggetti a non potere né sapere volere o seguire se non quanto stimino essere accetto e grato a chi egli amino. Cosa troppo mirabile che loro opere, loro parole, loro pensieri, loro ogni animo e mente stia tanto al continuo presta e sollicita a solo obbedire la volontà di coloro a cui l'amore l'abbia subietto, tale che non tanto a noi sono le nostre membra ossequente e faccenti, quanto l'innamorato studia d'aseguire e servire subito e pronto ogni cosa grata a colui al quale esso sé stessi tiene dedicato. E di qui mi pare sia quello antico detto del sapientissimo Catone, el quale, stimo io, niuno dubita essere verissimo, quanto e' diceva che l'animo dello amante si riposa in altrui seno. Troppa divina forza adunque sarà questa, se amore potrà in uno volere solo infiammare, e in un petto solo contenere due anime.
Che diremo noi, Lionardo, adunque? Che l'amare sia sozzo? Che nell'amore sia poca licenza? Che allo amore sia debole forza sopra degli animi umani? Forse dirai l'amore tanto può e tanto piglia licenza quanto noi stessi gli concediamo. So desideraresti in noi giovani quell'animo senile e pieno di instituti filosofici quale confesso essere in te. Ma guarda se cosà convenga, come diceva Cherea apresso Terenzio..., subito nasciamo vecchi. E anche non so se a que' tuoi filosofi medesimi sia permesso fuggire questa fiamma e ardore celeste certo e divino. Aristippo filosafo, maestro di quelli nominati Cirenaici filosofi, si legge, come sai, amava una meretrice chiamata Laide, ma diceva essere l'amor suo differenziato dagli altri, imperoché lui avea Laide, e Laide avea gli altri amanti. Stimo voleva persuadere solo sé essere amando libero, ove tutti gli altri fossero servi. Metrodoro, quell'altro filosafo..., senza onestare l'amore suo con iscusa alcuna, apertamente amava Leonzia meretrice, alla quale ancora quello Epicureo notissimo filosofo soleva scrivere sue lettere amatorie. Non adunque ammirabile suo possanza qui monstrava l'amore? Se questi animi superbi e duri, e' quali non delle cose a tutti gli altri mortali acerbe e quasi non comportabili alcuna, non povertà , non paura, non dolore poteva abattere, ché gli veggiamo con quanta baldanza quella sola generazione d'uomini, chiamandosi amatori della virtú, facevano professione di spregiare le ricchezze, concertavano contro al dolore; nulla, né ira di nimici, né ingiuria, né morte temevano, e degl'iddii poco alcuni di loro curavano, e copiosi scrissono biasimando ogni timore di cosa umana e divina, tutti detraendo alla forza di quella qual noi conosciamo e proviamo potentissima fortuna, sempre vituperando qualunque dilicatezza del vivere; pur questi cosà austeri e armati di tanta ragione e sapienza cadeano e giaceano vili e convinti d'amore. Molle e lascivo amore, che rompi e attriti ogni superbia e alterezza d'animo umano! Errore, fallace cupidità , brutto amore, poiché se' ubidito dagli animi ricchi d'ogni ragione, forti d'ogni constanza, bellissimi e nobilissimi d'ogni civiltà e costume!
Quanto, Lionardo, quando io penso alla maestà e nome di questi famosissimi filosafi e degli altri assai, quali per brevità lascio adrieto, e quando mi pongo innanzi la integrità e religione loro, e poi gli veggo soggiogati e in sà brutti luoghi posti dall'amore, stima, Lionardo, sarebbe non difficile persuadermi non solo quella sentenza qual solevan i medesimi filosafi dire esser verissima, che l'amore era ministro degli iddii dato a cura e salute della gioventú, ma molto ancor piú mi può parere cosa divina; né veggo l'amicizia in sé conservi forze quanto l'amore ringiovinire negli annosi petti giovenili e amorose fiamme, e nella superbia degli imperii tenere sà basse le volontà e apetiti reali, porre in sà eccelsa dignità e stato uno infimo e abietto mercennario, farci stimare vile ogni fama, farci posporre ogni laude e glorioso essercizio, renderci debole qualunque vinculo di parentado. Ma io non voglio seguire piú oltre in questa materia, ché troppo temo non ti parere quasi come se io difendessi la causa mia propia. Renditi certo, Lionardo, io non amo, e benché in me io non senta questa forza dello amore, pur quanto da molti mi ramenta avere udito assai e letto, mi pare in gran parte da consentire a queste poche ragioni quali addussi, colle quali forse mi sono monstro troppo in questa sentenza fermo e troppo indulgente verso l'amore. Ma pensa tu quale tu mi troverresti, s'io con queste ragioni insieme tenessi in me quelle faci con che amore si fa adorare e gloriare. Non dubitare ch'io statuirei l'amore essere, sopra non dico all'amicizia, ma a qualunque gloriosa cosa, degno molto e divino.
LIONARDO A me piace lo 'ngegno tuo, né mi dispiacciono questi essempli, non perché seco adducano firmissime ragioni a persuadere, ma perché in essi veggo te pure, quanto io stimava, essere studioso. Lodoti, Battista, se hai voluto cosà meco essercitarti, ma guarda che forse non fusse meglio scoprirti inamorato e parerti errare, che non amando parerti non errare chi ama; imperoché io con piú diligenza confuterei ogni tuo argomento per in tutto levarti da questa opinione e servitú dello amore; ove ora, non bisognando biasimarti questo furore amatorio, quale a te stessi debbono que' tuoi molti essempli porre a non poco odio, solo quanto m'occorrerà a mente seguirò teco ragionando. E perché il nostro conferire sia piú chiaro, questa furia, cioè amore venereo, chiamerollo inamoramento, e chi da essa sia preso dicasi inamorato. Quello altro amore libero d'omni lascivia, el quale congiugne e unisce gli animi con onesta benivolenza, nominià llo amicizia. Questi di cosà onesto e benivolo animo affezionati chiaminsi amici. Gli altri amori fra congiunti apellaremo paterni e fraterni secondo che acaderà .
Ora torniamo alla disputazion nostra, nella quale tu, volendo attribuire forza, imperio e quasi divinità allo amore, fusti molto copioso in racontare diverse stultizie d'alcuni innamorati, quasi come se noi ricercassimo chi tra gli antichi fusse stato furioso e stolto, o come niuno fra' nostri oggi si truovi nella sua gioventú amatore, el quale insieme non sia simile a que' tuoi in tutto furioso. Ma sia come tu vuoi. Siano gli amanti tutti da quel tanto furore, quale sanza che Catone ci amunisca, ciascuno intende che può nelle mente deboli e inferme tanto, che chi in sé lo riceve, costui in tutto si ritruovi fuori di sé stessi, e nel seno e volontà d'altrui si riposi, e ivi, suo errore, e certo grandissima e infinita stultizia, le cose degne nella vita de' mortali, quelle pelle quali ciascun prudente espone opera, fatica, sudore, sangue e vita per in parte asseguirle, ivi dico l'innamorato lo reputi in men pregio che una sua lasciva e sozza voluttà , non si curi della fama non onesta, non di niuno religiosissimo vinculo per adempiere un suo brutto apetito. Che diremo noi, Battista, questo essere forza d'amore, o vizio d'animo infermo e impeto d'opinione corrotta? Tu Antioco, e tu, o Tolomeo, chi vi trasse ad amare? Fu una leggiadra bellezza, un vezzosissimo costume? Anzi fu un poco onesto e manco modesto appetito. Tu Pompeio, e tu reina orientale, qual forza vi vinse a giacere in tanta lascivia? Una troppo affezionata benivolenza? Anzi una debole ragione, una vana opinione, un troppo vostro errore. E tu Catelina, onde patisti in te tanta essere crudelità ? Non fu fiamma e ardore divino, no; anzi bestiale e troppo immanissima tua libidine. Non suole l'amore fruttare odio, ma benivolenza; non iniuria, ma beneficio; non furore, ma giuoco e riso. Non adunque attribuire tanto imperio a questo amore, poiché in nostra libertà fu accettarlo, in nostra ragione lasciarlo, ma nel seguirlo somma stoltizia.
Gli animali incitati dalla natura niente possono contenersi. Adunque neanche gli uomini? Certo sÃ, quelli ne' quali non sia piú che nelle bestie ragione e giudicio a discernere e fuggire la disonestà e vizio, e chi mai lodasse negli uomini alcune virtú, le quali sà sono propie nostre che con altri alcuno animante terrestre mai permisse la natura esserle comuni. E quale uomo sarebbe mai da preponere, anzi da segregarlo dagli altri animali bruti e vili, se in lui non fusse questa prestanza d'animo, questo lume d'ingegno, col quale e' senta e discerna che cosa sia onestà , onde con ragione poi sèguiti le cose lodate, fugga ogni biasimo, e simile, quanto adrizza la ragione, ami la virtú, ao...
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